di Valentina Laviola

L’Italia è cambiata in fretta. Negli ultimi venticinque anni l’Islam è diventata la seconda religione del paese, con circa cinquantamila convertiti e oltre un milione di musulmani immigrati, in gran parte di prima generazione e di età media intorno ai trent’anni. Questi ultimi, è importante ricordare, appartengono ad etnie diverse, hanno culture diverse e provengono da storie differenti. I principali paesi d’origine sono l’Albania, il Nord-Africa (la comunità marocchina è la più numerosa, costituisce circa il 30% del totale), il Senegal, il Bangladesh e il Pakistan. Questi pochi dati sono sufficienti per capire che è la molteplicità a caratterizzare il panorama musulmano odierno in Italia. Ciò rappresenta un ostacolo importante nella comunicazione e cooperazione con le istituzioni italiane che difficilmente si trovano di fronte un interlocutore unico e compatto. Tuttavia, trovare una via di contatto è ormai indispensabile per entrambe le parti: per i musulmani che chiedono sempre più un riconoscimento, ufficiale e concreto, dei propri diritti religiosi, per lo Stato italiano che non può più ignorare una parte dei propri cittadini. Una prima risposta a queste necessità è venuta con la creazione della Consulta per l’Islam, il cui merito va riconosciuto al ministro Pisanu per la lungimiranza del progetto, specie se si considera chi aveva come colleghi ed alleati (Roberto Calderoli impegnato ad organizzare il “maiale-day” con evidente intento provocatorio ed offensivo). Con il successivo governo Prodi, la Consulta ha subito un’evoluzione radicale sotto la guida del ministro dell’Interno Amato, finalizzando il proprio lavoro all’integrazione in generale. La stesura della Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione ha coinvolto, infatti, rappresentanti delle altre confessioni religiose, le maggiori associazioni etniche e un comitato scientifico composto da docenti universitari. Quest’esperimento ha dimostrato da una parte la possibilità di ottenere un successo - pur rispecchiando il multiculturalismo presente – e dall’altra l’importanza di portare anche le rappresentanze più radicali a confronto con quelle moderate e con le istituzioni dello Stato.

Un punto centrale, nel riconoscimento di pari diritti, riguarda la possibilità di avere propri luoghi di culto. Ad oggi, la situazione è bloccata. La Grande moschea di Roma, pur essendo finanziata dalla Lega musulmana mondiale, è l’unica gestita da un ente culturale riconosciuto dallo Stato, il Centro culturale islamico d’Italia. Progetti per la costruzione di moschee pubbliche sono nati in questi anni in varie parti d’Italia, a Bologna, a Napoli, in Sicilia, là dove più numerosi sono la richiesta e il bisogno; tuttavia, nessuno ha trovato un esito felice. Ma raccontare il caso di Napoli può essere esemplare per la sua drammatica insensatezza.

È il 2000 quando l’assessorato all’Urbanistica della Regione Campania pensa di destinare una piccola parte dei propri fondi per costruire una moschea nell’ambito della riqualificazione della località Ponticelli. Nel progetto, approvato a larghissima maggioranza da Regione e Comune, vengono coinvolte varie voci dell’Islam partenopeo, oltre ai consoli delle Repubbliche di Tunisia ed Algeria; Napoli sembra tornare finalmente al suo antico (ma non troppo) ruolo di convergenza culturale del Mediterraneo. Sarebbe stata la prima moschea di proprietà pubblica d’Italia, un’idea meravigliosa ed importante, la dimostrazione concreta del fatto che l’Italia non vuol essere solo un porto di sbarco.

Lo sarebbe stata, dicevamo, perché per bloccare tutto è bastato che un leghista di turno - quella volta tal Massimo Polledri - presentasse alla Camera un ordine del giorno per bloccarne la costruzione, incassando tra l’altro reazioni contrarie non solo dal sindaco Rosa Russo Iervolino, ma anche dal responsabile per il Mezzogiorno Antonio Parlato, AN, (“La decisione della Camera contraddice pesantemente la storia, la cultura e la civiltà di Napoli”) e del cardinal Giordano (“La libertà e il luoghi di culto devono essere garantiti a tutti. Ci deve essere la convivenza fra le diverse culture e religioni, nel rispetto delle leggi del nostro Paese”). Lo stesso Polledri, ci tenne a dichiarare, inoltre, che “se si vuole costruire una moschea ci sono i petrodollari”. Proprio in questa frase, quantomeno discutibile, si concentra il nucleo del problema.

