Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Michele Paris

L’annuncio del lancio ufficiale della campagna per la presidenza degli Stati Uniti da parte di Hillary Clinton è giunto nel pomeriggio di domenica con la diffusione in rete di un breve e piuttosto insolito filmato. L’ex first lady è di gran lunga la favorita per la conquista della “nomination” in casa democratica, essendosi assicurata da tempo l’appoggio più importante per qualsiasi candidato americano, quello dei ricchi finanziatori del proprio partito.

Mentre tra i repubblicani gli equilibri appaiono decisamente più fluidi, nonostante la posizione di relativo vantaggio da cui sembra partire Jeb Bush, Hillary non ha al momento rivali nel suo partito. Non solo nessun altro democratico ha ancora annunciato la propria candidatura in maniera ufficiale, ma anche i possibili ipotetici sfidanti indicati dalla stampa - l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, l’ex senatore della Virginia, Jim Webb, il senatore nominalmente indipendente del Vermont, Bernie Sanders, l’ex governatore del Rhode Island ed ex repubblicano, Lincoln Chafee - sono poco più che sconosciuti al grande pubblico negli USA.

Gli unici nomi di un certo peso in un eventuale confronto con la Clinton potrebbero essere l’attuale vice-presidente, Joe Biden, o la senatrice “liberal” del Massachusetts, Elizabeth Warren, ma, per motivi diversi, dovrebbero entrambi rinunciare pur avendo accarezzato l’idea di correre per la Casa Bianca. Biden, al di là della tendenza a collezionare clamorose gaffes in pubblico, dal 2009 a oggi ha ricoperto un ruolo ancora più secondario rispetto a quello già tutt’altro che di primo piano normalmente previsto dal suo incarico, non essendo riuscito dunque a costruirsi un’immagine presidenziale come fece, ad esempio, Al Gore nel 2000.

La senatrice Warren, invece, è considerata una sorta di paladina del progressismo d’oltreoceano e raccoglie un certo seguito negli ambienti democratici frustrati dall’inclinazione eccessivamente pro-business del partito. Alcuni dei temi moderatamente progressisti in campo economico della Warren saranno però sfruttati dalla stessa Hillary, così che la senatrice del Massachusetts verrebbe con buone probabilità travolta dalla “front-runner” democratica, molto meglio finanziata e appoggiata dall’establishment del partito.

Il team Clinton è in ogni caso ben cosciente che a quasi nove mesi dal primo appuntamento delle primarie la propria candidata non può pensare di avere la nomination in tasca, soprattutto alla luce della clamorosa sconfitta del 2008 per mano di Obama. Tanto più che il curriculum di Hillary e del marito, assieme all’avversione suscitata dalla sua candidatura in ampie fasce della popolazione, comporta non pochi rischi e possibili sorprese.

L’ex segretario di Stato ha infatti già dovuto fronteggiare almeno un paio di controversie nelle scorse settimane, ancor prima cioè di lanciare in maniera ufficiale la propria campagna per la Casa Bianca. La prima ha riguardato le donazioni fatte da governi stranieri all’organizzazione filantropica fondata da Bill durante la permanenza di Hillary al Dipartimento di Stato, mentre la seconda l’utilizzo di un account privato di posta elettronica tra il 2009 e il 2013 laddove le norme federali impongono l’uso esclusivo di uno governativo.

Il suo staff, formato da svariati professionisti che lavorarono per la campagna di Obama nel 2008, appare comunque molto agguerrito e intenzionato a evitare gli errori del passato, primo fra tutti quello di far apparire da subito Hillary come la vincitrice obbligata nel partito Democratico.

Secondo quanto riportato dai media americani, l’ex senatrice di New York intende concentrarsi sugli stati che tradizionalmente inaugurano la stagione delle primarie: Iowa, New Hampshire, South Carolina e Nevada. Quando all’interno di un partito vi è un chiaro favorito per la nomination, infatti, eventuali successi a catena in questi primi stati determinano quasi sempre la rinuncia da parte degli sfidanti a proseguire lunghe e dispendiose campagne, nonostante in essi vengano assegnati solo un numero minimo di delegati alla convention.

