Ucraina, finale di spettacolo

di Fabrizio Casari

L’incontro tra Putin e Trump in Alaska ha permesso al presidente statunitense di iniziare la sua exit strategy dall’Ucraina. Preso atto di una guerra che non può essere vinta e che anche per questo non sarebbe mai dovuta iniziare, Trump ritiene che l’impatto spaventoso sui conti statunitensi del mantenimento di una guerra destinata all’insuccesso non solo compromette la stabilità...
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Un fantasma si aggira per le Americhe

di Luis Varese

La minaccia statunitense verso il Venezuela e l’intera America latina incombe. Viene denunciata la presenza marittima di una flotta statunitense della quale fa parte un sottomarino nucleare nelle acque dei Caraibi in viaggio verso il Sud del continente con a bordo 4500 marines. Gli Stati Uniti giustificano lo spostamento con la “lotta al narcotraffico”. Al momento, alla netta opposizione dei paesi dell’ALBA-TCP, si è aggiunta la Presidente del Messico, che ha reagito condannando ogni forma di interventismo. Non serviva questa flotta, è già esagerata la presenza statunitense, costituita da centodieci basi militari di diversa denominazione e dimensione, secondo quanto riportato dal Centro Messicano di Relazioni Internazionali per...
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di Fabrizio Casari

Bombardamenti e combattimenti a Damasco e Aleppo, emergenza profughi e minacce di contagio al vicino Libano, un nuovo inviato dell’Onu, colloqui diplomatici senza sosta e senza frontiere sono i colori con i quali il disegno siriano viene presentato agli occhi dell’opinione pubblica e vengono utilizzati come pretesto per i recenti scatti in avanti di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna - cui vorrebbe aggiungersi anche l’Italia - e per il rafforzamento dell’intervento militare diretto e indiretto dell’Occidente che ormai non nega più la sua pesante ingerenza nella crisi siriana.

Ieri i responsabili di Stati Uniti e Turchia si sono riuniti ad Ankara per gettare le basi di un "meccanismo operativo" finalizzato a preparare il post Bashar al Assad in Siria. Stando a  quanto indicato da fonti diplomatiche di Ankara, diplomatici, militari e responsabili dei servizi di sicurezza, diretti dal vice segretario di stato Elizabeth Jones, da parte americana, e il sottosegretario di stato aggiunto agli Affari Esteri Halit Cevik, da parte turca, hanno l'obiettivo di coordinare le risposte di fronte alla crisi siriana in materia militare, politica e di intelligence. Il principio di un meccanismo simile è stato deciso nel corso di una visita a Istanbul, l'11 agosto, del segretario di stato americano Hillary Clinton: gli Stati Uniti hanno annunciato di voler accelerare la fine del regime di Damasco.

Apparentemente i colloqui verterebbero anche su altri due temi: quello dell’arsenale chimico siriano e l’emergenza profughi che comincia a diventare un problema a carattere regionale. E se per quest’ultimo aspetto turchi e americani devono raggiungere un' intesa sulla previsione e la creazione di una zona cuscinetto alla frontiera turca in caso di consistente afflusso di rifugiati siriani, per quanto riguarda l’arsenale chimico di Assad le cose sono decisamente più complicate.

Il rischio che in qualche modo al-Queda possa metterci le mani sopra non è remoto, dal momento che una buona quota dei rivoltosi appartengono all’organizzazione terroristica e un’altra porzione significativa intrattiene con essa legami di riconoscenza ed affiliazione religiosa. Diversamente dalla situazione libica, dove l’intervento di al-Queda è stato in parte ridotto dal peso delle tribù della Cirenaica, in Siria la penetrazione terroristica tra le fila degli insorti può risultare molto più difficile da ridimensionare.

Proprio parlando del rischio di utilizzo di armi chimiche come estrema difesa da parte del regime siriano, Obama ha paventato un intervento militare diretto statunitense, attirandosi non solo le critiche del governo di Damasco, ma anche quelle del governo cinese e di quello russo. Damasco ha parlato espressamente dell’allarme sulle armi chimiche come “pretesto per un intervento militare diretto”.

Critiche sono arrivate anche dalla Cina, attraverso l'agenzia Xinhua, che ha fatto propria la posizione del regime, spingendosi a definire le dichiarazioni di Obama "pericolosamente irresponsabili". Un duro monito è arrivato anche dalla Russia, che ha accusato i Paesi occidentali di fomentare la rivolta, aiutando le forze che combattono Assad.

Ovviamente, le dichiarazioni di Obama sono state immediatamente condivise da Cameron, primo attore sin dall'inizio della guerra contro Assad. A lui ha fatto eco il Ministro degli Esteri italiano Terzi, che in una intervista a La Repubblica ha ricordato come l'Italia "sta operando in maniera attiva e sta considerando la dotazione all'opposizione siriana di strumenti di comunicazione utili per prevenire attacchi".

Insomma, la crisi siriana sembra incamminarsi a passi veloci verso il suo epilogo sul modello di quella libica. Ma, diversamente da quanto avvenuto a Tripoli, l’Occidente dovrà intervenire senza lo scudo formale dell’Onu, dal momento che sia Pechino che Mosca non sono disponibili ad approvare risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che aprano la strada all’intervento militare diretto delle forze militari statunitensi, inglesi e francesi.

Per la santa alleanza del disordine mondiale sarà dunque necessario bypassare le istituzioni internazionali e lo sforzo per coinvolgere l’Organizzazione Islamica Internazionale e Lega Araba sarà l’unica possibilità per Obama di trasformare in un’operazione di polizia internazionale quella che, con ogni evidenza, sarà un arma disperata destinata ad invertire i sondaggi per le presidenziali di Novembre. Accettare un’ulteriore presa di distanza dall’elettorato più liberal, può ben essere bilanciato dall’affrontare le urne con le vestigia del “comandante in capo”.

 

 

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