Da qualche giorno è chiaro che Matteo Salvini, nei suoi exploit estivi al rum e menta, ha prodotto ben due miracoli: l’alleanza del Pd con il “Movimento mai col Pd” e la resurrezione del politico che aveva giurato di uscire dalla politica due anni fa, Mattero Renzi. Ma se il primo fenomeno è inconfutabile, sul secondo rimangono dei dubbi.

Dopo aver innescato la rivoluzione che ha portato i dem a smentire se stessi pur di non tornare alle elezioni, l’ex Premier ha scoperto le carte. Con il ribaltone agostano ha salvato il Paese, impedendogli di ruzzolare nel burrone salviniano, ma ormai è chiaro che questo non era il suo primo obiettivo. Nell’harakiri leghista, Renzi ha visto innanzitutto l’occasione di rilanciarsi, di tornare a essere protagonista. E il fatto che i suoi interessi personali (per una volta) coincidessero con il bene del Paese è da imputarsi essenzialmente alla buona sorte.

Che questa ricostruzione corrisponda al vero è dimostrato dagli avvenimenti dell’ultimo mese. Non solo l’ex Presidente del Consiglio ha costituito i gruppi parlamentari autonomi di Italia Viva (lasciando nel Pd una pattuglia d’infiltrati capitanata da Lotti), ma da allora ha iniziato a petulare quotidianamente contro il governo, salvo poi ripetere di non voler mettere in discussione la maggioranza.

In effetti, se Renzi facesse cadere i giallorossi si tirerebbe una zappata sui piedi in stile Capitan Papeete. I sondaggi danno il suo partito appena al 4%: un po’ poco per uno che ha governato tre anni lasciando l’Italia – a suo dire – in condizioni floride. Renzi però non si preoccupa. Ritiene fisiologica la scarsa popolarità iniziale della sua formazione e (supponendo che questa legislatura arrivi a scadenza, o quasi) è convinto di poter arrivare in doppia cifra alle prossime elezioni politiche.

In attesa della Leopolda di fine ottobre, il buon Matteo ha già avviato l’operazione rimonta, cercando di presentarsi agli elettori in una veste inedita: quella di Mister Basta-Tasse. Continua a ripetere che il governo avrebbe voluto alzare l’Iva e che solo grazie a lui il progetto strozza-consumi non è andato in porto. Tutto ciò non corrisponde al vero, perché nell’esecutivo si era parlato di rimodulare le aliquote più basse appesantendo il carico su alcuni generi di lusso e alleggerendolo su altri acquisti primari, ma la verità è troppo complicata per essere riassunta in slogan, perciò fandonie e forzature hanno vita facile. Peraltro in questa sua narrazione, forse inconsciamente, il leader di Italia Viva rubacchia slogan e pose del fu Silvio Berlusconi, a cui – nemmeno troppo segretamente – vuole sfilare il voto dei moderati di centrodestra.  

Il punto è: ma questo elettorato esiste ancora? Forza Italia è data ai minimi storici (6%, secondo il sondaggio “Atlante Politico” condotto da Demos per Repubblica), superata perfino da Fratelli d’Italia (8,6%). La Lega, malgrado i disastri di Salvini, rimane saldamente il primo partito con più del 30%, mentre Movimento 5 Stelle e Pd seguono staccati di 10 e 11 punti. In uno scenario così polarizzato, la resurrezione renziana rimane una prospettiva quantomeno improbabile.

Non solo. Anche a voler ammettere l’esistenza di uno spazio libero fra i cosiddetti moderati, il problema è che gli italiani hanno manifestato in ogni modo un risentimento personale nei confronti di Renzi. E non perché non hanno capito quanto fosse magnifica e progressiva la sua riforma costituzionale: ad avercela con lui sono i lavoratori licenziati ingiustamente e non reintegrati per l’abolizione dell’articolo 18 contenuta nel Jobs Act; i pensionati defraudati dei risarcimenti a cui avevano diritto; gli studenti e gli insegnanti massacrati dalla Buona Scuola; i poveri rimasti fuori dal bonus 80 euro (che molti della classe media hanno dovuto restituire) e via elencando.

Possibile che di qui 2-3 anni gli italiani si siano scordati di tutto questo? In realtà sì, è possibile. Accecati da fantasiose promesse fiscali, abbiamo dato prova di amnesie ben peggiori a beneficio di politici ben peggiori. In teoria, perciò, Renzi potrebbe seguire anche su questo terreno le orme berlusconiane. Gli mancano giusto la simpatia e la proprietà di un impero mediatico.

Lo si può criticare sotto molti aspetti, ma di sicuro fra i suoi talenti c’è il contropiede. Dopo aver rovinato Salvini con il ribaltone d’agosto, Matteo Renzi spiazza anche Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle con la scissione d’autunno. Gli unici a non essere sorpresi, per paradosso, sono stati proprio i dirigenti del Pd, più abituati degli altri alle sorprese del politico di Rignano.

