Russia, il trionfo di Putin

di Fabrizio Casari

Con una debordante vittoria elettorale di Vladimir Putin, si è conclusa la consultazione elettorale russa. Le operazioni di voto sono durate tre giorni, necessari per coprire il Paese più grande del mondo: un territorio immenso di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari diversi e 112 milioni di elettori su 146 milioni di abitanti. Il dato che balza immediatamente all’attenzione...
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Ecuador e Argentina: stessa rotta?

di Juan J.Paz-y-Miño Cepeda

L'Argentina è un Paese che ha sempre occupato un posto di rilievo nella storiografia sull'America Latina. È uno Stato con processi di enorme importanza per comprendere il modo in cui il capitalismo si è sviluppato nella regione. Attualmente è al centro dell'attenzione mondiale, perché per la prima volta nella storia è salito alla presidenza un politico libertario anticapitalista, che ha iniziato a imporre le misure che ritiene necessarie per cambiare il corso del Paese e avviarlo verso l'utopia del regno della "libertà" economica. Gli effetti di tale percorso stanno esplodendo di settimana in settimana, tanto che il presidente Javier Milei sta giocando al paradiso dell'impresa privata - perché questo è il contesto storico - a...
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di Vincenzo Maddaloni

Gli alleati europei farebbero bene a ricordarle che la libertà non si esporta sulle punte delle baionette, perché purtroppo pare che l’America se lo sia dimenticato fin da tempi di George W. Bush. Infatti, il rischio di un conflitto armato tra una coalizione a guida Stati Uniti - Israele e l’Iran è - da due mesi a questa parte - per gli analisti militari israeliani, «pericolosamente vicino». L’anno nuovo si è inaugurato con un massiccio dispiegamento di truppe in Medio Oriente. Novemila soldati statunitensi hanno raggiunto Israele per partecipare a quella che viene raccontata come la più grande esercitazione bellica congiunta di difesa aerea della storia israeliana.

Le manovre, indicate con “Austere Challenge 12”, sono previste entro le prossime settimane. Il loro scopo, come informa Michael Chussudovsky, economista e analista di spicco di “Global Research”, «è quello di testare i molteplici sistemi di difesa aerea israeliani e statunitensi, in particolare il sistema Arrow (concepito per intercettare missili balistici a corto e breve raggio), che Israele nello specifico ha sviluppato con il concorso degli Stati Uniti per intercettare i missili iraniani».

Naturalmente, alle grandi manovre non poteva mancare la Marina Reale della Gran Bretagna, presente con il suo vascello da guerra di concezione più avanzata, il Type 45 destroyer HMS Daring, «progettato in modo da non potere essere individuato dai radar». Così la compagine anglosassone è al completo.

Una guerra con l’Iran è data per certa pure nei servizi giornalistici dagli Stati Uniti. Anzi, Mark Perry su “Foreign Policy” http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/01/13/false_flag?page=0,2 dello scorso 13 gennaio ha scritto che lo Stato ebraico è già da tempo in guerra aperta con la repubblica degli Ayatollah, e che ai più alti livelli politico-militari gli Usa sono da sempre perfettamente al corrente di quanto sta accadendo, «senza volere o senza potersi opporre». Tuttavia la diplomazia americana da mesi fa - con tutti i mezzi - opera di convinzione tra gli alleati europei sulla necessità di un intervento armato contro l’Iran.

Ne sono un esempio i contatti che ci sono stati tra Napolitano e Barack Obama durante la messa a punto del governo Monti, e dai quali sarebbero emersi i nomi dei ministri di Esteri e Difesa: l`ambasciatore negli Stati Uniti, Giulio Terzi, e il presidente del Comitato militare della Nato, l`ammiraglio Giampaolo Di Paola. Uomini che garantiscono alla Casa Bianca l`assoluta fedeltà dell`Italia. Così non c’è da stupirsi se sull`applicazione di nuove sanzioni a Teheran, Terzi abbia dichiarato che «l`Italia sostiene con piena convinzione il piano di sanzioni economiche annunciato dall`Amministrazione americana».

Sebbene dai dati pubblicati dal Consiglio Europeo emerga che l'Italia è il partner commerciale più importante dell’Iran, con gli scambi che ammontano - dati del primo semestre 2011 - a tre miliardi e 485 mila euro, ossia più di un quarto dei ricavi provenienti dalle transazioni iraniane con l'Unione Europea, pari a 12 miliardi. La Germania è ben distante, pur essendo con un miliardo e 868 mila di movimenti il secondo principale interlocutore finanziario dell'Iran in Europa.

