Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

Il mese di dicembre si è prevedibilmente aperto con il consueto elenco di violenze e di massacri in Siria, così come con le crescenti manovre dei governi occidentali per facilitare il crollo del regime di Bashar al-Assad. Ancora una volta, la diplomazia internazionale sta rivolgendo la propria attenzione in questi giorni verso la Turchia, uno dei paesi più attivi nel promuovere il cambio di regime a Damasco, dove lunedì è giunto in visita ufficiale il presidente russo, Vladimir Putin, al contrario uno dei principali alleati del governo siriano.

Sul terreno, nelle ultime ore le forze dell’esercito regolare sembrano avere intensificato le operazioni per respingere i “ribelli” in alcuni quartieri della capitale, dove l’aeroporto internazionale e le arterie stradali circostanti sono state teatro di cruenti scontri per conquistarne il controllo.

Gli Stati Uniti, intanto, hanno rispolverato la minaccia delle armi chimiche attribuite alla Siria. Nel fine settimana un articolo del New York Times ha infatti citato rapporti di intelligence che indicherebbero movimenti dell’arsenale chimico ad opera delle forze armate siriane e che hanno spinto Washington e alcuni loro alleati a mandare un avvertimento ad Assad tramite la Russia.

La rivelazione ha prodotto immediatamente una serie di congetture sull’uso che Damasco intenderebbe fare delle proprie armi chimiche, consentendo alla Casa Bianca di sfruttare la questione per preparare un possibile intervento diretto in Siria, sulla scia dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Già lo scorso mese di agosto, Obama aveva definito l’eventuale minaccia di utilizzare le proprie armi chimiche da parte della Siria come “una linea rossa”, oltrepassata la quale gli USA sarebbero costretti ad intervenire direttamente. Più recentemente, inoltre, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha sostenuto che per neutralizzare le armi chimiche siriane sarebbe necessario impiegare addirittura 75 mila soldati americani.

Al coro degli avvertimenti diretti a Damasco, lunedì si è unita anche Hillary Clinton. Da Praga, nel corso di un incontro con il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, il Segretario di Stato americano ha ribadito che il suo paese non sarebbe disposto ad accettare l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, pur senza entrare nel merito delle informazioni fornite dall’intelligence né di come intenderebbero agire gli Stati Uniti nel concreto.

Il pretesto delle armi chimiche era stato citato anche qualche mese fa come giustificazione per l’invio di circa 150 soldati americani in Giordania, in previsione appunto di un intervento in Siria per prendere controllo dell’arsenale di Assad in caso di un crollo improvviso del regime. Lo stesso discorso vale anche per la richiesta fatta già da qualche settimana dalla Turchia alla NATO per posizionare batterie di missili Patriot sul proprio territorio al confine con la Siria, per i quali Ankara dovrebbe ottenere il via libera dall’Alleanza questa settimana dopo un recente sopralluogo di un team di tecnici militari per individuare i siti più adatti all’installazione.

Il governo islamista di Recep Tayyip Erdogan ha anch’esso citato improbabili rapporti di intelligence che indicherebbero il possibile riscorso di Damasco a incursioni missilistiche anche con testate chimiche contro la Turchia, da cui la presunta necessità dei Patriot a scopi difensivi. La stessa Clinton dalla Repubblica Ceca ha anticipato il parere favorevole della NATO alla fornitura di missili da parte di Stati Uniti, Germania e Olanda.

Un esito positivo della richiesta turca appare del tutto scontato, visto che il dispiegamento dei Patriot rientra nella strategia occidentale per giungere ad una sorta di no-fly zone o di un’area sottratta al controllo dell’esercito nel nord della Siria senza passare attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Da qui i ribelli potrebbero preparare l’offensiva finale contro il regime, con l’aiuto decisivo di Turchia, Stati Uniti e dei loro alleati in Europa e nel mondo arabo. Ufficialmente, in ogni caso, entrambe le opzioni continuano ad essere smentite, almeno per il momento, sia dai vertici NATO che da Ankara e Washington.