Il Presidente del Consiglio e i grillini, invece, si sono irrigiditi. L’addio di Renzi ai dem li ha gelati, ha fatto nascere in loro il sospetto di essere caduti in trappola. Più che il fatto in sé, a sorprenderli sono stati i tempi e i modi. In fondo, l’ex Premier aveva appena recuperato centralità nel Partito Democratico, convincendo la direzione a ribaltare completamente la linea politica per andare al governo con i pentastellati e sbarrare la strada alla Lega. Dalla crisi agostana Renzi è uscito trionfante, bullandosi di aver fregato Salvini. Quindi perché spaccare il partito proprio ora?

Conte, Di Maio e i pasdaran grillini sono disorientati, non sanno se fidarsi, chiedono rassicurazione ai nuovi amici dem. Ma allo stesso tempo sanno benissimo che la maggioranza al momento non rischia nulla, visto che Renzi non ha alcun interesse ad aprire una nuova crisi di governo. Per almeno tre motivi.

Innanzitutto – al di là del pericolo leghista alle porte, peraltro già ridimensionato – un ritorno alle urne nel breve periodo sarebbe esiziale per Italia Viva, che attualmente nei sondaggi supera di poco la soglia di sbarramento del 3% prevista dal Rosatellum per i seggi ripartiti con il proporzionale (il 61% del totale).

In secondo luogo, con il voto immediato Renzi perderebbe la presa sui gruppi parlamentari del Pd, colonizzati con le truppe cammellate delle ultime liste elettorali e ancora ampiamente controllati grazie a un cospicuo drappello d’infiltrati, ossia di super-renziani rimasti per il momento nel recinto dem per puro calcolo strategico.

Terzo: proprio in virtù di questo potere parlamentare, è impensabile che Renzi corra il rischio di marginalizzarsi prima delle nomine ai vertici delle Autorità e soprattutto delle grandi aziende pubbliche. Fra cariche scadute e in scadenza, le poltrone da rinnovare entro la primavera dell’anno prossimo sono circa 400 e comprendono presidenti, Ad e Cda di colossi come Eni, Enel, Leonardo, Poste e Terna, le punte di diamante di una lista che comprende anche Agcom, Anac, Invitalia, Sogei, Sace, Ansaldo Energia, Simest, Enav e molte altre.

In questa fase, perciò, la domanda non è quando Renzi farà cadere il governo, ma come si comporterà finché rimarrà nella maggioranza. La scissione gli permette di aumentare esponenzialmente il proprio potere personale al tavolo delle decisioni e tutti sanno che, per carattere, il buon Matteo non è tipo da accontentarsi. Alzerà di continuo l’asticella delle richieste e cercherà di proporsi all’opinione pubblica come il vero anti-Salvini, superando la concorrenza di Zingaretti (ammesso che esista) e soprattutto di Conte (ben più agguerrito e popolare del segretario dem).

Per non subire l’attivismo di Renzi, M5S e Pd dovranno mettersi d’accordo in fretta sulle proposte di riforma da portare in Parlamento, così da prevenire quelle di Italia Viva. E la partita inizia subito nel modo più complesso, visto che il primo compito del governo Conte 2 è scrivere la legge di Bilancio 2020.

La sortita ultima di Matteo Renzi ha smosso le acque già torbide del sistema politico italiano. La sua nuova avventura politica ha ottenuto al momento l’attenzione sperata ma molti meno consensi di quelli ipotizzati. Del resto, Renzi - lo si è detto su questo giornale in più di una occasione - è personaggio di grande presenza scenica ma completamente digiuno di politica, laddove per essa s’intende la cultura delle idee sia in chiave dottrinaria che empirica e la conoscenza della strategia e della tattica necessarie al raggiungimento del consenso.

Con la fiducia dei due rami del Parlamento il governo si è formalmente insediato alla guida del Paese. Sebbene il programma esposto dal Presidente Conte contenga spunti interessanti, la sua proiezione apparentemente inemendabile verso le politiche rigoriste che impone Bruxelles non lascia grandi margini all’apertura di una nuova stagione politica.

Dunque nessuna illusione circa le virtù riformatrici di questo nuovo governo, ma non è questo il suo destino, non a questo serve, non per questo vive. Semplicemente nel nascere ripone al loro posto le cose: ristabilisce un ordine naturale nelle alleanze politiche, rimette nel recinto del medioevo la destra italiana e apre una stagione di contaminazione possibile tra un’idea di modernizzazione del sistema e il mantenimento di principi storici di natura politica e persino etica, come quello della disciplina repubblicana che impone la discriminante antifascista. Un governo di salute pubblica lo si può definire.

