Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Michele Paris

Una nuova guerra tra Israele e Hezbollah, dopo quella del 2006, sembra per il momento scongiurata nonostante l’attacco di mercoledì del partito/milizia sciita libanese oltre il confine meridionale che ha ucciso due soldati di Tel Aviv e la cui reazione ha portato alla morte di un casco blu ONU di nazionalità spagnola. La tensione nella zona di confine tra Israele, Libano e Siria rimane però alle stelle e la crisi in cui si dibatte il governo Netanyahu, assieme alla continua destabilizzazione del paese guidato dal presidente Assad, rischia di far precipitare la situazione da un momento all’altro con conseguenze esplosive per l’intero Medio Oriente.

Il primo ministro israeliano ha risposto duramente al lancio di cinque missili da parte di Hezbollah che avevano colpito un convoglio delle forze armate. Netanyahu ha avvertito che il “Partito di Dio” dovrà pagare “l’intero prezzo” della sua azione, per poi ricordare quale era stata recentemente la reazione di Israele contro Hamas a Gaza, minacciando cioè sostanzialmente nuovi crimini di guerra contro le vicine popolazioni arabe.

Il ministro della Difesa di Israele, Moshe Yaalon, ha comunque fatto sapere giovedì di aver ricevuto un messaggio da parte di Hezbollah attraverso le forze ONU in Libano per comunicare il disinteresse in un’escalation militare. Un nutrito contingente di Hezbollah è impegnato da tempo in Siria a fianco del regime di Assad contro l’opposizione armata sunnita, mentre anche in territorio libanese la minaccia jihadista è una costante realtà per la popolazione di fede sciita, così che l’organizzazione guidata da Hassan Nasrallah sembra avere ben altre priorità che non aprire un nuovo fronte di guerra con Israele.

Gli stessi governi occidentali vedono poi con grande apprensione la possibilità di una nuova guerra aperta tra Israele e Libano e starebbero esercitando pressioni su Israele per evitare risposte militari contro Hezbollah. Questo, quanto meno, è ciò che hanno riferito giovedì gli ambasciatori a Beirut di USA e Gran Bretagna al primo ministro libanese, Tammam Salam.

Da parte di Netanyahu sembra esserci tuttavia un evidente interesse nel far salire le tensioni nella regione. Secondo vari osservatori, anzi, piani di guerra contro il Libano sarebbero già pronti e Israele aspetterebbe l’occasione propizia per scatenare il conflitto.

La responsabilità del precipitare della situazione è in ogni caso da attribuire interamente a Israele. L’attacco di mercoledì non è infatti che una ritorsione in risposta all’iniziativa israeliana del 18 gennaio scorso, quando un attacco aereo sul territorio delle alture del Golan controllate dalla Siria aveva provocato la morte di sei militanti di Hezbollah e un generale iraniano. Fin dall’inizio del conflitto in Siria, inoltre, Israele ha operato svariate incursioni in questo paese, dietro la giustificazione di impedire il trasferimento di armi a Hezbollah.

L’intensificarsi dell’impegno di Tel Aviv oltre il confine siriano viene giustificato dal governo Netanyahu e dai media israeliani conservatori con la necessità di contrastare la formazione di un “fronte terrorista” nell’area delle alture del Golan, ovvero la presenza di uomini di Hezbollah e, con ogni probabilità, di un contingente militare iraniano. In realtà, i due principali alleati di Assad operano in quest’area in seguito all’apertura di un fronte meridionale da parte dei “ribelli” nella guerra per il rovesciamento del regime di Damasco.

Questo sforzo, va ricordato, è stato appoggiato in pieno proprio da Israele che, come ha messo in luce anche un rapporto ONU dello scorso dicembre, collabora di fatto con forze fondamentaliste come il Fronte al-Nusra, organo ufficiale di al-Qaeda in Siria.

In questo modo, Tel Aviv intende sfruttare la situazione di crisi nel vicino settentrionale per consolidare la propria occupazione illegale delle alture del Golan e per mantenere alto il livello di destabilizzazione della Siria, dove stanno appunto spendendo importanti risorse i rivali di Hezbollah e della Repubblica Islamica.

Sulle provocazioni di Netanyahu influisce anche la situazione politica domestica a poche settimane da delicate elezioni generali. Come spesso accade, il prezzo delle esigenze politiche della destra israeliana viene pagato col sangue degli arabi, visto che, di fronte a una possibile sconfitta contro l’opposizione di centro-sinistra, il premier sta cercando ancora una volta di alimentare il clima di assedio nel suo paese per convincere gli elettori della necessità di un governo forte sui temi della “sicurezza nazionale”.

Netanyahu ha così puntato il dito anche contro l’Iran per l’attacco di mercoledì, affermando, nel corso di una cerimonia per celebrare un anno dalla morte di un altro primo ministro con precedenti da criminale di guerra, Ariel Sharon, che la stessa Repubblica Islamica responsabile della morte dei due soldati israeliani “sta cercando di giungere a un accordo con le potenze mondiali che lascerebbe intatte le sue capacità di sviluppare armi nucleari”.

Il timore di vedere suggellato un riavvicinamento tra Washington e Teheran è l’altro fattore che sta dietro l’inquietudine di Netanyahu, impegnato disperatemente a dimostrare l’impossibile, vale a dire che la leadership iraniana sta cercando di ingannare la comunità internazionale per conquistare lo spazio di manovra necessario a percorrere la strada del nucleare a scopi militari.

In questo senso va inteso lo scontro sempre più duro tra il suo governo e l’amministrazione Obama, giunto proprio questa settima a livelli quasi senza precedenti nella storia dei rapporti tra USA e Israele. La nuova polemica è esplosa in seguito all’invito fatto a Netanyahu dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti di Washington - John Boehner - per parlare di fronte al Congresso nel mese di febbraio. L’intervento giungerebbe nel pieno di un acceso dibattito in corso negli Stati Uniti sull’opportunità di adottare nuove sanzioni economiche contro l’Iran nel pieno dei negoziati, come vorrebbe il Congresso.

Oltre a criticare Boehner per avere mancato di informare la Casa Bianca dell’invito, lo staff del presidente Obama ha accusato l’ambasciatore israeliano negli USA ed ex assistente di vari politici repubblicani, Ron Dermer, di avere organizzato la visita di Netanyahu assieme allo “speaker” e, non avendola notificata né al governo né ai diplomatici americani in Israele, di avere dato la priorità alle vicende politiche del premier rispetto alle relazioni tra i due paesi.

La Casa Bianca ha così annunciato che Obama non incontrerà Netanyahu durante la visita negli USA a febbraio, anche se la decisione sarebbe stata presa ufficialmente per non interferire nelle vicende elettorali di Israele, vista la vicinanza del voto per il rinnovo del parlamento (Knesset).

Nonostante l’abbassamento dei toni in Libano e in Israele dopo i fatti di mercoledì e le presunte pressioni internazionali su Israele per astenersi dallo scatenare un nuovo conflitto, appaiono dunque evidenti nell’ultimo periodo le indicazioni di una possibile ulteriore escalation militare in Medio Oriente, determinata non solo dalle provocazioni di Tel Aviv ma anche dalla persistente crisi in Siria e dal recente crollo in Yemen del governo installato a appoggiato da Stati Uniti e Arabia Saudita.

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