di Daniele John Angrisani

L’affaire Abu Omar è una storia oscura di spie e sospetti terroristi, intrisa di quel clima di illegalità diffusa cui più volte siamo stati spettatori. Una storia vergognosa che dimostra come il nostro Paese, a distanza di oltre 60 anni dalla fine del fascismo e dalla nascita della nostra Repubblica sia ancora, purtroppo, un Paese a sovranità limitata, le cui leggi finiscono nel nulla, lì dove arriva il segreto di Stato. Come ha affermato Dick Marty, relatore dell'inchiesta approvata dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa sulle presunte prigioni segrete della Cia: "Nel caso del rapimento di Abu Omar, o l’Italia sapeva ciò che è successo, oppure vi è stata una palese violazione della sua sovranità nazionale. Ma, in questo caso, perché Roma ancora non ha presentato una protesta ufficiale alle autorità americane?" A questa domanda, ancora oggi non vi è alcuna risposta. Ma andiamo per gradi. Hassan Mustafa Osama Nasr, più conosciuto come Abu Omar al Masri, nato ad Alessandria d'Egitto il 18 marzo 1963, è un religioso egiziano che da ragazzo è dovuto scappare via dal suo Paese dopo che l'organizzazione islamica a cui apparteneva, al-Gama'a al-Islamiyya, era stata dichiarata illegale dal governo dittatoriale del presidente egiziano Hosni Mubarak. Tale organizzazione, guidata dallo "sceicco cieco" Omar Abdel-Rahman, aveva come scopo principale quello del cambio di governo in Egitto, ma era stata considerata da tempo come una organizzazione terrorista dai due principali alleati internazionali di Mubarak, l'Unione Europea e gli Stati Uniti d'America. Dopo diverse peripezie, tra cui una sosta in Albania di diversi anni, era approdato in terra italiana nel 1997 ed aveva ricevuto lo status di rifiugiato politico nel 1999, dopo essere stato accusato dalle autorità egiziane di aver provato ad attentare alla vita del ministro degli esteri egiziano, Amr Moussa, in visita in Albania. Questo episodio, mai realmente chiarito e piuttosto fumoso, lascia intravedere comunque un primo spiraglio di luce sulla sua vita. Il 3 luglio 2005, in un articolo del Chicago Tribune, si affermava infatti che Abu Omar, contattato dai servizi segreti albanesi, (lo ShIKndr), per conto della CIA, per verificare la veridicità di tale presunto complotto ai danni di Moussa, si sarebbe in realtà trasformato ben presto in un informatore di prima mano dello ShIK medesimo. Tale sarebbe stato il contributo dato da Abu Omar che Astrit Nasufi, il boss dell'antiterrorismo albanese, in una intervista rilasciata nell'ambito dello stesso articolo del Chicago Tribune ha affermato che da quel momento - e per la prima volta in assoluto - i servizi segreti albanesi erano riusciti a fornire delle informazioni di prima mano alla CIA, ed andavano molto fieri di questo.

Pare quindi assodato che vi sia stato un tipo di contatto tra Abu Omar e la CIA prima ancora della vicenda del suo rapimento. Sta di fatto comunque che, poche settimane dopo aver dato tutta la sua disponibilità allo ShIK per la continuazione della collaborazione, Abu Omar, assieme alla sua famiglia, scompare improvvisamente, con sommo dispiacere dei vertici dei servizi albanesi che tanto avevano sperato su questa fonte improvvida di notizie di prima mano.
Eccolo quindi riapparire in Italia e più precisamente a Milano dove, grazie ai suoi contatti sviluppati già dai tempi dell'Egitto, era riuscito in poco tempo a gravitare attorno al Centro Islamico di Via Quaranta, nei pressi di Viale Jenner.

