Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Michele Paris 

L’11 febbraio scorso, la caduta di Hosni Mubarak era stata giustamente salutata come una clamorosa vittoria del movimento rivoluzionario egiziano. Nonostante la portata storica del risultato raggiunto dalle proteste di piazza, la giunta militare succeduta all’anziano dittatore ha fatto di tutto per impedire un reale cambiamento nel più importante paese arabo. La prevedibile attitudine controrivoluzionaria delle forze armate in Egitto ha trovato immediatamente il sostegno degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali, pronti a puntare su uno dei pilastri del precedente regime per conservare una qualche “stabilità” in una regione in pieno fermento.

La prova più evidente del ruolo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, alla guida dell’Egitto con poteri dittatoriali dopo aver rimosso Mubarak, è stata la promulgazione nella settimana scorsa di un decreto che mette fuori legge scioperi e manifestazioni di piazza che rechino disturbo all’attività delle compagnie pubbliche e private o all’economia del paese in genere.

L’iniziativa della giunta militare è arrivata dopo che le proteste e gli scioperi non accennavano a placarsi nelle settimane seguite all’uscita di scena di Mubarak e, in sostanza, finisce col criminalizzare quegli stessi metodi pacifici che centinaia di migliaia di persone avevano usato per chiedere il cambiamento.

Questo provvedimento serve ai militari per soffocare ulteriori proteste da parte dei cittadini egiziani e per bloccare sul nascere qualsiasi richiesta che vada al di là delle riforme di facciata adottate finora. Nel dopo-Mubarak, i cortei e gli scioperi di lavoratori di svariati settori dell’economia egiziana sono infatti proseguiti, con l’obiettivo di ottenere veri diritti democratici ma anche opportunità di lavoro, aumenti di stipendio, giustizia e il licenziamento di quei funzionari e manager compromessi con il vecchio regime.

Se è pur vero che per le strade del Cairo si respira oggi un’aria diversa, l’ossatura del regime rimane pressoché inalterata, così come molti uomini vicinissimi a Mubarak continuano a ricoprire incarichi di potere.

A guidare il Consiglio Supremo delle Forze Armate è il 75enne maresciallo di campo Mohamed Hussein Tantawi. Per due decenni Ministro della Difesa (dal 1991), quest’ultimo viene descritto in un cablo del marzo 2008, redatto dall’allora ambasciatore USA al Cairo Francis J. Ricciardone e pubblicato da Wikileaks, “ostile al cambiamento” e, come Mubarak, “interessato alla stabilità del regime e al mantenimento dello status quo fino alla fine”. Lo stesso premier, Essam Sharaf, era stato Ministro dei Trasporti tra il 2004 e il 2005 prima di dedicarsi all’insegnamento in seguito a divergenze con il governo e unirsi recentemente al movimento di protesta.

L’illusione di trovare nelle forze armate egiziane un alleato comune per la causa democratica si era diffusa rapidamente tra l’opposizione più o meno spontanea che si era riversata nelle strade a partire dalla fine di gennaio. L’atteggiamento relativamente moderato dei militari di fronte alle proteste e alla repressione violenta dell’apparato di polizia del regime aveva contribuito ad alimentare le speranze di molti. Questo entusiasmo, tuttavia, si è ben presto trasformato in diffidenza e rabbia non appena è apparso evidente che i vertici dell’esercito non rappresentano altro che una componente fondamentale del regime stesso.

In quanto tale, il Consiglio Supremo delle Forze Armate agisce per limitare il cambiamento nel paese e mantenere inalterata la struttura di un regime che si fonda su una ristretta cerchia di funzionari di alto rango e uomini d’affari arricchitisi a dismisura grazie ai favori ottenuti con la fedeltà dimostrata verso il deposto presidente Mubarak.

