USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

In un clima di crescenti minacce e aperte provocazioni verso l’Iran, gli Stati Uniti stanno intensificando lo sforzo diplomatico con i loro alleati per aumentare le pressioni sul governo di Teheran e, ufficialmente, convincerlo a rinunciare al suo discusso programma nucleare. Pur mantenendo aperta ogni ipotesi, compresa quella militare, è l’arma dell’embargo sulle esportazioni di petrolio che Washington sta promuovendo in questo inizio d’anno per colpire l’economia iraniana e destabilizzare il regime.

La campagna diplomatica anti-iraniana è in pieno svolgimento in questi giorni con delegazioni americane inviate in vari paesi per spingere i rispettivi governi a sottostare al dettato delle sanzioni unilaterali firmate dal presidente Obama lo scorso 31 dicembre. Le nuove disposizioni USA prevedono l’esclusione dal mercato americano di qualsiasi entità - pubblica o privata - che faccia affari con la Banca Centrale iraniana, la quale gestisce appunto le transazioni relative alle esportazioni di greggio.

Le attenzioni dell’amministrazione Obama si stanno concentrando in particolare sugli alleati asiatici. Martedì, il consigliere speciale del Dipartimento di Stato, Robert Einhorn, e l’assistente al Segretario al Tesoro per i crimini finanziari, Daniel Glaser, hanno incontrato a Seoul il vice ministro degli Esteri sudcoreano, Kim Jae-shin, al quale hanno manifestato la richiesta di ridurre sensibilmente le importazioni di petrolio dall’Iran. Secondo il quotidiano locale Dong-A Ilbo, gli Stati Uniti vorrebbero vedere dimezzate le forniture di petrolio dall’Iran alla Corea del Sud, mentre quest’ultima sarebbe disponibile a valutare al massimo un taglio del 30 per cento.

Seoul paga tramite la Banca Centrale iraniana le forniture di greggio, che ammontano a circa il 10 per cento del totale del proprio fabbisogno energetico. Nonostante la promessa di collaborare con Washington, i sudcoreani si sono mostrati piuttosto cauti, poiché temono per la propria sicurezza energetica e per una possibile impennata del prezzo del petrolio che farebbe lievitare l’inflazione, con conseguenze nefaste per le chances di rielezione del presidente conservatore, Lee Myung-bak, a pochi mesi dal voto. Dopo la visita in Corea del Sud, la delegazione americana si recherà in Giappone, altro importatore di greggio iraniano cui verrà chiesto di sottostare alle nuove sanzioni USA.

Le resistenze di altri paesi a limitare i rapporti commerciali con Teheran appaiono decisamente più esplicite. L’India, ad esempio, tramite il ministro degli Esteri Ranjan Mathai, ha fatto sapere martedì di voler continuare ad acquistare il petrolio iraniano senza chiedere alla Casa Bianca di essere esentata dalle sanzioni, come prevede la legge licenziata a dicembre dal Congresso. In sostanza, Nuova Delhi ha deciso di ignorare del tutto le misure decise a Washington, anche perché, malgrado alcune dispute sui pagamenti nel recente passato, l’Iran è per l’India il secondo fornitore di petrolio dopo l’Arabia Saudita.

Ancora più ferme nella loro opposizione a qualsiasi misura contro l’Iran sono poi Cina e Russia. Pechino è il primo partner commerciale di Teheran, da cui riceve il 22 per cento delle proprie importazioni di petrolio e, come previsto, ha respinto le sanzioni americane. Il governo cinese vuole proseguire la collaborazione con la Repubblica Islamica, nonostante abbia recentemente ridotto le importazioni di greggio dall’Iran a causa di una contesa sul prezzo.

La sicurezza energetica per la Cina viene prima di tutto e Pechino, per assicurarla, intende mantenere rapporti cordiali sia con l’Iran che con i paesi alleati degli USA in Medio Oriente, come dimostra la visita in corso nella regione del premier, Wen Jiabao, il quale ha appena siglato una serie di accordi in ambito petrolifero e nucleare con il regime saudita.

Mosca, da parte sua, appare anche più esplicita nel condannare integralmente la politica USA nei confronti dell’Iran, come ha confermato mercoledì il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov. In una dichiarazione riportata dalla Associated Press, il capo della diplomazia russa si è detto seriamente preoccupato che un attacco militare contro Teheran possa innescare una “reazione a catena” che finirebbe per destabilizzare l’intero pianeta. Lavrov ha anche criticato l’imposizione delle sanzioni, le quali penalizzano l’economia iraniana colpendo soprattutto la popolazione.

