Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Fabrizio Casari

Se tanti indizi formano una prova, allora sembra probabile che sia lo Yemen il teatro prescelto per l’ennesima guerra a stelle e strisce. Mediatica, diplomatica e militare, l’escalation di queste ore è evidente. Il fallito attentato al volo Northwest-Delta 253, partito da Amsterdam e diretto a Detroit il giorno di Natale, è stato l’innesco ideale per l’apertura di una campagna di stampa internazionale sul presunto pericolo che lo Yemen rappresenta per la sicurezza mondiale. Minacce di Al-Queda, normalmente gestite dall’intelligence, sono di colpo divenute notizie di rilievo assoluto, sulle quali si montano paginate di giornali e contatti diplomatici. La chiusura delle ambasciate di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giappone, con l’aggiunta della visita-lampo del Generale Petraeus a Sana’a, sembrano la risposta minacciosa alle minacce: sloggiamo i nostri per poter meglio colpire i vostri.

In realtà, che lo Yemen sia da diversi anni sotto l’influenza di Al-Queda non è una novità per nessuno. E tanto meno risulta una novità l’espansione progressiva dell’organizzazione di Osama bin Laden - o comunque, della galassia quedista - in lungo e in largo; dal Pakistan all’Afghanistan, dall’Indonesia al Maghreb, alla Somalia e, appunto, allo Yemen.

Lo stesso Yemen che in questi anni - ed anche recentemente - ha già avuto la sua dose di bombe e di vittime civili, i famosi “danni collaterali”. Questo, com’era prevedibile, non solo non ha piegato l’estremismo islamico, ma anzi l’ha rinforzato ed esteso. In un paese dove nessuna persona gira senza un’arma addosso, non è certo una buona notizia. Forse incrementare gli aiuti economici, invece che i bombardamenti, scaverebbe un fossato maggiore tra la popolazione e le sirene della Jihad. Per ora da Washington si nega qualunque idea d'intervento diretto, si afferma che “c’è l’impegno a sostenere il governo yemenita contro il terrorismo”, ma di solito il mezzo con cui si recapita il messaggio in qualche modo lo identifica. Quando il latore del messaggio é il comandante delle forze militari in Irak e Afghanistan, invece che un alto diplomatico, si vuole inviare un senso superiore al testo, un “tra le righe” che dice più delle righe stesse.

Ma per quanto un’azione punitiva statunitense possa essere devastante dal punto di vista della popolazione yemenita, la Casa Bianca sa - o dovrebbe sapere - che la guerra asimmetrica contro il terrorismo islamico non può essere condotta con gli schemi della guerra convenzionale. Non vince, non chiude: apre scenari che creano spirali ancora peggiori, invade ma non controlla, resta impantanata perché prevede un’inizio e non una fine, perde perché la guerra permanente, l’occupazione militare di paesi lontani decine di migliaia di chilometri, non può vincere.

Obama avverte la pressione interna dei repubblicani e cerca una strada per affermare una dottrina politico-militare che non si limiti a ripercorrere, pedissequamente, quella del suo predecessore. Non vi sono dubbi sulla diversa impostazione culturale e politica di Barak Obama nei confronti della cultura reazionaria che ha animato i maledetti otto anni dell’era neocon alla Casa Bianca. Ma la sua incapacità di gestire lo scontro interno, o la mancanza di strumenti e di forza per farlo, sembra indirizzarlo, per quanto involontariamente, sempre più nell’emulazione delle politiche internazionali di George Bush.

Mentre infatti ancora si attende il ritiro promesso dall’Irak, un nuovo corso in Medio Oriente, una exit extrategy degna di tal nome dall’Afghanistan ed un robusto cambio di linea in Pakistan, si firma il più imponente budget militare della storia statunitense, si accettano i golpe in America centrale, si riempie di basi militari l’America del Sud, si lascia campo libero a Netanyahu e ci s’infila in un corridoio angusto come quello yemenita, nel quale se si entra non sarà semplice uscire.

Eppure due cose dovrebbero essergli chiare: gli Stati Uniti hanno un’intelligence incapace di tenere la sfida con nemici che dimostrano di non avere timore e di espandersi in diversi paesi; le sue forze armate risultano seriamente inadatte a tenere il campo delle operazioni militari. Quella degli Stati Uniti è una crisi militare, oltre che politica ed economica, che mostra come la crisi profonda della leadership globale di Washington sia ormai un dato oggettivo, difficile da confutare con annunci di buone intenzioni e politiche sbagliate.

Servirebbe invece una dimostrazione di leadership e di capacità di tenere la barra del timone che corrispondesse all’aspirazione degli elettori americani e dell’opinione pubblica internazionale, che avevano visto in Obama la speranza di un’altra politica per un’altro Paese, diverso da quello ereditato. Servirebbero idee e decisioni che mirino a ristabilire il comando della politica sulle lobbies del petrolio e delle armi per definire concretamente il new deal. La ricerca del compromesso al ribasso a tutti i costi renderebbe invece chiara l’inadeguatezza del personaggio e l’incoerenza delle tesi sostenute con le azioni intraprese e farebbe sembrare la vittoria del primo presidente afroamericano alla Casa Bianca, poco più che un’operazione di maquillage politico e d’immagine.


 

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