di Tania Careddu

Nel 2013, centoventotto vittime tra i quindici e gli ottantanove anni. Uccise da uomini violenti. Padri, fratelli, compagni, mariti. Si, perché, secondo quanto è emerso dalla ricerca annuale "Le voci segrete della violenza", effettuata da Telefono Rosa, l’elemento di continuità con gli anni precedenti è che la violenza si consuma all’interno della coppia nel corso di una relazione affettiva (si fa per dire) nel 58 per cento dei casi e dopo la separazione nel 24 per cento.

Una violenza che, prima di essere agita, e quindi fisica nel 22 per cento delle situazioni, anche con oggetti pericolosi, è (sempre) inconscia: psicologica nel 35 per cento delle volte, manifestata con minacce e comportamenti da stalker.

Sale il numero di donne che fa risalire l’origine della violenza al periodo della gravidanza o (e) alla nascita dei figli. Che, anche quando non hanno compiuto diciotto anni, nel 29 per cento dei casi, reagiscono attivamente contro il padre per difendere la madre, facendole da scudo o affrontandolo direttamente sullo stesso piano. Figli vittime della identica violenza: il 31 per cento degli uomini violenti ha, infatti, alle spalle storie di padri violenti e il 18 per cento delle donne è stata, a sua volta, vittima in contesti in cui era sempre la figura maschile a esercitare la violenza.

Fredda e lucida: aumenta la percentuale delle vittime che ne riconducono la causa alla gelosia o alla possessività e all’aspetto economico che si manifesta con impegni finanziari imposti, appropriazione del salario della donna, negazione dell’accesso all’istruzione o al lavoro, privazione deliberata di cibo, vestiario o beni essenziali.

Tutto teso a ledere la libertà e la capacità di autonomia della donna, a esercitane il controllo puntuale. Ad annullarne profondamente l’identità femminile. C’è di buono che le vittime ormai sono più consapevoli ( nel corso del 2013 sono state 1504 le donne che si sono rivolte all’associazione Telefono Rosa) sia delle conseguenze lesive che il perpetuarsi, per anni, della violenza ha causato nella propria immagine interna sia, però, anche della personale capacità di reagire.

Così aumentano, dal 26 al 31 per cento, la somma degli elementi quali la debolezza, la vergogna e la paura di restare sola e pure la quota di quante riconoscono di sopportare la situazione per necessità di carattere economico ma si riduce, dal 18 al 14 per cento, il terrore di subire altre violenze o ritorsioni. Sebbene siano lievitati sia il tempo di esposizione alla violenza sia la ripetitività degli episodi.

Ma se l’Italia non risulta ai primi posti della classifica che l’Agenzia europea per i diritti umani fondamentali (FRA) ha stilato all’interno di una ricerca “Violenza contro le donne - Indagine a livello comunitario”, la più grande, finora, a livello mondiale, non è perché la violenza contro le donne sia in calo quanto perché è spesso considerata un affare di famiglia e c’è più reticenza a denunciarla.

Solo il 27 per cento, infatti, ha dichiarato di aver subito una violenza  sessuale dopo i quindici anni. E più paura. Che vede le italiane al primo posto e che non permette di monitorare il fenomeno fino in fondo. Di più: le italiane si classificano al terzo posto nel pensare che la violenza di genere sia comune nel proprio Paese. Nel Belpaese.

Che, questo si, dopo la ratifica, a giugno scorso, della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e quella domestica, ha approvato un decreto legge contenente una serie di misure repressive nonché di tutela delle vittime della violenza. Come a riconoscere che la situazione è grave ma non adeguatamente affrontata.

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