Nel 2006, il SISDE ha stimato che ci fossero circa 628 centri di preghiera islamica in Italia: quanti di questi sono riconosciuti, o anche solo conosciuti, a livello pubblico? Nessuno. Nella maggior parte dei casi si tratta di semplici spazi disponibili, anche il garage di qualcuno, in cui i fedeli possano riunirsi. Questi luoghi di culto si mantengono grazie a finanziamenti privati, ovvero in minima parte offerte dei fedeli stessi, in larga parte con i famosi petrodollari di cui sopra. Sono paesi come l’Arabia Saudita, dove l’Islam nella sua corrente più rigorista e aggressiva - il Wahabismo - è ideologia di Stato, ad avere interesse a sostenere queste comunità di musulmani, che si trovano così ad avere imam “d’importazione” facilmente pilotabili.

Ora, non vogliamo certo affermare che tutti i centri islamici presenti nel nostro paese covino pericolose ideologie, e bisogna sempre tener presente che anche ad un radicalismo verbale non fa necessariamente seguito un atto terroristico, ma risulta evidente come una realtà fantasma sia in ogni caso impossibile da controllare. Se le moschee d’Italia ottenessero un’autonomia finanziaria ciò sarebbe un deterrente naturale contro qualsiasi tentativo d’ingerenza politica o di radicamento fondamentalista. Parallelamente, si rende necessaria la formazione di imam avvezzi alle nostre leggi, alla nostra storia e contesto culturale così da essere una guida per le nuove generazioni di musulmani nati in Italia; al contrario, degli estranei non potrebbero che allontanare i musulmani dalla società in cui essi vivono, ostacolandone l’integrazione e creando dei ghetti.

Per la stessa ragione, grande attenzione va riservata alla scuola cui spetta il compito di crescere i giovani musulmani d’Italia nella sintesi opportuna delle loro identità. In alcune zone, ad esempio, hanno avuto successo offerte didattiche miste (con corsi di arabo e d’italiano, ad esempio) per strappare i bambini a scuole gestite da paesi terzi che li avrebbero completamente sradicati dalla regolare istruzione italiana. Educare i futuri cittadini è una responsabilità alla quale non ci si può sottrarre.

Perché tutte queste necessità trovino soluzione occorre al più presto un’intesa tra lo Stato e l’Islam italiano, così come è già avvenuto in passato per regolare i rapporti con altre numerose confessioni religiose. Non si può lasciare che singole Regioni, come sinora è avvenuto, propongano referendum popolari per deliberare su quello che è un diritto costituzionale: l’Italia, sulla Carta, sancisce il diritto di avere propri luoghi di culto.

Negli ultimi dieci anni, diverse associazioni e comunità religiose islamiche del nostro paese, hanno avanzato richieste che rispondessero ad esigenze quotidiane, estremamente pratiche, quali la fornitura di menu senza carne di maiale nelle mense pubbliche (scuole, carceri, ospedali), spazi nei cimiteri per la sepoltura islamica, ecc…A questo scopo esiste una Commissione per le Intese presso la Presidenza del Consiglio dei ministri che deve valutare la compatibilità delle proposte con l’ordinamento giuridico italiano; purtroppo la possibilità di un pieno riconoscimento dei diritti religiosi dei musulmani sembra ancora ostacolata da complicazioni politiche varie: discutere in merito alla presenza dell’Islam nel nostro paese, significa automaticamente parlare di terrorismo, coinvolgere la sicurezza nazionale, persino schierarsi sul conflitto che insanguina il Medio Oriente.

Senza contare i pregiudizi ormai diffusi su larga scala: secondo un’inchiesta condotta in vari paesi europei dal Financial Times nell’agosto 2007, il 30% degli italiani considera la presenza dei musulmani una minaccia (e c’è anche chi è più spaventato di noi, in Europa); allo stesso tempo si registra un 49% di italiani che ritiene che i musulmani siano bersaglio di critiche ingiustificate. “Sono sporchi, rumorosi, delinquenti, non rispettano l’ordine e la legalità”: ci rispecchiamo tutti in quest’affermazione? Perché è quel che dicevano degli italiani quando 50 o 60 anni addietro arrivavano emigranti in paesi stranieri. I musulmani che arrivano oggi da noi, sono ancora più “sporchi, rumorosi e delinquenti”? Sembra di sì.

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