Sicché, l'effetto deprimente delle sanzioni contro l'Iran si fa sentire soprattutto sull'economia italiana, tanto che persino il quotidiano confindustriale Il Sole24 ore ha segnalato che siccome i pagamenti iraniani alle aziende italiane non possono pervenire a causa del blocco delle banche occidentali, molte imprese esportatrici italiane stanno soccombendo. http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-12-18/freno-banche-iran-081543.shtml?uuid=AYwmxnsC

Beninteso, quello che Nato e America vogliono da noi come dagli altri alleati europei, è una partecipazione incondizionata alle sanzioni, il resto per loro non conta. Perché di fronte agli atti di terrorismo, alle rivolte delle piazze, o agli atteggiamenti di sfida come quelli del presidente iraniano Mahmud Ahmadinej?d, l'America - ricorda in ogni occasione il presidente Obama - non può aspettare, deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminarne le tare e costringerlo a democratizzarsi.

Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico di tale compito, ricorrendo alla forza, se necessario. L'invocazione astratta di “affermare la democrazia“ diventa così il pretesto per scatenare l’intervento militare, che ricorda po' quello che succedeva, in tempi non lontani, con il “socialismo reale“ dell'Unione Sovietica. Insomma, se si pensa a quel che è accaduto in Iraq o in Libia, si fa presto a capire quali possano essere i risultati della prossima “guerra di liberazione”.

Comunque sia, avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana continua a proiettarsi verso l'esterno con un’azione aggressiva, unilaterale, arrogante che mal si concilia con i discorsi altruistici sulla democrazia. È questo che nell’Amministrazione guida gli interventi in Medio Oriente e nel Golfo Persico. Siccome i bombardamenti servono a gestire il business, a consolidare la sinergia tra le bombe e le banche nell’America di Obama, come avveniva in quella di Bush, è “l’Amministrazione” che agisce in sintonia perfetta con la NATO e col "Business & Economics Program" del Consiglio Atlantico, che essendone l'organo dirigente è il protagonista eccellente della "governance" dell'economia mondiale.

Dopotutto, e non a caso, in Italia c’è un governo di banchieri, imposto dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca centrale Europea. Mario Monti non è soltanto un esponente della Commissione Trilaterale e del Bildelberg, nonché consulente della banca americana di Goldmann-Sachs, ma egli è (lo rivela il blog del  Comidad http://www.comidad.org/dblog/) addirittura tra i membri dell'Advisor Group del "Business & Economics Program", come si legge sul sito Web del Consiglio Atlantico http://www.microsofttranslator.com/bv.aspx?ref=IE8Activity&from=&to=it&a=http%3a%2f%2fwww.acus.org%2fpeople%2fbeag.

Insomma egli è un personaggio del grande capitale, delle lobby, e questo spiega perché Merkel e Sarkozy gli riservino tanta considerazione. A Monti non dispiacerebbe (per sua stessa ammissione) contribuire alla costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale, come si legge nell’intervista (2009, ma ancora valida) pubblicata sempre sul sito web del Consiglio Atlantico. http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=en&u=http://www.acus.org/new_atlanticist/5-questions-mario-monti&ei=2xoTT-yZIfT34QSxt6TjAw&sa=X&oi=translate&ct=result&resnum=3&ved=0CDwQ7gEwAg&prev=/search%3Fq%3Datlantic%2Bcouncil%2Bmario%2Bmonti%26hl%3Dit%26rlz%3D1R2ACAW_it%26prmd%3Dimvnso

Nasce da questo insieme di cose - infinito e disparato - la difficoltà di modificare il governo indissolubilmente nazionalista che suggella la desecolarizzazione crescente della politica dell’America, che è disposta a scatenare guerre pur di mantenere la leadership nel mondo. Infatti, è la facilità con la quale gli uomini di Obama giustificano la guerra preventiva in Medio Oriente come una sorta d’imperativo etico e religioso, che li rende del tutto identici ai “neocons“ dell’éra Bush.

Poiché quest’ossessivo richiamo alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica - o meglio della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana - ridiventa il pretesto per riesumare e diffondere le vecchie immagini gli antichi capi d’accusa secondo i quali: l’Islam è una religione violenta, che si è imposta con l’uso delle armi; una religione dissoluta dal punto di vista morale; una religione piena di false affermazioni e di consapevoli capovolgimenti della verità. Tesi - nell’éra di Twitter e del web - difficili da sostenere ma, come scriveva Giacinto de' Sivo (1814-1867), «Il volgo s'annoia a pensare, e volentieri s'acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno l'opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine».

Si tenga a mente che il problema della conoscenza reciproca non si pone soltanto in chiave storica, ma innanzitutto in chiave contemporanea. L’Occidente del grande capitale ha dedicato fondi ed energie a studiare gli usi e i costumi dell’Altro, ma nessuno ha mai veramente consentito all’Altro di studiare usi e costumi dell’Occidente, se non nelle scuole tenute dagli occidentali, e consentendo soltanto ai più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi, e poi si vede cosa succede.

