Le consultazioni iniziate ieri sono tra le più complicate della storia repubblicana. Forse si riveleranno le più laboriose di sempre. Del resto, è difficile ricordare una situazione di stallo peggiore di quella uscita dalle urne esattamente un mese fa. Tutti sanno già che il primo giro di giostra davanti al presidente Sergio Mattarella si risolverà in un nulla di fatto.

 

Sarà necessaria una seconda tornata la settimana prossima e anche questa potrebbe non bastare. Al momento, il record di lentezza per la formazione di un governo appartiene alla legislatura iniziata nel 1992 (due mesi e tre settimane), ma all’epoca la procedura era stata frenata dalle dimissioni di Francesco Cossiga. Stavolta, pur senza impedimenti quirinalizi, il primato rischia di cadere.

 

 

Il motivo è che da quattro settimane due partiti continuano a presentarsi come i vincitori delle elezioni: il Movimento 5 Stelle in quanto primo partito e la Lega in quanto formazione leader della coalizione che ha ottenuto più voti. Peccato che nessuno dei due sedicenti vincitori abbia la maggioranza per governare. E non ci vanno nemmeno vicini: ai grillini come al centrodestra mancano decine di seggi per superare il 50% nelle due camere. Inutile perciò teorizzare compravendite o migrazioni interessate fra i gruppi parlamentari.

 

L’unica soluzione rapida sarebbe il ritorno immediato alle elezioni, ma il Colle farà di tutto per evitarlo. Innanzitutto perché, senza modificare la legge elettorale, una nuova votazione rischierebbe di determinare un esito analogo a quello del mese scorso. E poi in nome della stabilità, che serve soprattutto a difendere il Paese da nuovi attacchi speculativi: a settembre dovrebbe chiudersi il quantitative easing targato Bce e i nostri titoli di Stato dovranno cavarsela sui mercati senza rete di protezione.

 

Ecco perché la partita delle consultazioni sarà lunga. Il primo giro servirà a prendere atto dei veti incrociati fra Lega e Movimento 5 Stelle. I principali sono due: la premiership e il ruolo di Silvio Berlusconi. Sul primo fronte, né Matteo Salvini né Luigi Di Maio intendono rinunciare alla guida del governo. È per questo che  nessuno dei due chiederà l’incarico a Mattarella: per non bruciarsi.

 

La seconda questione è ancora più difficile da risolvere. I grillini rifiutano di entrare in una maggioranza di cui faccia parte l’ex Cavaliere, essendo l’antiberlusconismo uno dei valori fondamentali intorno a cui nacque il Movimento più di 10 anni fa. Ma Salvini, almeno per ora, non ha intenzione di rompere la coalizione: nel centrodestra è il capo di uno schieramento che vale il 37% dei voti, mentre in solitaria la Lega conta appena il 17%, poco più della metà dei 5 Stelle, che arrivano al 32%. E se anche Fratelli d’Italia rompesse con FI per entrare nella partita, la situazione cambierebbe poco, dal momento che il partito di Giorgia Meloni vale appena il 4,2%.

 

Berlusconi però non resta a guardare. Per far cadere il veto grillino che pende sul suo capo, potrebbe nominare Antonio Tajani vicepresidente e reggente di fatto di Forza Italia. Difficile che basti, anche perché l’ex Premier non sembra orientato al basso profilo (sarà lui a guidare la delegazione forzista al Quirinale). Tuttavia, immaginare soluzioni alternative è ancora più complicato.

 

Se di mezzo ci fosse solo la politica, si potrebbe ipotizzare uno scenario in cui Salvini rimane alla guida del centrodestra facendo cadere Berlusconi nell’oblio. Il problema è che Forza Italia non è un partito tradizionale in cui nel tempo si succedono i segretari, ma un’azienda privata con un capo e dei dipendenti, gestita in modo manageriale e tenuta insieme dalla potenza finanziaria del suo fondatore.

 

Intanto, dall’altra parte del Rubicone, il Partito Democratico ha ufficialmente smesso di fare politica, dichiarandosi indisponibile a qualsiasi trattativa per creare una maggioranza. La tesi, irrispettosa della Costituzione e delle istituzioni, è che sono stati gli elettori a relegare il Pd all’opposizione. Idea curiosa per il partito che ha prodotto questa legge elettorale ignobile con l’obiettivo evidente (e fallito) di tornare al governo con Forza Italia. Adesso, forse più per stizza che per calcolo politico, i dem si ritirano sull’Aventino. Confermando che la storia si ripete: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

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