Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

In un’atmosfera decisamente più cupa rispetto all’euforia di quattro anni fa, nella giornata di lunedì il presidente Obama ha ufficialmente aperto il suo secondo mandato alla Casa Bianca dopo la vittoria elettorale dello scorso novembre. Il suo breve discorso pubblico tenuto di fronte al Congresso è risultato ancora una volta un concentrato di demagogia e proclami fuorvianti, necessari per occultare la realtà di politiche sempre più reazionarie dietro ad una retorica che ha cercato di prospettare una più che improbabile visione progressista per il futuro degli Stati Uniti.

Il giuramento vero e proprio del presidente democratico era in realtà avvenuto il giorno precedente alla Casa Bianca nel corso di una cerimonia con pochi partecipanti, poiché la scadenza costituzionale del mandato di Obama ricorreva appunto nella giornata di domenica. Se pure a Washington sono giunte centinaia di migliaia di persone per l’inaugurazione presidenziale, il numero è stato nettamente inferiore rispetto al 2009, coerentemente con la presa di coscienza in questi quattro anni da parte di ampie fasce della popolazione americana dell’impossibilità di vedere realizzati i cambiamenti promessi.

Nel suo discorso, Obama ha fatto riferimento sia alle origini della democrazia americana che alle battaglie per l’emancipazione razziale, proponendo un percorso per ridurre le disuguaglianze e ottenere la piena affermazione dei diritti individuali. Pur senza entrare nel merito di proposte specifiche, l’inquilino della Casa Bianca ha affermato poi la necessità di agire sul fronte del cambiamento climatico, della “salvaguardia” dei programmi di assistenza pubblica, della lotta alla povertà, dell’immigrazione e dei diritti degli omosessuali.

La retorica di Obama, in ogni caso, non deve aver convinto più di tanto la maggior parte degli americani che hanno ascoltato il suo discorso, dal momento che lo stesso presidente democratico nei suoi primi quattro anni alla guida del paese non ha rappresentato altro che la continuazione di politiche tese piuttosto a indebolire le garanzie democratiche e alla difesa dei grandi interessi economici e finanziari di cui la classe politica di Washington è espressione unica.

Riguardo alle politiche ambientali, ad esempio, c’è da chiedersi quali iniziative per combattere il cambiamento climatico possa mettere in atto un’amministrazione che poco o nulla di realmente significativo ha realizzato dal 2009 a oggi o che, ancor peggio, ha fatto di tutto per salvare il colosso petrolifero BP dopo il disastro ambientale del 2010 nel Golfo del Messico o che ha aperto alle trivellazioni svariate aree ecologicamente fragili in Alaska e altrove.

Inoltre, in merito alla necessità di “difendere” programmi come Medicare, Medicaid o Social Security, come esige il linguaggio orwelliano della politica americana, va ricordato che questi ultimi sono già stati privati di centinaia di miliardi di dollari per i prossimi anni con l’approvazione della cosiddetta riforma sanitaria di Obama e che nuovi devastanti tagli sono all’orizzonte nell’ambito delle imminenti trattative con i repubblicani per la riduzione del debito federale.

Solo marginale è stato invece il riferimento alla lotta al terrorismo e alle avventure belliche degli Stati Uniti. Ben consapevole dell’impopolarità delle politiche del governo in questo ambito, Obama si è limitato a fare intravedere la fine delle guerre iniziate più di un decennio fa. Mentre il presidente parlava agli americani, tuttavia, l’apparato militare del quale è a capo continuava a discutere dell’opportunità di partecipare attivamente al conflitto in Mali per promuovere gli interessi imperialistici occidentali. Allo stesso modo, i preparativi per un’aggressione illegale contro l’Iran e per un intervento diretto in Siria per rovesciare un regime sgradito proseguono senza sosta.

Il relativo disimpegno prospettato da Obama, in ogni caso, riguarda unicamente l’inopportunità - politica ed economica - di continuare ad inviare all’estero grandi contingenti militari, come in Iraq e in Afghanistan, facendo affidamento piuttosto su operazioni segrete delle forze speciali o su assalti condotti con i droni, come quelli che pressoché quotidianamente seminano il terrore tra i civili in paesi come Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia.

Particolarmente rivelatrici sono state poi le parole sui diritti degli omosessuali, le quali hanno mandato in visibilio i media liberal, dal momento che Obama sarebbe stato il primo presidente a pronunciare la parola “gay” durante un discorso inaugurale. Questo riferimento appare indirizzato in particolare ai sostenitori di sinistra del presidente, ben disposti a passare sopra a qualsiasi eccesso in cambio di un generico impegno nell’ambito delle politiche identitarie.

Più in generale, come ha evidenziato martedì un editoriale di raro cinismo del New York Times, Obama nel suo discorso si sarebbe concentrato sulla sua “filosofia politica”, la quale in sostanza prevede che la libertà e la prosperità degli Stati Uniti dipendano dalla capacità di “agire collettivamente”.

Assieme all’appello alle politiche identitarie, simili affermazioni servono a confondere le idee circa le vere ragioni della crisi in atto, vale a dire le macroscopiche differenze di classe che caratterizzano la società americana, come se gli interessi di lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati siano conciliabili con quelli di una ristretta cerchia che occupa i vertici della politica, dell’economia e dell’industria finanziaria americana.

Il ricorso alla promozione di campagne per l’emancipazione delle minoranze - siano esse di razza o di orientamento sessuale - oppure per la lotta al cambiamento climatico, se pure meritevoli e assolutamente necessarie, hanno in realtà lo scopo di tenere a freno tensioni sociali sempre più evidenti, risultato di politiche di classe messe in atto da almeno tre decenni a questa parte e che hanno prodotto gigantesche differenze di reddito, nonché disoccupazione e povertà dilaganti.

Al di là della retorica pubblica, d’altra parte, Obama ha avuto parole più concilianti verso coloro che si opporrebbero alla sua presunta agenda progressista. In un ricevimento seguito all’inaugurazione, il presidente si è infatti intrattenuto con i leader di entrambi i partiti al Congresso, ricordando come le loro posizioni non siano poi così inconciliabili, visto che hanno lo stesso obiettivo di salvare il capitalismo americano dalla crisi strutturale in atto facendone pagare tutte le conseguenze alla classe media e ai lavoratori.

In ogni caso, la visione “liberal” presentata nel discorso inaugurale da un Obama insolitamente poco incline ai consueti appelli bipartisan è sintomo infine di una più che giustificata preoccupazione negli ambienti di potere americani per un malcontento diffuso nei confronti di politiche volte unicamente a salvaguardare gli interessi dei poteri forti e che stanno causando un continuo peggioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di persone. Da qui la necessità di provare a proiettare l’immagine di un presidente pronto a battersi per una società più giusta.

Se la vera natura delle politiche perseguite a Washington non può ovviamente essere discussa apertamente, la retorica progressista di Obama suona però del tutto vuota proprio perché non è in grado e non ha alcuna volontà di individuare le radici della crisi del sistema, facendone perciò, ad esempio, una questione di diritti gay invece che, più opportunamente, una questione di rapporti di classe, argomento da tempo inavvicinabile per tutta la classe dirigente d’oltreoceano.

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