di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro

In un intervista rilasciata di recente al quotidiano La Repubblica il presidente della Confindustria Piemontese si dichiarava pronto a organizzare una marcia Pro Tav. Scopo della manifestazione quello di sensibilizzare la popolazione sull’importanza strategica della Linea ad Alta Velocità. Parole condivise dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino e da Emma Marcegaglia, vicepresidente di Confindustria. Il primo si dichiara addirittura pronto a incatenarsi al ministero dei lavori pubblici nel caso il progetto non dovesse partire. La seconda, pragmatica come tutti gli industriali, si limita a pensare ad una iniziativa per informare i cittadini dei comuni toccati dal progetto. Queste dichiarazioni ovviamente non arrivano a caso, ma precedono la conferenza del 16 Ottobre tra i rappresentanti delle regioni interessate e il successivo calendario di attività del governo sulla questione. Tutti questi esponenti del “movimento” favorevole all’Alta Velocità dicono di avere a cuore le sorti dell’industria italiana e del suo sviluppo. A questo punto, vista l’enfasi dimostrata nel propagandare l’idea del corridoio 5. è lecito chiedersi se sia poi così vero che il progetto è fondamentale per la ripresa economica. Iniziamo con una serie di valutazioni di carattere puramente tecnico sull’impatto economico del progetto attuale sul territorio piemontese. Gli attuali tracciati prevedono che la linea passi a Nord di Torino ed è in fase di progettazione una stazione dedicata ai mezzi AV in quel di Venaria, nella prima cintura torinese. Da qui poi il tragitto sale verso la Val Di Susa, per interrarsi a Venaus. Questo pone un problema logistico non da poco: si lascia fuori il neonato interporto di Orbassano. Una struttura di interscambio strada-ferrovia, ritenuta inizialmente cruciale sia dalla giunta Bresso che da quella precedente di Ghigo, costata 20 milioni di euro. Nella foga di iniziare i lavori di scavo, nessuno ha pensato a un collegamento adeguato con questa area strategica per le merci provenienti dal porto di Genova (semplicemente il più importante porto del Mediterraneo per volume di traffico).

Già questa, in apparenza minima, variazione rende necessaria la creazione di due cosiddette “bretelle” per collegare la stazione di Venaria all’Interporto e questo alla linea Alta Velocità.
Certo, si potrebbe obbiettare che si tratta di un dettaglio marginale in una struttura ben realizzata e necessaria per mantenere i collegamenti con l’Europa. Vale la pena a questo punto soffermarsi su tale aspetto. Sfatiamo un primo mito: l’Italia è collegata con l’Europa. I più possono non essersene accorti, ma il Belpaese è collegato con la sola Francia in almeno tre punti: Frejus, Montebianco e Ventimiglia. Ognuno di questi collegamenti è sia stradale che ferroviario. Questo senza considerare quindi i trafori presenti sul resto del versante alpino.
Scopo della linea Alta Velocità dovrebbe essere sia consentire un rapido viaggio per i passeggeri, sia garantire una maggiore efficienza nei trasporti, spostando il traffico merci da gomma a rotaia.
Sull’ultimo punto, purtroppo per Chiamparino, gli studi della Conferenza Inter-Governativa (CIG) parlano di un passaggio da strada a ferrovia non superiore allo 0,6%. Insomma l’effetto sui famosi TIR che ingolfano la Val Di Susa (che sono una triste realtà), sarebbe risibile.