Nonostante la fermezza con cui il premier Erdogan persegue il cambio di regime in Siria, l’allungamento dei tempi gioca a suo sfavore, poiché l’opinione pubblica turca, tra cui vi è una consistente minoranza sciita e alauita a cui appartengono anche Assad e il suo entourage, appare in buona parte contraria ad un intervento del proprio paese nel conflitto a sud del confine. A conferma delle crescenti tensioni, lunedì alcuni media hanno raccontato di manifestazioni di protesta andate in scena a Istanbul contro il dispiegamento di Patriot sul suolo turco.

Contro i missili NATO in Turchia si è ovviamente espressa anche la Russia, il cui governo ha manifestato più di una preoccupazione per il fatto che una simile iniziativa potrebbe scatenare un conflitto più ampio in Medio Oriente, con il coinvolgimento della stessa Alleanza Atlantica e delle altre potenze che hanno interessi nella regione.

Anche di questo argomento hanno discusso lunedì Erdogan e Putin nell’ambito di colloqui bilaterali che registrano posizioni diametralmente opposte dei rispettivi governi sulla crisi in Siria. Le relazioni diplomatiche tra Russia e Turchia sono state segnate negli ultimi tempi non solo dalle accuse di Ankara al Cremlino per il sostegno garantito ad Assad al Consiglio di Sicurezza ONU, ma anche da un episodio controverso che lo scorso ottobre ha contribuito ad innalzare le tensioni tra i due paesi.

In quell’occasione, le autorità turche costrinsero un velivolo civile in viaggio da Mosca a Damasco ad atterrare ad Ankara perché sospettato di trasportare materiale bellico destinato al regime di Assad. Mosca, secondo cui il carico era perfettamente legale, protestò in maniera decisa nei confronti del governo turco, sia per il forzato atterraggio che per il trattamento riservato ai passeggeri, in gran parte cittadini russi. L’episodio portò alla cancellazione di una visita di Putin in Turchia programmata pochi giorni più tardi e rimandata a questa settimana.

Nel primo viaggio all’estero di Putin da due mesi a questa parte, dopo la convalescenza seguita ad un infortunio alla schiena, è probabile tuttavia che eventuali lamentele risulteranno piuttosto caute visto che i due paesi hanno stabilito solidissime relazioni commerciali ed energetiche negli ultimi anni. Gli scambi bilaterali tra Russia e Turchia hanno toccato i 32 miliardi di dollari nel 2011 e i due governi sono intenzionati a sfondare il tetto dei 100 miliardi nei prossimi anni.

L’importanza di Mosca per una via d’uscita alla crisi in Siria è stata comunque riconosciuta pubblicamente da Erdogan alla vigilia dell’arrivo di Putin ad Ankara. Secondo il premier turco, “la Russia deve essere coinvolta nel processo” di risoluzione della crisi ed “è più probabile ed importante riuscire a convincere Mosca a persuadere Assad affinché scenda a compromessi” che chiedere al Cremlino di appoggiare l’opposizione siriana.

Come la Russia, anche la Turchia è però uno dei paesi chiave per l’uscita dalla paralisi. Nonostante le parole di Erdogan, il suo governo e gli alleati hanno però da tempo dimostrato di non essere disposti ad accettare qualsiasi apertura o concessione di Assad per una soluzione pacifica della crisi, mentre i loro sforzi sono diretti piuttosto a provocare una continua escalation militare e delle violenze tramite il sostegno incondizionato ai cosiddetti ribelli.

Per quanto riguarda Ankara, la politica di “zero problemi con i vicini”, teorizzata dal ministro degli Esteri Davutoglu, ha così lasciato spazio ad un sostanziale allineamento alle posizioni degli Stati Uniti riguardo la Siria, traducendosi inevitabilmente in un irrigidimento persistente della propria posizione nel conflitto in corso ormai da venti mesi.

Per quanto importante appaia il vertice tra Putin e Erdogan in relazione alla Siria, perciò, come ha scritto qualche giorno fa sulla testata on-line Asia Times l’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar, “i tempi non sembrano ancora maturi per una iniziativa congiunta russo-turca, anche se Mosca e Ankara possono svolgere un ruolo cruciale per rompere l’attuale stallo” nel tormentato paese mediorientale.

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