Nel video in cui ha annunciato la sua candidatura, Hillary non ha citato nemmeno sommariamente una piattaforma politica o un punto programmatico su cui baserà la campagna dei prossimi mesi. Vista la situazione precaria in cui versa buona parte degli americani, è tuttavia estremamente probabile che farà ricorso alla retorica progressista, promettendo ad esempio l’aumento delle retribuzioni minime o, più in generale, la riduzione delle disparità di reddito, pur avendo fatto parte di un’amministrazione che ha ingigantito queste problematiche negli ultimi anni.

Come ha evidenziato un commento di Bloomberg News, inoltre, non mancheranno occasionali tirate contro i “super-ricchi” d’America, così come gli sforzi per togliersi di dosso l’etichetta di “candidata di Wall Street”, che le aderisce peraltro in maniera pressochè perfetta.

Sui temi di politica estera e della sicurezza nazionale si annuncia invece una gara tra i candidati sia nelle primarie sia nelle presidenziali vere e proprie per mostrare le rispettive credenziali da “falco”. Hillary, da parte sua, è posizionata ancora più a destra di Obama in questo ambito, facendo quindi intravedere, da un lato, una linea ancora più dura nei confronti di Russia e Cina, e dall’altro un atteggiamento più conciliante verso Israele.

Prevedibilmente, però, Hillary punterà soprattutto sul fatto che, se eletta, sarà la prima donna a entrare alla Casa Bianca da “comandante in capo”. Le questioni di genere, assieme a quelle razziali e dei diritti degli omosessuali, sono l’arma rimasta ai democratici per accendere un qualche entusiasmo tra l’elettorato - soprattutto della classe media - avendo da tempo abbandonato qualsiasi velleità di riforma economica in senso progressista.

L’interesse della stampa americana e internazionale per la candidatura di Hillary Clinton non può comunque dare particolare credibilità democratica al processo di selezione del potere negli Stati Uniti. I candidati tra cui gli elettori americani si trovano a dover scegliere sono di fatto vagliati esclusivamente da un gruppo ristretto di ricchi e potenti che controllano la politica e i media grazie al loro denaro.

Molti mesi prima delle elezioni primarie e della stessa inaugurazione ufficiale delle varie campagne elettorali, i candidati di entrambi i partiti operano dietro le quinte per assicurarsi l’appoggio e i dollari dei grandi finanziatori. Il primo candidato repubblicano ad aveve annunciato la corsa alla Casa Bianca era stato un paio di settimane fa il senatore di estrema destra del Texas, Ted Cruz, il quale dispone già di oltre 30 milioni di dollari per la propria campagna.

Jeb Bush, pur non essendo ancora formalmente in lizza per la nomination, intende toccare addirittura i 100 milioni di dollari raccolti entro il primo semestre dell’anno, mentre la stessa Hillary potrebbe sfondare tutti i record, mettendo assieme una somma complessiva stimata tra 1,5 e 2 miliardi di dollari in contributi per le primarie e le presidenziali.

La raccolta di somme di questa importanza comporta necessariamente che i candidati garantiscano di essere totalmente al servizio dei propri finanziatori una volta raggiunta la posizione di potere. Soprattutto, uno scenario di questo genere esclude a priori la presenza di candidati che mettano in discussione il sistema del capitalismo americano o, in altre parole, che sostengano misure fortemente popolari tra la vasta maggioranza degli americani: dall’aumento delle tasse per i redditi più elevati all’adeguato finanziamento dei programmi pubblici di assistenza o del sistema scolastico, dalla fine delle guerre allo stop ai programmi di sorveglianza condotti dall’apparato da stato polizia creato in questi anni.

Il risultato è così la presenza sulle schede elettorali di due candidati virtualmente identici che si battono per la Casa Bianca, entrambi legati ai grandi interessi economico-finanziari del paese e essi stessi appartenenti alla cerchia dei milionari, se non addirittura miliardari, come nel caso di Mitt Romney nel 2012.

Ironicamente, perciò, come confermerà anche la candidatura di Hillary Clinton, l’infusione di denaro in proporzioni sempre maggiori per conquistare incarichi di rilievo riflette la necessità di alimentare una macchina della propaganda tale da sottrarre al dibattito politico e, per quanto possibile, agli occhi degli elettori le condizioni reali del sistema politico e sociale degli Stati Uniti.

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