Per ottenere quest’obiettivo, la giunta militare continua ad appoggiarsi sul suo apparato di sicurezza - solo scalfito dagli eventi delle ultime settimane - e sullo stato di emergenza, in vigore dall’assassinio di Sadat nel 1981 e non ancora revocato nonostante le promesse. Un ruolo fondamentale lo svolge poi la collaborazione con le opposizioni nominali, come i Fratelli Musulmani, il partito liberale Wafd, il presidente della Lega Araba Amr Moussa e in una certa misura anche Mohamed ElBaradei, così da offrire una facciata di democrazia di fronte alla comunità internazionale.

A riprova della natura reazionaria della giunta militare egiziana c’è soprattutto la repressione messa in atto per spegnere le proteste di quanti hanno continuato a presentarsi in Piazza Tahrir e altrove negli ultimi due mesi. Violenze, detenzioni e addirittura abusi sessuali hanno contraddistinto la risposta di quelle forze armate che, nelle parole del portavoce della giunta, generale Ismail Etman, dovrebbero “proteggere e difendere la rivoluzione”.

La situazione egiziana, ormai passata in secondo piano sulla stampa occidentale, assieme alle durissime repressioni in paesi come Bahrain, Oman e Yemen e all’intervento militare in Libia evidenzia i formidabili ostacoli che stanno incontrando i movimenti popolari sorti in Medio Oriente e in Africa Settentrionale per chiedere libertà e giustizia sociale.

Gli strati più disagiati di queste popolazioni devono fronteggiare la resistenza delle élites locali, che reprimono nel sangue le proteste o, nella migliore delle ipotesi, concedono solo riforme superficiali; a queste si sommano le pressioni delle potenze occidentali che intervengono - anche militarmente, come nel caso libico - per proteggere i loro interessi.

In questo scenario, le cause che hanno scatenato le rivolte restano immutate: dalla povertà diffusa alla mancanza di spazi democratici, dalla corruzione dilagante alle disuguaglianze sociali sempre più marcate.

In Egitto, la giunta militare opera con il pieno appoggio di Washington e dell’Europa. Non a caso, infatti, il decreto contro scioperi e manifestazioni è stato emanato proprio in concomitanza della visita al Cairo del numero uno del Pentagono, Robert Gates, e poco dopo il discusso blitz in Piazza Tahrir del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Gli Stati Uniti hanno assicurato ai militari al potere che continueranno ad arrivare miliardi di dollari in aiuti se verrà garantita quella stabilità che aveva fatto di Mubarak uno dei loro alleati più fedeli nella regione.

Lo stesso referendum costituzionale offerto agli egiziani e approvato lo scorso 19 marzo rientra nel tentativo del Consiglio Supremo delle Forze Armate di prevenire qualsiasi cambiamento traumatico del sistema.

I militari avevano infatti messo assieme in tutta fretta una commissione di esperti incaricata di proporre alcune modifiche alla Costituzione. Ciò che ne è uscito sono otto emendamenti trascurabili, tra cui il limite di due mandati per la carica di presidente, che hanno impedito qualsiasi altra richiesta di cambiamento più radicale.

Incassato il via libera al referendum, i generali egiziani hanno così annunciato le nuove date delle elezioni. Quelle per il Parlamento si terranno a Settembre invece che a Giugno, mentre le presidenziali sono state spostate da Agosto a Novembre. La giunta, salvo un’eventuale nuova escalation di proteste, dovrebbe rimettere i poteri legislativo ed esecutivo, che attualmente detiene, dopo le due consultazioni. Il Parlamento procederà poi ad eleggere un’Assemblea di cento membri che sarà chiamata a scrivere una nuova Carta Costituzionale, da sottoporre a sua volta a referendum popolare.

Le forze di opposizione avrebbero voluto tempi più lunghi per il voto. Tempi così brevi, sostengono gli animatori della rivolta, finiranno per favorire i partiti meglio organizzati, come i Fratelli Musulmani e il Partito Nazionale Democratico che fu di Hosni Mubarak.

Un esito che sarebbe tutt’altro che rivoluzionario, ma che i militari e gli americani gradirebbero per chiudere rapidamente e senza troppe scosse la travagliata transizione verso un Egitto “democratico”.

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