di mazzetta

Fanno rumore e fanno male gli aumenti dei generi alimentari che stanno piovendo sugli italiani. Come al solito è scattata l'indagine pubblica; i grandi media fanno molto rumore, i politici sputano sciocchezze, ma di colpevoli non c'è traccia. I colpevoli sono come al solito in bell'evidenza sotto il naso di tutti, ma evidentemente c'è qualche ritrosia nel metterli all'indice, una ritrosia peraltro facilmente spiegabile. La colpa dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari è dovuto prima di tutto al superamento della capacità di carico del pianeta. Il pianeta ha smesso di essere in grado di sostenere il consumo degli umani verso la fine degli anni '80. Da allora la specie umana ha smesso di nutrirsi con i frutti e ha cominciato a mangiarsi il capitale-terra. Da allora centinaia di milioni di neoconsumatori sono entrati nella contesa per le risorse, basti pensare ai progressi di Cina, India e dell'Asia più in generale, per rendersi conto che la capacità produttiva mondiale è enormemente cresciuta negli ultimi 20 anni; l'apertura globalizzante delle vie commerciali ha determinato un boost impressionante dello sfruttamento delle risorse. Risulta evidente che nel mezzo di uno scenario del genere la situazione sia evoluta secondo modelli esponenziali. A peggiorare la situazione, nel caso degli alimentari, sono poi intervenute scelte politiche che discendono direttamente dal rarefarsi delle risorse energetiche fossili. Che il petrolio esista in una quantità finita è fuori discussione, così come è fuori discussione che agli attuali livelli di domanda globale non corrisponda una capacità estrattiva sufficiente. Da tempo si diceva che la domanda avrebbe superato questo limite, ben prima dell'esaurimento del petrolio, provocando sconquassi simili. La teoria è quella dell'Oil Peak, cioè del picco di produzione a fronte della domanda.

Già ora non c'è abbastanza petrolio ed era previsto da tempo, da quasi quaranta anni. La cosa è preoccupante, ma la scarsità di petrolio è relativa; vuol “solo” dire che d'ora in avanti non se ne estrarrà abbastanza da soddisfare la domanda; non importa quanto capitale si possa investire o dove si vada a dargli la caccia. Siano le sabbie bituminose dell'Alberta o i giacimenti artici, la produzione di petrolio non supererà mai più la domanda e comunque prima o poi andrà ad esaurimento.

La notizia non è buona e non ha neppure un lato B positivo; tutti gli studi ci dicono che dovremmo abbattere violentemente le emissioni di Co2 immediatamente per sperare di non far impazzire il clima e aumentare drammaticamente il livello dei mari. Il petrolio non finirà abbastanza in fretta perché la sua dipartita giovi all'ambiente, au contraire. L'impetuosa domanda d'energia, incontrando i limiti della produzione petrolifera ha aperto le gabbie a scelte assolutamente sbagliate.

Molti parlano di centrali nucleari, che però sono giocattoli che si costruiscono in venti anni e con investimenti immensi, mentre la domanda deve essere soddisfatta qui ed ora. Le soluzioni adottabili senza intaccare equilibri che non possono essere messi in discussione sono, quelle che continuano a chiamare in causa la combustione di idrocarburi e carbone. Soluzioni che cozzano con l'esigenza di rallentare l'aumento della temperatura e più in generale l'inquinamento della biosfera.Per risolvere questa contraddizione si pagano fior di personaggi che parlano di fantasie come se fossero realtà. Ecco allora il “carbone pulito”, la “cattura del Co2”, la “neutralizzazione delle emissioni”e via così.

I biocarburanti sono discutibilmente “ecologici”, visto che il rapporto tra l'energia utilizzata per produrli e farli giungere all'utilizzatore non è in alcun modo vantaggioso rispetto agli idrocarburi tradizionali, ma soprattutto visto che la loro produzione non sostituisce, ma si aggiunge al consumo di tutti gli idrocarburi comunque estraibili.