Se Cina e Russia pongono al primo posto i rispettivi interessi riguardo la questione iraniana, l’atteggiamento dell’Unione Europea sembra al contrario privilegiare l’alleanza con gli Stati Uniti a scapito degli interessi di molti paesi membri. L’UE sta infatti valutando l’adozione di un embargo totale sul greggio iraniano e la decisione definitiva dovrebbe essere presa nel corso di un summit in programma il prossimo 23 gennaio. Alcuni paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna, appoggiano in pieno il provvedimento, mentre altri - tra cui Italia e Grecia, le quali importano quantitativi importanti di petrolio da Teheran a prezzi vantaggiosi - hanno posto delle condizioni.

Come ha fatto notare qualche giorno fa in un’intervista diffusa dall’agenzia di stampa Mehr il rappresentante iraniano all’OPEC, Seyyed Mohammad Ali Khatibi, “uno scenario nel quale le esportazioni di petrolio verso l’UE vengono bandite corrisponderebbe ad un suicidio economico per i paesi membri”. Secondo alcune statistiche, l’Iran esporta verso l’Europa circa 800 mila barili di petrolio al giorno e un eventuale embargo provocherebbe un ulteriore aumento del prezzo del greggio, peggiorando la crisi economica in atto. A confermare l’autolesionismo dei governi europei è stato il ministro degli Esteri di Madrid, José Manuel Garcia-Margall, il quale mercoledì ha affermato che il suo paese potrebbe appoggiare le sanzioni anche se esse causeranno “gravi danni” ai due principali importatori spagnoli di petrolio iraniano.

Per far fronte al possibile venir meno del petrolio iraniano sul mercato internazionale - circa 2,2 milioni di barili al giorno - il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, l’altro giorno in un’intervista alla CNN ha promesso di aumentare la produzione di greggio del proprio paese fino a 2,7 milioni di barili al giorno, portandola complessivamente a 11,8 milioni di barili. L’uscita di Naimi ha suscitato le ire di Teheran, da dove il ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, ha invitato i sauditi a “riflettere e a riconsiderare la proposta”. Per Salehi, quelli che provengono da Riyadh sono “segnali poco amichevoli” e potrebbero creare problemi tra l’Iran e l’Arabia Saudita.

Oltre alla campagna diplomatica e alla guerra economica, gli USA e i loro alleati continuano a portare avanti anche operazioni segrete contro Teheran, i cui effetti si sono visti solo pochi giorni fa con l’assassinio nella capitale dell’ennesimo scienziato nucleare iraniano, Mustafa Ahmadi Roshan.

Come ha messo in luce un’indagine del Sunday Times pubblicata il 15 gennaio, l’operazione è con ogni probabilità da attribuire al Mossad israeliano, verosimilmente con la collaborazione dell’organizzazione terroristica sunnita attiva in Iran, Jundallah. Azioni simili, ovviamente non commentate o smentite da Washington e Tel Aviv, sono mirate a provocare una reazione da parte iraniana, così da giustificare un’aggressione militare.

Un attacco preventivo contro le installazioni nucleari iraniane non sembra in ogni caso imminente. Qualche segnale di cautela da parte di Israele è giunto negli ultimi giorni. Non solo è stata rimandata un’esercitazione militare congiunta tra USA e Israele che avrebbe potuto alimentare le tensioni con Teheran, ma anche il ministro della Difesa Ehud Barak nel corso di un’intervista alla radio militare israeliana mercoledì ha affermato che la decisione da parte del suo governo di attaccare l’Iran è ancora “molto lontana”.

Queste rassicurazioni contribuiscono in ogni caso ben poco a dissipare i timori di un nuovo conflitto in Medio Oriente dalle conseguenze rovinose. Stati Uniti e Israele sembrano infatti disposti a tutto pur di spezzare l’asse di resistenza nella regione che si fonda precisamente sulla Repubblica Islamica. Minacce, sanzioni e operazioni segrete di stampo terroristico rimarranno così all’ordine del giorno fino a quando a Teheran non verrà installato un regime meglio disposto verso i loro interessi.

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