La nuova legge di bilancio poggia su tre colonne: la flat tax leghista, il reddito di cittadinanza grillino e la quota 100 per le pensioni. La terza misura è l’unica su cui i due partiti di governo sono davvero uniti (anzi, gareggiano addirittura per intestarsene la paternità). Purtroppo per gli italiani, però, il problema è sempre lo stesso: esattamente come la tassa piatta salviniana e il sussidio grillino, anche il principale intervento in tema di previdenza si rivelerà lontanissimo dalle promesse elettorali sciorinate nell’ultimo anno.

 

Gli inganni sono due. Il primo ha a che vedere con il nome stesso del provvedimento: “quota 100”. Questa definizione lascia intendere che dall’anno prossimo agli italiani sarà concesso andare in pensione quando la somma di età anagrafica e anni di contribuzione arriverà, appunto, a quota 100. Bello, vero? Peccato che il progetto di governo non preveda esattamente questo.

 

Sono previste infatti due soglie minime: 62 anni di età e 38 di contributi. Ciò significa che i lavoratori di 63 anni avranno comunque bisogno di almeno 38 anni di contributi per andare in pensione: di conseguenza, la quota 100 si trasformerà magicamente in quota 101 (63+38). Per la stessa ragione, i 64enni andranno in pensione con quota 102 (64+38) e i 65enni con quota 103 (65+38).

 

Il secondo inganno è ancora più grave e riguarda le condizioni garantite a chi sceglierà di ritirarsi dal lavoro sfruttando questo nuovo canale. Finora i legastellati hanno presentato la quota 100 come una misura che avrebbe ammorbidito le rigidità della legge Fornero, introducendo maggiore flessibilità in uscita. Il problema è che, per abbandonare il lavoro in anticipo, i nuovi pensionati si ritroveranno in tasca un assegno (molto) più leggero di quello che la stessa legge Fornero avrebbe previsto.

 

La ragione è semplice: se vai in pensione prima vuol dire che versi meno contributi, perciò la tua pensione – che si calcola con il metodo contributivo – sarà per forza più bassa di quella che avresti percepito se avessi continuato a lavorare. È aritmetica di base, non ci vuole un genio. A guardare i numeri, però, la differenza raggiunge picchi impressionanti.

 

Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di Bilancio - illustrati dal presidente Giuseppe Pisauro nel corso di un’audizione parlamentare - con un anticipo del pensionamento di un solo anno il taglio dell’assegno causato dalla quota 100 sarebbe del 5,06%. Se però l’anticipo fosse di sei anni, l’importo della pensione si ridurrebbe di oltre un terzo: -34,17%. Una stangata terrificante.

 

La simulazione dell’Upb contraddice vistosamente il vicepremier Matteo Salvini, che in tv aveva escluso qualsiasi tipo di penalizzazione. Il leader leghista faceva riferimento alle stime già comunicate dal presidente dell'Inps, Tito Boeri, secondo cui un lavoratore medio della Pa, andando in pensione a 62 anni anziché a 67, vedrebbe il proprio assegno ridursi di circa 500 euro.

 

Chi ha ragione? Sempre l’Ufficio parlamentare di bilancio sottolinea che nel 2019 potrebbero andare in pensione con quota 100 fino a “437.000 contribuenti attivi”. Nel caso tutti quanti scegliessero di abbandonare il lavoro, lo Stato dovrebbe affrontare un “aumento di spesa lorda pari a 13 miliardi di euro”. Se accadesse, i conti pubblici finirebbero in corto circuito.

 

Eppure, il governo stesso ritiene che “la metà delle persone che potrebbe utilizzare quota 100 sceglierà di non andare in pensione”. Come mai? Non certo per amore del lavoro, ma per schivare l’ennesima fregatura: la metà delle persone vorrà evitare di ritrovarsi con un assegno ancora più basso di quello lasciato in eredità dalla professoressa Fornero.

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