Stati Uniti ed Unione europea hanno stabilito che una parte robusta del loro enorme consumo energetico dovrà essere coperto da carburanti bio. La decisione, come era prevedibile e previsto, ha determinato il confluire di ingentissimi capitali verso la nuova avventura. Capitali attirati dagli incentivi governativi alla produzione, cioè dai soldi delle tasse. Il settore è talmente effervescente che negli Stati Uniti è sorto in poco tempo un numero impressionante di raffinerie dedicate ai biocarburanti. Un dato interessante confrontato con quello che descrive lo stato delle raffinerie petrolifere, negli Stati Uniti non se ne costruiscono da anni. Circostanza che rende evidente come fosse noto ai petrolieri che la produzione di petrolio non sarebbe mai più aumentata.

La produzione di biocarburanti ha un solo pregio evidente: non intacca assolutamente i circuiti distributivi (e di conseguenza il controllo del mercato) dell'energia. I biocarburanti viaggiano in autobotti ed escono dalla pompa del distributore che appartengono agli stessi che gestiscono i flussi petroliferi.

Scegliere i biocarburanti non ha rappresentato solamente una scelta molto discutibile sul piano del rapporto costi/benefici, ha rappresentato soprattutto una scelta assassina. I prezzi degli alimenti sono esplosi principalmente per l'aumento delle colture destinate alla produzione di biocarburanti. La cosa infastidisce molti italiani e molti altri li lascerà nella disperazione, perché è chiaro che stipendi e pensioni non riusciranno a star dietro agli aumenti. Una situazione ancora più drammatica si è determinata nei paesi più poveri, dove l'aumento di generi alimentari quali il grano ha provocato veri e propri sconquassi sociali.

La produzione di biocarburanti impatta sull'intera catena di produzione dei generi alimentari. Vaste estensioni dedicate ai biocarburanti hanno ridotto le coltivazioni di soia, il principe dei mangimi, determinandone un parallelo aumento dei prezzi e hanno espanso incredibilmente le monocolture a detrimento di tutte le altre produzioni alimentari. La convenienza nella produzione di colture incentivate spinge i coltivatori (in particolare quelli multinazionali) in quella direzione, con un inarrestabile effetto-domino che travolge tutti i corsi degli alimenti.

Una scelta assassina (e anche suicida), per la quale i consumatori dei paesi ricchi pagano i biocarburanti prima incentivandone la produzione con le proprie tasse per poi ripagarli fronteggiando l'aumento degli alimenti. E ancora li pagheranno, in quanto abitanti di un pianeta che non smette di essere avvelenato con dosi sempre più elevate di inquinanti e un'atmosfera sempre più satura di Co2. Gli abitanti dei paesi poveri che non sono consumatori, pagano in natura, cioè con la loro vita; lo dimostra il drastico aumento delle persone stimate a rischio di morte per fame, quasi raddoppiate da un anno all'altro.

L'aumento dei generi alimentari provocato da questa scelta assurda, già precorsa dalla Cina che la sta abbandonando dopo averne assaggiato i danni, viene poi colto come occasione da distributori avidi (che aumentano i prezzi ben oltre le conseguenze economicamente ponderabili) e speculatori , ma ha anche il pessimo effetto di dare l'illusione che non esista un problema energetico serio e che qualcuno si stia preoccupando veramente di prendere provvedimenti “ecologici”.

Ce ne sarebbe abbastanza per assistere ad assalti ai distributori di biocarburanti da parte di folle inferocite, ma non succede. Non succede perché nessuno sembra interessato a mettere in discussione l'attuale modello di consumo; non lo sono i politici, non lo sono gli attori economici che da questa situazione godono di immense rendite di posizione. L'importante è comunque rendersi conto del motivo per il quale le cose succedono e delle loro conseguenze; oggi sappiamo che anche quando paghiamo le tasse e mangiamo stiamo in realtà pagandoci la benzina per la macchina e che un po' di quella benzina ce la pagano anche gli abitanti dei paesi poveri. Morendo.

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