USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

Le speranze della giunta militare al potere in Egitto di ottenere una qualche legittimità attraverso le elezioni presidenziali di questa settimana sono crollate clamorosamente di fronte all’impressionante manifestazione di sfiducia decretata dalla popolazione nei confronti del nuovo regime. In particolare, l’impopolarità del superfavorito, generale Abdel Fattah al-Sisi, è apparsa in tutta la sua umiliante evidenza dall’infimo livello di partecipazione al voto e dai tentativi disperati del regime sia per convincere gli egiziani a recarsi alle urne sia per manipolare i risultati della consultazione.

Come risultava chiaro da tempo, il vincitore del voto di questa settimana non poteva essere che lo stesso Sisi, alla luce sia del clima intimidatorio creato nel paese sia del fatto che nessun altro candidato appariva sulle schede elettorali se non il nasseriano Hamdeen Sabahi, descritto come oppositore di “sinistra” dai media occidentali.

Quest’ultimo ha così fornito una minuscola parvenza di pluralismo alle elezioni, anche se, secondo i dati del governo, alla fine ha raccolto appena il 3% dei consensi espressi, cioè ancora meno delle schede bianche o nulle (3,7%). Il presidente eletto Sisi, invece, si è aggiudicato addirittura il 93,3% dei voti.

La vera battaglia si disputava però sull’affluenza, come ben sapevano i militari, in grado di schiacciare ogni opposizione politica dopo il golpe contro il governo di Mohamend Mursi e dei Fratelli Musulmani nel luglio scorso ma ben più in difficoltà nel convincere gli egiziani ad esprimere il loro appoggio al regime.

Così, dopo che i due giorni scelti per il voto - 26 e 27 maggio - hanno mostrato seggi praticamente vuoti in tutto il paese, Sisi e la sua cerchia di potere sono finiti nel panico e hanno messo in atto una serie di provvedimenti che hanno evidenziato ancor più il fallimento dell’operazione elettorale. Dapprima è stata creata una nuova festività per prolungare eccezionalmente le operazioni di voto nella giornata di mercoledì, mentre in seguito è stato diffuso l’annuncio che i mezzi pubblici avrebbero trasportato a titolo gratuito gli elettori diretti ai seggi.

Parallelamente, il regime ha minacciato sanzioni di svariate decine di dollari per gli astenuti e i media ufficiali hanno ospitato patetici appelli al voto lanciati da esponenti del governo e da alcuni leader religiosi, sia musulmani sia cristiani copti.

Alla fine, le autorità egiziane hanno fissato il dato dell’affluenza attorno al 47%, un numero già di per sé modesto eppure, con ogni probabilità, gonfiato in maniera consistente. Secondo un anonimo diplomatico occidentale sentito dalla Reuters, ad esempio, i votanti sarebbero stati tra i 10 e i 15 milioni, vale a dire tra il 19% e il 28% dell’elettorato.

Seri dubbi sull’attendibilità dei risultati diffusi dalle autorità li ha sollevati anche il Centro Egiziano per gli Studi sui Media e l’Opinione Pubblica (Takamol Masr), i cui ricercatori hanno rivelato al quotidiano indipendente Al-Masry Al-Youm che nei primi due giorni del voto l’affluenza sarebbe stata appena del 7,5%. Il dato più alto - 10,5% - è stato registrato nel governatorato di Qena, nell’Alto Egitto, mentre nella località balneare di Marsa Matrouh solo l’1,2% degli elettori si è recato alle urne tra lunedì e martedì.

Da questi numeri è difficile credere che l’affluenza sia miracolosamente esplosa mercoledì, come confermano i resoconti dei giornali occidentali che hanno continuato a raccontare di seggi deserti anche durante la terza giornata di voto.

Il rifiuto della grande maggioranza degli egiziani a rispondere agli appelli dei militari rappresenta uno schiaffo diretto allo stesso Sisi, il quale in campagna elettorale aveva chiesto un’affluenza pari almeno al 75% per ottenere un mandato popolare sufficientemente solido a legittimare la presa illegale del potere dei militari e le prossime politiche di lacrime e sangue che si prospettano per il paese nordafricano.