Oltre ad essere sostanzialmente inutile dal punto di vista dell’inquinamento da CO2, la nuova linea presenta numerose pecche anche sul discorso passeggeri. A meno di non voler credere che il traffico pendolari tra Torino e Lione sia consistente, ci si deve arrendere all’evidenza che in questi anni la tecnologia è andata avanti e ha permesso di inventare un mezzo di trasporto chiamato aereo e di viaggiare sulle cosiddette linee low-cost a prezzi concorrenziali, se non inferiori, a quelli del TGV.
Non rimane quindi che il discorso sullo sviluppo portato dalle infrastrutture. In realtà la moderna sociologia economica ha smentito questa tesi, individuando il motore del progresso economico in altri fattori, senza cui si rischia solo di costruire cattedrali nel deserto. La TAV in Val di Susa corre questo richio? Sotto molti aspetti si, o perlomeno c’è il fondato sospetto che giaccia fortemente sotto-utilizzata, per un semplice motivo: già l’attuale linea ferroviaria è sfruttata solo al 40%. Addirittura il tonnellaggio negli ultimi anni è progressivamente diminuito. Questo perché il sistema produttivo italiano ha subito sostanziali modifiche negli ultimi trent’anni. E’ quasi lapalissiano fare notare che l’industria pesante si è da tempo spostata in altre aree del globo, difficilmente quindi i nostri treni trasporteranno sbarre d’acciaio.

Un riammodernamento con raddoppio della capacità della linea storica costerebbe circa un decimo al nostro paese della spesa prevista per il solo faraonico tunnel di Venaus. Il perché questa proposta sia così fortemente invisa non è dato saperlo. Gli stessi dati economici sugli scambi europei mostrano quanta poche siano le aziende interessate a spedire le proprie mozzarelle ai 250km/h fino a Lisbona o a Kiev, le due stazioni terminali del celebre Corridoio 5. Come ulteriore motivazione di contrarietà al progetto c’è il dato lampante che il traffico merci non segue una direttrice est-ovest, ma bensì nord-sud. Cosa che i governi italiani ben sanno, tanto è vero che sono da poco finiti i lavori di miglioramento al tunnel del Gottardo, con la conseguenza di avere ulteriormente aumentato la capacità di carico delle nostre Alpi.

Ultimo punto in ordine di analisi, ma primo per quanto riguarda i singoli cittadini è quello finanziario, in particolar modo gli oneri che lo stato si deve accollare per la creazione del nuovo traforo. Attualmente il costo previsto per la parte italiana si attesta sui tredici miliardi di euro. Più o meno la somma che Padoa Schioppa prevede di utilizzare per risanare le finanze italiane.
I sostenitori della TAV sono convinti che questa cifra si può sensibilmente ridurre grazie all’intervento di capitali privati. Il problema è che il settore privato ben si guarda dall’investire in questo progetto. In economia, secondo le logiche di mercato cui si rifanno principalmente i membri di Confindustria, solitamente questo è indice di sfiducia in una proposta. Quindi lo stesso settore che fortemente chiede allo Stato di investire nell’alta velocità ferroviaria, si guarda bene dal rischiarci i suoi capitali limitandosi ad attendere gli enormi appalti che dovrebbero piovere nel caso venisse realizzata la linea.
Uno dei motivi per cui ritengono rischioso l’investimento è che esiste già un esempio di tunnel ad alta velocità, quello sotto la Manica. Un esperimento così fortunato da essere stato ricapitalizzato già due volte e che è tutt’ora in rosso. Tale “buco nell’acqua” unisce due città come Londra e Parigi, circa 8 milioni di persone l’una, una platea di potenziali clienti che si calcola quindi in numeri a sei cifre. Eppure è in passivo. Nel frattempo i 53 km di tunnel necessari a collegare due megalopoli come Torino e Lione costeranno più di 60 milioni annui di manutenzione, cioè quanto costerebbe raddoppiare la linea, ancora ad un solo binario, tra Catania e Caltanissetta.

Ad un occhio attento insomma la linea ferroviaria ad Alta Velocità Torino-Lione altro non appare che un gigantesca truffa ai danni dei contribuenti. L’unica speranza è che lo Stato nella persona del Ministro Di Pietro, quando non sia impegnato a invocar manette, si renda conto di quanto questo faraonico progetto rischi di rivelarsi l’ennesima cattedrale nel deserto.

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