Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Michele Paris

Nuovi dettagli emersi a pochi giorni dall’incursione aerea di Israele in territorio siriano sembrano confermare in gran parte la versione proposta subito dopo l’attacco dal regime di Damasco, secondo il quale l’obiettivo era un centro di ricerca militare nei pressi della capitale. A confermarlo sono state alcune fonti del governo americano, le cui dichiarazioni sono giunte in concomitanza con l’ammissione di responsabilità più o meno esplicita da parte di Tel Aviv per un’operazione dalla più che dubbia legalità contro un paese sovrano che in nessun modo ha provocato il proprio vicino meridionale.

Secondo i consueti membri anonimi dell’intelligence a stelle e strisce, dunque, l’aggressione di mercoledì scorso in Siria avrebbe colpito una struttura a nord di Damasco dove si svolgono ricerche per lo sviluppo di armi chimiche e biologiche. In realtà, secondo queste fonti, il bersaglio principale sarebbe stato comunque un convoglio che trasportava armi destinate a Hezbollah, come aveva sostenuto inizialmente Washington, ma gli automezzi colpiti si trovavano ancora presso il centro di ricerca. Quest’ultimo sarebbe stato perciò danneggiato solo in seguito all’esplosione del convoglio, mentre il governo di Damasco lo aveva indicato come il bersaglio principale dell’attacco israeliano.

Su quali basi Israele abbia stabilito che gli armamenti colpiti erano diretti in Libano non è stato reso noto. I media occidentali hanno poi confermato, citando ancora fonti di intelligence, che tra gli equipaggiamenti che avrebbero dovuto finire nelle mani di Hezbollah c’era in primo luogo il sistema di difesa anti-aereo SA-17 di fabbricazione russa. Componenti di questo sistema colpiti dalle bombe israeliane sono stati infatti mostrati nei giorni scorsi dalla televisione siriana ma l’intenzione di Tel Aviv sembra essere stata piuttosto quella di indebolire le difese aeree di Assad in vista di ulteriori attacchi da parte dei governi stranieri che appoggiano l’opposizione interna.

La versione americana e israeliana, inoltre, è stata smontata da svariati analisti, tra cui il russo Ruslan Aliyev del Centro per l’Analisi delle Strategie e delle Tecnologie di Mosca, secondo il quale “il sistema SA-17 è troppo sofisticato perché possa essere utilizzato da Hezbollah ed esso potrebbe comunque essere individuato con facilità”. Il suo eventuale trasferimento al “Partito di Dio” in Libano, poi, avrebbe ripercussioni negative in Russia, “rendendo impossibile per il Cremlino continuare a garantire il proprio sostegno al governo di Assad”.

In ogni caso, con l’OK degli Stati Uniti, Israele ha scelto per la propria provocazione un obiettivo ben conosciuto, dal momento che il centro di ricerca in questione era stato sanzionato dal Dipartimento del Tesoro di Washington fin dal 2005 e, secondo l’intelligence USA, operava grazie all’assistenza tecnologica nordcoreana.

Che Israele abbia avuto il via libera americano per l’operazione in territorio siriano è apparso evidente anche dall’insolita ammissione fatta domenica dal ministro della Difesa uscente di Tel Aviv, rompendo una consuetudine dei governi israeliani di evitare qualsiasi commento alle proprie azioni illegali oltreconfine anche per non mettere Washington in situazioni imbarazzanti.

In un intervento pubblico da Monaco di Baviera - dove si è appena conclusa l’annuale Conferenza sulla Sicurezza - pur affermando di “non volere aggiungere nulla a quanto si è letto sui giornali a proposito di quanto è accaduto in Siria”, Ehud Barak ha definito i fatti di mercoledì scorso come “un’altra prova che quando Israele dice una cosa intende metterla in atto”. Il riferimento di Barak riguarda i ripetuti annunci di esponenti del governo Netanyahu nei giorni precedenti l’attacco, nei quali era stato più volte ripetuto che Israele non avrebbe consentito il trasferimento di armi a Hezbollah in Libano al momento della caduta del regime di Assad.