Stando a ciò che ha affermato il presidente di tale Centro Islamico, Abdel Hamid Shaari, a differenza di ciò che affermano molti quotidiani italiani che lo dipingono come un Imam, "Abu Omar non ha mai avuto alcun incarico ufficiale, o un ruolo fisso in moschea. Solo a seguito della fondazione della moschea di Via Quaranta, è diventato assistente dell'Imam per un breve periodo". Ed è stato proprio grazie a questa posizione che, in assenza dell'Imam ufficiale, Abu Emad, poteva aver guidato qualche venerdì la preghiera ed anche predicato l'omelia. Ma nulla più di questo. Eppure per i quotidiani italiani e i tanti esponenti della destra urlante Abu Omar è già allora diventato uno dei tanti Imam che predicavano la violenza nelle moschee italiane, che "vanno ripulite" come afferma alla televisione il ministro degli interni Beppe Pisanu.

I toni aspri dei suoi sermoni contro la politica americana, sono la sua condanna. A nulla serve che, stando ai tabulati delle intercettazioni telefoniche, in realtà lo stesso Abu Omar sia stato in realtà una delle voci più moderate all'interno del panorama del Centro Islamico di Viale Jenner. Quando un egiziano non identificato gli aveva confidato di voler attaccare "tutti gli interessi israeliani... qualunque cosa che fosse di proprietà di ebrei, in tutto il mondo", Abu Omar aveva risposto con una risata sprezzante e gli aveva detto di azionare il cervello prima di parlare.

Di nuovo poco tempo prima del suo sequestro, Abu Omar è intercettato mentre parla con un un sudafricano, anch'egli non identificato, che sembra volergli parlare di un progetto con l'uso di autobombe. "Chi le ha create", si sente affermare Abu Omar insistentemente. "Chi? Chi?". "Uno dei fratelli palestinesi", è la replica del sudafricano. "Il palestinese?", domanda Abu Omar. "Si", è la pronta risposta, "colui che chiamano la macchina... colui che vive in Albania". Dopo una pausa, Abu Omar replica: "No, no, l'auto non è quel che ci serve. Non abbiamo bisogno dell'auto".

Ciononostante, Abu Omar, da qualche tempo, a sua insaputa è già sotto stretta osservazione da parte della cellula della CIA di stanza a Milano. Nei mesi precedenti infatti si erano susseguite voci sulla possibile preparazione di un attacco terrorista a Milano contro gli interessi americani: l'obiettivo, secondo la CIA, avrebbe dovuto essere l'autobus che ogni mattina portava i figli dei diplomatici americani alla Scuola Americana di Milano. Abu Omar era considerato come la mente del complotto e questo aveva portato la CIA alle sue calcagna.

Nello stesso periodo Abu Omar è anche sotto indagine da parte della polizia italiana, per conto della Procura di Milano, con l'accusa di aiuto al terrorismo internazionale, in quanto è dimostrato che aiutava a reclutare i fratelli islamici che volevano andare a combattere in Afghanistan contro gli americani. Ma da parte della polizia italiana si smentisce qualsiasi possibile legame di Abu Omar con il presunto complotto contro la Scuola Americana ed anzi si mette in dubbio apertamente che tale complotto possa essere mai realmente esistito.

Eppure la CIA è decisa ad andare avanti per la propria strada a tutti i costi. Abu Omar è una minaccia e come tale va reso inoffensivo, costi quel che costi. Tra pedinamenti giornalieri, minacce e intrighi si arriva così al giorno fatidico. Il 17 febbraio 2003, poco più di un mese prima dell'inizio della tragica offensiva americana in Iraq, Abu Omar esce da casa verso mezzogiorno. Si incammina, come ogni giorno, verso la moschea di Via Quaranta, ma non si attende certo che a pochi passi da casa, in via Conte Verde, lo stanno aspettando con ansia diverse persone dall'aspetto poco rassicurante. Secondo il racconto di un testimone oculare, due di questo all'improvviso lo fermano, gli spruzzano un composto chimico sulla faccia per stordirlo, per poi rinchiuderlo in una camionetta bianca parcheggiata lì vicino, che quindi scappa via ad alta velocità seguita da una o forse due auto. Ci vogliono tre giorni però prima che la notizia trapeli, a seguito della denuncia della moglie alla polizia italiana. Abu Omar sembra come scomparso nel nulla.

