Nata con intenti di solidarietà e orientata a interventi per lo sradicamento della povertà, la cooperazione allo sviluppo ha perso, nel corso degli anni, in concomitanza con il fenomeno migratorio e in seguito alla strumentalizzazione degli aiuti in chiave securitaria, la sua originale funzione. La virata è da ricondursi al cambiamento della visione (che determina le successive politiche) sulla migrazione: da fattore indispensabile alla crescita economica dei paesi di approdo è diventata, nella percezione dell’opinione pubblica e dei suoi governanti, una “pressione” intollerabile.



Tanto da generare un approccio semplicistico al fenomeno, una reazione pavloviana di rifiuto, e da giustificare l’insopportabile slogan mediatico ‘aiutiamoli a casa loro’. Che stando alle scelte politiche del vecchio continente individua, nello sviluppo di un paese la soluzione per fermare i flussi migratori. Addirittura predispone investimenti aggiuntivi per i paesi d’origine, ignorando l’obiettivo primario alla base delle politiche europee di cooperazione: fare della migrazione una scelta e non una necessità.

In certi casi, il nesso tra i programmi di cooperazione e le politiche di controllo è esplicita: per esempio, gli aiuti in cambio di programmi per rafforzare il controllo delle frontiere - vedi Seahorse Atlantic Network - fra l’Unione europea e alcuni stati dell’Africa Sub Sahariana; o l’Eu-Horn of Africa Migration Route Initiative, che fornisce supporto politico e finanziario ai paesi del Corno d’Africa per gestire le migrazioni.

In altri, invece, è indiretto: è il caso dell’Aiuto pubblico allo Sviluppo (APS), destinato a programmi per la creazione di nuove opportunità di impiego nei contesti rurali dei paesi di origine. Di fatto, però, dopo una ridefinizione della natura dell’APS (della quale l’Italia si è fatta promotrice), che lo ha reso “più flessibile e allineato con gli obiettivi strategici europei (…) e perciò può essere utilizzato a sostegno della cooperazione migratoria con i paesi partner” – è finito per assumere la forma di uno strumento per fermare i flussi irregolari.

L’incoerenza delle politiche di cooperazione e questa costante tensione tra obiettivi di sviluppo e finalità contenitive è causa ed effetto di un approccio poco chiaro alla connessione tra migrazioni e sviluppo e all’impatto positivo delle une sull’altro, rappresentando un pilastro nella costruzione di sistemi alimentari sostenibili che hanno un peso enorme sulla sicurezza nutrizionale, per loro e per il pianeta. Ma questo è possibile solo se si include nelle politiche di cooperazione il miglioramento delle condizioni di vita dei migranti nei loro paesi di origine, rispettando, prima, la realizzazione dei diritti umani.

Come? Comiciando, per esempio, ad ideare proposte capaci di integrare in modo più efficace la variabile migratoria nei programmi sulla sicurezza alimentare. Non solo, certo. Stando alle raccomandazioni di Actionaid, riportate nel dossier “Migrazioni, sicurezza alimentare e politiche di cooperazione”, l’obiettivo lo si raggiunge superando i soliti obsoleti interventi di sviluppo rurale e agricolo e puntando a politiche in grado di “sostenere il tessuto produttivo locale, prevalentemente caratterizzato da piccola agricoltura famigliare, valorizzando e sostenendo la varietà dei mercati territoriali (…), ottimizzando le connessioni tra le aree urbane e quelle rurali, sostenendo la mobilità circolare e stagionale e promuovendo gli investimenti delle rimesse in attività fuori e dentro il settore agricolo nei contesti rurali”. Niente a che vedere con quanto visto finora.

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