Il raid della settimana scorsa, oltre ad essere stato preparato in anticipo sia sul piano propagandistico che su quello materiale, potrebbe non rimanere un episodio isolato. Come ha riportato la rivista americana Time, infatti, Israele avrebbe ricevuto “la luce verde” da Washington per condurre nuovi attacchi aerei in Siria, mentre la stessa amministrazione Obama, al contrario della posizione ufficiale di non intervento nel conflitto, starebbe addirittura preparandosi per operare direttamente incursioni aeree nell’area di Aleppo.

La giustificazione ufficiale per una simile pericolosa escalation è appunto la presunta necessità di impedire che armi “non-convenzionali” dell’arsenale di Assad finiscano nelle mani degli estremisti che si stanno battendo per il rovesciamento del regime. In realtà, lo strapotere degli elementi jihadisti in Siria, così come la loro disponibilità di armamenti letali, è la diretta conseguenza del sostegno offerto all’opposizione da parte dell’Occidente e dei regimi sunniti della regione, mentre il vero obiettivo di incursioni aeree come quella di Israele della scorsa settimana sembra essere l’allargamento del conflitto e il tentativo di provocare la ritorsione di Damasco, da presentare all’opinione pubblica internazionale come casus belli per giustificare un intervento diretto nel paese mediorientale.

Da parte sua, il governo siriano si è per il momento limitato a minacciare generiche rappresaglie contro Israele, anche se appare estremamente improbabile che Assad possa rispondere a isolate provocazioni, rischiando di scatenare un’aggressione che segnerebbe certamente la propria fine. In ogni caso, anche per cercare di recuperare qualche consenso interno, lo stesso presidente nella giornata di domenica ha affermato pubblicamente che “la Siria farà fronte a qualsiasi aggressione nei propri confronti”. L’ambasciatore siriano in Libano, Ali Abdul-Karim Ali, ha invece ricordato che “Damasco possiede la capacità di reagire a sorpresa”, anche se “eventuali decisioni in questo ambito spettano alle autorità competenti” ai vertici del governo.

Parallelamente alle provocazioni di Israele, intanto, il conflitto in Siria ha fatto registrare in questi giorni anche l’apertura di un minimo spiraglio di dialogo tra le parti coinvolte. Le dichiarazioni di settimana scorsa del leader della Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione, Moaz al-Khatib, il quale aveva sostenuto per la prima volta di essere disposto a parlare con rappresentanti di Assad a determinate condizioni, sono state infatti ribadite nel corso della già ricordata conferenza di Monaco.

Nel fine settimana, Khatib ha inoltre incontrato non solo il vice-presidente americano, Joe Biden, ma separatamente anche gli inviati dei due principali alleati di Assad, i ministri degli Esteri di Russia e Iran, Sergey Lavrov e Ali Akbar Salehi. Questi ultimi hanno entrambi elogiato il teorico abbandono di un atteggiamento di totale chiusura verso il regime di Damasco da parte dell’opposizione appoggiata dall’Occidente, anche se non sono ancora emerse indicazioni di possibili contatti per aprire una qualche trattativa ufficiale.

Le parole di Khatib sono state peraltro condannate duramente da varie fazioni “ribelli” che non intendono fare marcia indietro e che chiedono come condizione imprescindibile per avviare negoziati di pace la rimozione di Assad. Il fatto però che Khatib, ex imam di una nota moschea di Damasco, abbia ripetuto la disponibilità ad incontrare rappresentanti del presidente nel corso di un importante vertice come quello andato in scena nella città tedesca indica probabilmente un qualche sostegno per le sue posizioni all’interno dell’opposizione e che forse, come era stato costretto ad affermare, quelle espresse poche ore prima sul proprio profilo Facebook non erano soltanto opinioni strettamente personali.

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