I dati governativi riguardanti l’affluenza, sia pure poco credibili, sono inoltre inferiori a quelli registrati nel secondo turno delle presidenziali del giugno 2012 vinte da Mursi, quando votò poco più della metà degli aventi diritto.

Brogli e abusi sono stati comunque numerosi nonostante i risultati abbiano nascosto a malapena la sostanziale umiliazione subita dal regime. Alcuni osservatori inviati ai seggi dallo staff elettorale di Hamdeen Sabahi sono finiti ad esempio agli arresti dopo che era stato loro impedito di monitorare le operazioni di voto e di spoglio.

La disillusione diffusa tra gli elettori è stata ammessa anche dai media occidentali, dove i governi avevano generalmente accettato il voto per la scelta del presidente come meccanismo per normalizzare la situazione egiziana, segnata da mesi di violenze e da una durissima repressione. La mano pesante del regime militare si è fatta sentire soprattutto nei confronti dei Fratelli Musulmani, i cui sostenitori sono stati soggetti ad assassini, arresti e condanne di massa, talvolta alla pena capitale, al termine di processi-farsa.

Allo stesso modo, la repressione ha colpito anche attivisti e membri delle organizzazioni studentesche che avevano animato la rivoluzione anti-Mubarak a inizio 2011 e che, in gran parte, avevano appoggiato i militari nella deposizione di Mursi sull’onda delle proteste popolari contro il governo dei Fratelli Musulmani.

I mesi scorsi, infine, sono stati segnati da una lunga serie di scioperi in molti settori dell’economia egiziana, scaturiti dalle pessime condizioni di lavoro e dal continuo deterioramento del potere d’acquisto dei lavoratori.

Come in molti altri paesi caratterizzati da una situazione economica di grave crisi, anche l’Egitto sotto la guida di Sisi e dei militari sarà chiamato ora ad adottare misure radicali che peggioreranno ulteriormente le condizioni di vita di decine di milioni di persone. Il compito del neo-presidente sarà però decisamente complicato alla luce della vastissima disapprovazione manifestata verso il regime dagli egiziani in queste elezioni.

Il nuovo governo e i militari - la cui posizione dominante nel panorama politico, sociale ed economico dell’Egitto è stata fissata nella Costituzione recentemente approvata - dovranno perciò ricorrere ancor più a metodi dittatoriali che, peraltro, non hanno risparmiato in questi mesi, riportando il paese in una situazione simile a quella dell’era Mubarak.

Da Washington non sono ancora giunte reazioni ufficiali significative al voto in Egitto, a conferma probabilmente delle difficoltà americane a far digerire all’opinione pubblica domestica il sostegno ad un processo di transizione verso la “democrazia” rivelatosi ormai come una farsa.

L’amministrazione Obama, dopo avere appoggiato il governo dei Fratelli Musulmani, aveva finito per avallare il colpo di stato contro Mursi di fronte al pericolo delle crescenti tensioni sociali nel paese. Gli USA avevano poi legittimato la giunta militare guidata da Sisi, pur mantenendo pubblicamente un certo atteggiamento critico, vista la durezza della repressione scatenata dal nuovo regime contro i propri oppositori interni, e sospendendo temporaneamente una parte degli aiuti finanziari elargiti annualmente alle Forze Armate egiziane.

L’importanza strategica del Cairo per gli Stati Uniti è però difficile da sopravvalutare e i rapporti con i militari continuano ad essere estremamente solidi. La scommessa della Casa Bianca è perciò quella di ristabilire la piena partneship con l’Egitto una volta stabilizzata la situazione interna e la trasformazione - puramente esteriore - di un regime violento e repressivo in un governo legittimamente eletto.

L’insofferenza degli egiziani manifestata durante il voto che ha portato come previsto alla presidenza il generale Sisi rischia però di creare più di un intralcio alla definitiva normalizzazione dei rapporti bilaterali, lasciando gli americani in bilico tra le proprie esigenze strategiche e la necessità di continuare a ostentare il proprio ruolo di presunti sostenitori dei principi democratici.

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