Netanyahu e la Siria in pezzi

di Mario Lombardo

Lo scioccante bombardamento del palazzo presidenziale e di altri edifici governativi siriani da parte di Israele nella giornata di mercoledì ha dimostrato ancora una volta come non sia possibile intrattenere rapporti paritari con lo stato ebraico, il quale, per sua natura, comprende e accetta soltanto la dipendenza, quando a essa è collegata la sua stessa esistenza, ed è il caso delle...
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Francia, armi e austerity

di Michele Paris

La presentazione del bilancio pubblico per l’anno 2026 del primo ministro, François Bayrou, ha dato un’anticipazione piuttosto chiara delle misure drastiche di riduzione della spesa sociale che attendono non solo la Francia, ma anche molti degli altri paesi europei che hanno abbracciato con entusiasmo insensato le politiche ultra-dispendiose di riarmo per far fronte alla minaccia-fantasma russa. La brutale intensificazione dell’austerity prevista dal governo del presidente Macron è anche la conseguenza di un debito pubblico esploso in seguito alle crisi economiche degli ultimi due decenni, che hanno richiesto pesanti interventi di salvataggio per banche e imprese, e alla costante riduzione della pressione fiscale per le grandi...
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di Michele Paris

Con il probabile prossimo cambio della maggioranza in almeno uno dei due rami del Congresso USA dopo le imminenti elezioni di medio termine, un altro turnover sta andando silenziosamente in scena negli uffici delle principali lobby di Washington. Se il trionfo democratico del 2008 aveva spalancato le porte a centinaia di ex parlamentari e membri influenti del nuovo partito di maggioranza verso lucrosi incarichi di “consulenza”, il cambiamento del clima politico nella capitale USA sta ora invece scatenando una corsa all’assunzione di impiegati con solidi agganci nell’establishment repubblicano.

Mentre l’appuntamento elettorale del 2 novembre prossimo non sta comprensibilmente suscitando l’interesse della maggioranza dei cittadini americani, i quali comunque vada il voto non troveranno risposte ai loro problemi, lo stesso non si può dire per le compagnie di lobby che affollano Washington. Su K Street - l’arteria lungo la quale hanno sede numerose aziende che promuovono gli interessi dei grandi gruppi economici al Campidoglio - si presta infatti grande attenzione agli equilibri di potere tra i due partiti che dominano la scena politica americana.

Secondo un recente articolo del New York Times, che chiarisce a sufficienza a chi rispondono i rappresentanti del popolo una volta eletti al Congresso, per i repubblicani in odore di vittoria sono pronte proposte di impiego nel settore privato che garantiscono salari dai 300 mila fino al milione di dollari. Un’opportunità molto allettante se si pensa che solo fino a pochi mesi fa la cattiva sorte del Partito Repubblicano aveva chiuso le porte dei gruppi di interesse e delle lobby private agli ex congressmen di minoranza e ai membri dei loro staff. Oggi, al contrario, il vento sta rapidamente cambiando direzione.

Un parlamentare con qualche anno di esperienza sulle spalle rappresenta d’altra parte la scelta ideale per le lobby americane. Con una rete di amicizie al Congresso alle quali chiedere favori, qualche contatto con leader di paesi esteri e magari un nome prestigioso da poter esibire nei corridoi del potere, il politico diventato lobbista incarna il tramite perfetto tra le corporation e i politici ben disposti ad assecondare i loro interessi.

I leader repubblicani, in caso di successo, hanno poi già promesso di voler mettere mano ad alcuni dei provvedimenti più significativi approvati dai democratici in questo biennio, primi fra tutti le pseudo riforme del sistema sanitario e di Wall Street. In questo caso allora, disporre di uomini fidati in grado di assicurarsi una corsia preferenziale verso i nuovi vertici di maggioranza diventerà fondamentale per le lobby statunitensi.

Come per il recente passato, nuovi dibattiti su leggi importanti determineranno così una nuova pioggia di dollari sulle compagnie di consulenza di Washington. Tra il 2009 e il 2010, secondo i dati ufficiali, le corporation americane hanno già speso 3,5 miliardi di dollari che hanno gonfiato i redditi di ben 13 mila lobbisti.

La campagna acquisti di lobby e colossi privati tra i repubblicani è già in corso da tempo, come ricorda ancora il Times. JPMorgan, ad esempio, avrebbe ingaggiato l’influente ex senatore della Florida Mel Martinez, dimessosi dal Congresso nell’estate dello scorso anno per perseguire una più redditizia carriera di lobbista. Robert Wilkie, importante funzionario del Dipartimento della Difesa durante l’amministrazione Bush, è finito invece sul libro paga del gigante delle costruzioni C2M Hill, mentre la canadese Research In Motion, nota per aver sviluppato lo smartphone BlackBerry, ha sostituito tra i suoi dirigenti un democratico con un ex assistente del deputato repubblicano della California Darrell Issa.

Se molte compagnie cercano di assicurarsi i servizi di ex politici appartenenti al partito di volta in volta al potere, altre operano in maniera costantemente bipartisan. Per evitare sorprese ed avere una regolare collaborazione con maggioranza e opposizione, alcune lobby preferiscono mantenere costantemente uno staff formato da esponenti di entrambi i partiti.

Il dilagare ormai incontrollato di queste pratiche non trova praticamente alcun ostacolo nei debolissimi regolamenti adottati dai due rami del Parlamento statunitense. Mentre il Senato proibisce almeno tutti i contatti tra l’intero corpo della camera alta e i lobbisti per un anno da quando questi ultimi hanno abbandonato l’attività politica, alla Camera dei Rappresentanti le regole sono molto più elastiche. Qui, infatti, ai nuovi lobbisti è vietato entrare in contatto per un anno solo con i membri dell’ufficio per cui lavoravano e non con gli altri membri della camera bassa.

Il passaggio dal Congresso alle fila di lobby o corporation rappresenta ormai quasi un percorso obbligato a Washington. Durante gli anni trascorsi alla Camera o al Senato i politici di entrambi gli schieramenti elargiscono favori a quelle stesse grandi compagnie private che di lì a breve li assolderanno a tempo pieno, gratificandoli con stipendi a sei zeri per il servizio svolto nei loro incarichi elettivi.

Comunque vadano le elezioni, dunque, ciò che accadrà al Congresso degli Stati Uniti nei prossimi due anni appare già segnato. Sia che la maggioranza resterà ai democratici o passerà invece ai repubblicani, quel che è certo è che gli unici a veder rappresentati i propri interessi a Washington saranno sempre i poteri forti che continuano a manipolare la scena politica americana.

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