In realtà si trova già in un carcere egiziano, dopo essere stato trasportato di tutta fretta prima ad Aviano e poi nella base americana di Rammstein, e da qui al Cairo. Dal parole dello stesso Abu Omar, vergate nel suo memoriale, ecco la descrizione dei suoi mesi in Egitto. "Appena arrivato al Cairo un funzionario egiziano mi ha detto: 'Qui vi sono due persone dei servizi segreti'. Uno di questi si è rivolto a me, in egiziano, e mi ha chiesto: 'Vuoi collaborare con noi?' L'altro non parlava, ma probabilmente era un tenente americano. L'ho sentito poi dire: 'Se Abu Omar collabora, tornerà con noi in Italia'... La mia cella era di due metri per uno, senza luce... Mi hanno preso a schiaffi, pugni e poi hanno iniziato con le scosse elettriche per farmi parlare... L'interrogatorio è durato sette mesi, fino al 14 settembre 2003, ma a me è sembrata una eternità... Dopo un altro viaggio mi hanno portato bendato in un altro palazzo dove una decina di mani mi ha picchiato per tutto il corpo... Quando ho chiesto del bagno mi han detto che non c'era, era la mia cella il bagno... Sono rimasto altri sei mesi e mezzo in questa cella disgustosa, ad Amn-El-Dawla, senza aria, con scarafaggi e topi che camminavano su tutto mio corpo... Da mangiare mi davano solo pane andato a male, quello con la sabbia che distrugge i denti... Per la paura e per le torture, i miei capelli e la mia barba sono diventati bianchi... Ho anche perso l'uso dell'orecchio sinistro: non sento più nulla...".

Siamo a metà febbraio 2003 ed in Italia non si sa ancora nulla dell'orribile destino al quale è andato incontro Abu Omar. Solo dopo 10 giorni dalla sua scomparsa, il Corriere della Sera, primo giornale in Italia ad occuparsi della vicenda, pubblica finalmente nel suo inserto milanese un articolo intitolato: "Imam di Milano, spunta l'ipotesi di un rapimento". Sulla base di questo articolo e delle testimonianze oculari, la Procura di Milano decide quindi di aprire un fascicolo di reato a carico di ignoti, per sequestro di persona. Bisogna comunque attendere l'anno successivo, il 2004, prima che l'inchiesta cominci a fare passi avanti, grazie inizialmente alle dichiarazioni della moglie di Abu Omar, Ghali Nabila. La donna, dinanzi al magistrato Armando Spataro, al quale sono state affidate le indagini, afferma di essere riuscita a sentire il marito due volte, il 20 aprile ed il 10 maggio di quell'anno, e che lui le avrebbe raccontato di trovarsi in Egitto, di essere stato rapito dai servizi segreti americani e di aver subito orrende torture a seguito del suo rapimento, e di essere stato rilasciato da poco tempo.

Afferma anche di aver sentito distintamente uno dei suoi rapitori parlare in italiano. Abu Omar pagherà amaramente queste dichiarazioni venendo nuovamente incarcerato nel famigerato carcere egiziano di Tora. Un vero e proprio inferno sulla Terra. Ma anche grazie a lui lo scandalo comincia a montare.
Marco Minniti, dei DS, prepara una interpellanza parlamentare per chiedere conto al Governo delle pesantissime accuse arrivate a suo carico. Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, risponde con estremo ritardo solo diversi mesi più tardi, affermando tra le altre cose che "il Governo italiano non sottovaluta neppure le ipotesi che si collocano palesemente tra il grottesco e l'incredibile".