Per fortuna, Rousseau non riserva mai grandi sorprese. Dei 117mila iscritti alla piattaforma del Movimento 5 Stelle hanno votato in quasi 80mila e il risultato è stato schiacciante: il 79,3% ha detto Sì a un governo Conte2 con il Partito Democratico. Tutto è stato tranne che un esercizio di democrazia diretta. Il numero di persone ammesse alla consultazione era risibile non solo rispetto al corpo elettorale italiano, ma anche alla fetta di popolazione che un anno e mezzo fa ha chiesto di essere rappresentata in Parlamento dai pentastellati (quasi 11 milioni di persone). E poi Rousseau non è affatto un’agorà pubblica, ma uno strumento gestito da una società privata - la Casaleggio Associati - che veste comodamente i panni del controllato e del controllore. Il ruolo affidato a questa piattaforma è perciò un’aberrazione istituzionale e politica.

Tuttavia, visti i pericoli a cui è esposto il Paese, oggi quello che conta è il risultato. E cioè che Giuseppe Conte potrà recarsi già questa mattina al Quirinale per sciogliere la riserva e dare vita a un nuovo esecutivo.

La conseguenza più importante per l’Italia è il tramonto delle ambizioni di Matteo Salvini. Il leader della Lega esce malconcio dalla crisi che lui stesso ha aperto, commettendo l’errore più grave della sua carriera. In pieno delirio di onnipotenza causato dai sondaggi, il numero uno della Lega ha creduto di poter forzare il ritorno alle urne, dimenticando che siamo una democrazia parlamentare e che al momento nelle Camere il suo partito è solo il terzo più rappresentato.

In modo più che patetico, Salvini su Twitter si dice “orgoglioso di aver smascherato il progetto Conte-Renzi teleguidato dall’Europa”. Insomma, avrebbe fatto cadere il suo governo per smascherare un complotto internazionale il cui scopo era far cadere il suo governo. Sembra una barzelletta.  

La verità è che il segretario leghista non si aspettava il tuffo carpiato di Matteo Renzi, che subito dopo l’apertura della crisi ha lanciato l’idea di un governo Pd-M5S, ribaltando la strategia dei popcorn inaugurata poco più di un anno fa. Con questa svolta, l’ex Presidente del Consiglio non solo ha scaricato la pistola in mano a Salvini, relegandolo all’opposizione, ma ha anche ripreso in mano le redini del suo partito (sempre che le avesse mai cedute). Il segretario dem, Nicola Zingaretti, avrebbe preferito le elezioni per sbarazzarsi degli attuali gruppi parlamentari del Pd - renziani al 100 per cento - e piazzare sulle stesse poltrone i suoi uomini. Poi però la pressione del partito e dei suoi numi tutelari - da Prodi a Veltroni - insieme a quella delle cancellerie europee lo ha costretto a cambiare idea. Sbarrare la strada a Salvini era troppo importante, un obiettivo da raggiungere a qualunque costo.

Quanto al Movimento 5 Stelle, il voto su Rousseau segna la sconfitta di Luigi Di Maio e il trionfo di Conte. Il capo politico pentastellato esce dalla crisi fortemente ridimensionato: perde la carica di vicepremier (Dario Franceschini è stato abile a levargli l’alibi di questa rivendicazione, rinunciando per primo alla nomina) e viene declassato come ministro (dal super-dicastero Lavoro+Sviluppo economico passerà probabilmente alla Difesa).

Per settimane il 33enne di Pomigliano ha cercato una scusa per ricucire con la Lega, sedotto dall’offerta di Salvini, che, disperato, era pronto a concedergli la Presidenza del Consiglio. Alla fine però Di Maio si è arreso: i parlamentari grillini erano al 90% per il cambio di alleanza, così come la base elettorale del Movimento. Non c’era modo di tornare indietro, verso destra.

Il numero uno pentastellato deve quindi ingoiare lo spostamento a sinistra del M5S, che rafforza la corrente capeggiata da Roberto Fico e soprattutto certifica l’ascesa di Conte. Il Premier cerca di accreditarsi come arbitro super partes, probabilmente perché nutre ambizioni quirinalizie, ma di fatto oggi la maggioranza dei grillini vede in lui il suo nuovo leader.

A questo punto, l’attenzione si sposta su quello che il nuovo governo è chiamato a fare. Innanzitutto, c’è da affrontare una sessione di Bilancio tutt’altro che semplice, anche se la soluzione sarà facilitata dalla benevolenza di Bruxelles, entusiasta per l’uscita di scena di Salvini.

In effetti, stavolta l’Italia ha davvero schivato una pallottola: un governo a trazione leghista avrebbe portato allo sfascio l’economia italiana (aumento dell’Iva, taglio delle tasse ai ricchi, deficit selvaggio), isolando definitivamente il nostro Paese a livello internazionale (a perorare la causa di Salvini è rimasto solo Orban) ed esasperando la retorica dell’odio che ha portato a oscenità incostituzionali come i decreti sicurezza.

La prospettiva peggiore è quindi scongiurata. Ma quella migliore rimane da costruire.


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