Studiano in Occidente e quando tornano a casa sostengono i movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare. Succede perché le insoddisfazioni sociali, la partecipazione comunitaria, che nel secolo scorso erano espresse dalle ideologie marxista o nazionalista, si sono incanalate sui percorsi religiosi assumendone i rituali e i linguaggi.

Il bisogno di sicurezze, di valori “autentici”, in un’epoca così confusa e incerta ha ritrovato nella religione un punto di riferimento. E’ una tendenza che le lobby economiche incoraggiano, sostengono, e soprattutto controllano. Perché la religione appunto è diventata il cemento ideologico che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, assunti a ideologia che configura la lotta politica dentro e fuori gli Stati Uniti, com’è accaduto con la primavera araba tramata e gestita da Washington. Non è possibile che tutto questo possa accadere senza il beneplacito dei lobbisti dai quali dipendono le sorti dell’economia mondiale.

Infatti in questo scenario, i grandi media giocano una parte sostanziale alimentando una certa immagine collettiva del mondo musulmano, diffondendo la convinzione che, con il termine “musulmano” si possa definire per intero la cultura di un Paese. Non si specifica che l’Islam è invece soltanto una delle diverse componenti che costituiscono l’universo culturale di una nazione.

Tutti i musulmani hanno la barba lunga, tutti aiutano i terroristi, tutte le donne portano il velo. Essere musulmani vuol dire essere tutto questo secondo l’identikit che tuttora viene diffuso dai grandi mezzi di comunicazione di massa. Ricorderete le immagini delle televisioni di tutto il mondo dopo la cacciata del regime dei talebani a Kabul. E i commenti che accompagnavano quelle immagini. «Ora gli afghani si potranno tagliare la barba e le donne togliere il burqa».

E’ trascorso un decennio, ma nessuno finora ha spiegato perché gli afghani la barba non se la sono tagliata e perché le donne non si sono tolte il burqa. E’ un esempio tra i tanti che conferma come, in fatto di conoscenza reciproca, pochissimi passi siano stati compiuti.

Ne sono la riprova le immagini di Youtube di qualche giorno fa che mostrano i quattro marine americani mentre urinano, sghignazzando, sui cadaveri di tre talebani nell'Afghanistan meridionale. Stando così le cose meglio si capisce perché gli USA non sono più in grado di sostenere il “Washington Consensus” facendo affidamento sui soli strumenti politici ed economici, come accadeva quando il mondo era diviso in due blocchi.

Oggi per «sostenere la preminenza globale degli Stati Uniti nella difesa del XXI secolo» , si deve «mantenere la superiorità militare globale». L’ha annunciato al mondo (5 gennaio 2012) il presidente Obama con un documento di otto pagine nel quale definisce conclusa l’epoca delle guerre di lunga durata, annuncia il potenziamento delle flotte di droni (i velivoli che non hanno bisogno di pilota), rassicura gli americani sulla superiorità tecnologica degli Stati Uniti grazie alla sicurezza informatica di cui essi godono.

Tuttavia, benché lo abbia più volte ribadito annunciando la fine delle “guerre lunghe”, la distanza di Obama dalla politica dell’éra Bush-Cheney, dalla visione del Medio Oriente e del mondo musulmano, non si discosta da quella del suo predecessore. Poiché continua ad essere visto - s’è detto - come un mondo incapace di evolversi,  imprigionato nelle regole imposte da una religione che ostacola il processo di democratizzazione (concepita dagli americani) come l'unico rimedio possibile per realizzare la emancipazione delle società islamiche.

Pertanto diventa significativo l’intervento del generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore delle forze armate, quando ammette il suo disagio se alcuni paesi «possono vederci come una nazione decadente, o anche come militarmente in rovina, perché nulla è più lontano dalla verità». (Robert Burns, AP, 5 gennaio).

Evidentemente qualche dubbio il generale ce l’ha, assieme alla convinzione che anche l’Amministrazione Obama abbia fallito in Medio Oriente e nel Golfo Persico, e che di conseguenza il sostegno alla politica di aggressione americana venga rimesso in discussione.

Del resto le lobby che controllano l’economia globale ignorano le sottigliezze degli analisti, si limitano a constatare l’efficacia delle azioni senza porsi angosciosi quesiti sui conflitti religiosi e la loro influenza sulle politiche internazionali.

Oggi, l’unico dato certo è che l'intera operazione americana in Iraq, dal marzo del 2003 al dicembre 2011, ha reso tutta la regione molto più instabile di quanto lo fosse alla vigilia del conflitto. E’ questa la sola verità su cui non c’è ombra di dubbio che inquieta le lobby. Dipende molto da essa se un’altra guerra l’America la potrà fare, oppure no.

 

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