Eppure di incredibile e grottesco per molti mesi a venire vi sarà l'atteggiamento del governo italiano, che una volta scoppiato lo scandalo cerca in tutti i modi di tirarsene fuori. Le indagini continuano nel frattempo, ed il pm Spataro riesce, ad inizio 2005, a risalire a 17 utenze telefoniche usate dagli agenti della CIA a Milano, e da questi ai nomi dei presunti sequestratori. Come riassume il GIP Salvini, una cosa è ormai certa dalle indagini: "Abu Omar è stato rapito da soggetti appartenenti a strutture di intelligence straniera, che avevano interesse a sottoporlo ad interrogatori ed a neutralizzarlo, per poi consegnarlo alle autorità egiziane". Il 13 giugno 2005 vengono emesse quindi le prime richieste di custodia cautelare ai danni degli operativi della CIA, tra i quali Robert Seldon Lady, il capostazione della CIA a Milano.

E' subito scandalo. Da subito, nei Palazzi del potere, rimbalza la seguente domanda: è mai possibile che la CIA abbia organizzato un'impresa del genere nel pieno centro di una delle grandi metropoli italiane senza che i vertici dei nostri servizi segreti ne fossero a conoscenza? Questo sospetto è corroborato prima da una inchiesta giornalistica del Washington Post del 30 giugno 2005, che parla di una operazione organizzata direttamente dal capostazione della CIA in Italia, Jeff Castelli, di concerto con i servizi segreti italiani, in particolare il SISMI di Niccolò Pollari.

Passa l'estate e la posizione di Pollari diventa sempre più in bilico. Nel frattempo gli indagati passano da 16 a 22, tra cui, per l'appunto, anche Jeff Castelli. La procura di Milano decide quindi di chiedere al ministero della Giustizia di firmare la richiesta di estradizione, ma il ministro Castelli (ed il suo stesso cognome sa di beffa in una vicenda del genere) prende tempo. Il Paese è nel frattempo in piena campagna elettorale e la sconfitta di Berlusconi sembra sicura sin dall'inizio. La sinistra quindi evita di fare della questione Abu Omar uno dei suoi cavalli di battaglia. Alla fine come sappiamo, rischia di perdere e se la cava per il rotto della cuffia.

La vittoria risicata della sinistra lascia comunque sperare bene per il futuro delle indagini e della richiesta di estradizione. Ma ben presto arriverà la doccia fredda, con il nuovo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, che ben si guarda dal procedere su questa via. Anzi, come vedremo fra poco, il Governo Prodi riuscirà a comportarsi anche peggio del suo predecessore. Le indagini comunque non si fermano, ed anzi arrivano ad una svolta con l'interrogatorio di un maresciallo dei ROS dei carabinieri, Luciano Pironi, nome in codice "Ludwig", che confessa di essere l'italiano, citato dalle dichiarazioni di Abu Omar, che ha partecipato al rapimento. Pironi sperava, così, di fare un favore a Robert Lady e che costui avrebbe potuto intercedere presso Pollari, affinché lo stesso Pironi venisse trasferito al SISMI con un incarico di prestigio.

Altri indizi contro Pollari vengono portati dall'interrogatorio del generale del SISMI Gustavo Pignero che, il 1 giugno 2006, afferma di aver ricevuto richiesta di indagare sulle attività di Abu Omar proprio da parte di Jeff Castelli. Poco ore dopo lo stesso generale, che non sapeva di essere intercettato, telefona al colonnello Marco Mancini, numero due del SISMI, per concordare la versione da fornire per coprire il sequestro. Mancini, messo alle corde, e già nei guai per la vicenda Tavaroli-Telecom, alla fine crolla ed ammette tutto: è stato lo stesso Niccolò Pollari a concordare, assieme a Jeff Castelli, la modalità operativa del sequestro Abu Omar. Alla procura di Milano non resta a questo punto che chiudere le indagini e rinviare a giudizio, il 16 febbraio 2007, un totale di 32 persone, tra cui 26 sono agenti della CIA per cui è in essere una richiesta di estradizione, un ex carabiniere dei ROS (Pironi) e 5 funzionari di primo piano del SISMI, compreso lo stesso Pollari. Sono tutti accusati di concorso in sequestro di persona.

Nel frattempo Pollari, fiutando l'aria che tirava, ha già rassegnato le dimissioni il 20 novembre 2006. Ma rimane senza lavoro solo per pochi mesi. Il 25 gennaio 2007 Pollari viene infatti nominato dal governo Consigliere di Stato a Palazzo Chigi (incarico ricoperto a partire dal 9 febbraio), con il "conferimento di un importante incarico speciale alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio". Strana promozione per una persona che è stata accusata di aver cospirato contro le leggi del proprio Stato per aver organizzato un sequestro illegale sul territorio italiano, compiuto da agenti dei servizi segreti stranieri.

Ma le stranezze, se così vogliamo chiamarle, non finiscono qui. Mentre a fine febbraio il Dipartimento di Stato americano fa sapere che non darà mai corso all'estradizione degli agenti della CIA sospettati, il processo contro Pollari e gli altri indagati italiani si arena subito a causa del segreto di Stato opposto proprio dal governo. La questione è ora al vaglio della Corte Costituzionale, che deve decidere entro pochi mesi sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, che vede la magistratura ed il governo schierati su fronti opposti, sulla questione del segreto di stato.

Necessario quest'ultimo, secondo il governo; non opponibile in relazione a fatti eversivi dell'ordine costituzionale come un sequestro di persona, secondo la Procura milanese. La sensazione, al momento, è che la Corte potrebbe decidere alla fine decidere a favore dei pm milanesi, ma una sola cosa è certa: l'eventuale decisione opposta pregiudicherebbe in modo, probabilmente decisivo, l'andamento del processo e le possibilità che qualcuno paghi per questo crimine commesso in territorio italiano.

Perché mai il governo Prodi abbia deciso di seguire la strada già percorsa dal suo predecessore, e chiedere il segreto di Stato, rimane un mistero. Nel frattempo Abu Omar è stato rilasciato nuovamente dalle autorità egiziane, senza accuse a suo carico, l'11 febbraio di quest'anno. Ultimamente, in una intervista, ha sostenuto di aver ricevuto dalla CIA un'offerta di 2 milioni di dollari e la cittadinanza americana per lui ed i suoi figli in cambio del suo silenzio sulla vicenda. Offerta che però Abu Omar avrebbe rifiutato per poter denunciare i torti subiti e far valere i suoi diritti dinanzi al tribunale.

Il suo avvocato ha già annunciato che Abu Omar, anzi, intende venire a testimoniare in tribunale contro coloro che hanno partecipato al suo rapimento. Mossa alquanto rischiosa, perchè significherebbe sfidare le autorità egiziane che lo hanno rilasciato solo con la promessa che non si sarebbe allontanato dall'Egitto, e rischiare al contempo di essere arrestato per terrorismo non appena mette piede in Italia. Ma come ha affermato lui stesso, spiegando la sua volontà di effettuare questo passo: "Meglio l'inferno in Italia che il paradiso in Egitto".

Alla fine di tutta questa storia, una cosa sembra comunque chiara. Con la copertura, più o meno consapevole, delle strutture politiche e militari italiane la CIA, il servizio segreto americano, è riuscito a compiere un sequestro di persona in una grande città italiana, e gli autori materiali di questo sequestro non verranno mai processati. In Gran Bretagna, a seguito dell'orrendo assassinio di Litvinenko, le relazioni diplomatiche con la Russia sono precipitate e il Foreign Office ha ordinato l'espulsione di quattro diplomatici russi.

Si tratta, è vero, di una vicenda molto diversa, ma nondimeno è sintomatico che invece in Italia non solo nessuno parli di eventuali ritorsioni diplomatiche contro gli Stati Uniti d'America, ma anzi, si faccia di tutto per continuare a proteggere gli autori di questo crimine e coloro che sino ad ora li hanno protetti. L'Italia così ha abdicato, de facto, ai suoi doveri di Stato democratico e garante delle libertà civili, nonché a quelli di Stato firmatario della Convenzione Europea contro la Tortura, che vieta esplicitamente di estradare un cittadino, italiano o straniero, verso Paesi che pratichino la tortura. Se ora, anche alla Giustizia verrà impedito di fare il proprio corso, non rimarrà, davvero, altro da fare che vergognarsi di essere italiani.

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