Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

La coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, e impegnata nell’aggressione contro lo Yemen, tra martedì e mercoledì ha interrotto e poi ripreso le operazioni aeree di bombardamento in un possibile segnale delle contraddizioni che caratterizzano l’iniziativa di Riyadh che da circa un mese ha aperto un nuovo fronte di guerra in Medio Oriente.

Nella serata di martedì, un comunicato del ministero della Difesa saudita aveva annunciato lo stop alle bombe, poiché la cosiddetta “Operazione Tempesta Decisiva” aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi.

Gli attacchi delle ultime quattro settimane avrebbero cioè “annientato la minaccia alla sicurezza del regno e dei paesi vicini grazie alla distruzione delle armi pesanti e dei missili balistici finiti nelle mani degli Houthi e delle truppe fedeli all’ex presidente, Ali Abdullah Saleh”.

Il regime saudita aveva inoltre annunciato l’inizio della seconda fase dell’operazione relativa allo Yemen, denominata “Restituzione della speranza”, basata ufficialmente sulla ricostruzione del più povero dei paesi arabi e sul lancio di un processo politico. La fine dei bombardamenti avrebbe dovuto consentire anche l’ingresso degli aiuti umanitari nel paese, dove il bilancio stilato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di quasi 950 morti, in gran parte civili, 3.500 feriti e svariate migliaia di sfollati.

Molti giornali internazionali avevano però messo in guardia dalla possibile ripresa delle operazioni militari, vista la sostanziale inefficacia dell’intervento saudita nel fermare l’avanzata dei “ribelli” sciiti Houthi nello Yemen.

Infatti, nemmeno 24 ore dopo l’annuncio di Riyadh le bombe sono tornate a cadere sullo Yemen. Facendo seguito a una minaccia già lanciata martedì, gli aerei sauditi hanno nuovamente colpito le postazioni Houthi in risposta a un attacco scatenato da questi ultimi contro una brigata dell’esercito governativo yemenita nella città di Taiz.

Nonostante le intenzioni dell’Arabia Saudita appaiano difficili da decifrare, l’evoluzione delle operazioni nello Yemen osservata nei giorni scorsi sembra mostrare molte meno certezze da parte dei vertici del regno rispetto alle posizioni ufficiali.

Riyadh aveva ad esempio respinto in maniera sommaria una proposta presentata qualche giorno fa dall’Iran per una soluzione pacifica della crisi nello Yemen. Martedì, però, la decisione di sospendere le operazioni militari è giunta poche ore dopo che il vice-ministro degli Esteri di Teheran, Hossein Amir Abdollahian, aveva anticipato all’agenzia di stampa iraniana Tasnim la probabile entrata in vigore di un cessate il fuoco.

Se al momento non ci sono prove di una possibile intesa tra i due paesi rivali sullo Yemen, non è da escludere che l’Arabia Saudita stia valutando una qualche marcia indietro.

D’altra parte, alquanto dubbio appare il raggiungimento da parte saudita dell’obiettivo di gettare le basi per il reintegro dell’impopolare presidente-fantoccio Abd Rabbu Manosur Hadi, costretto prima alle dimissioni e poi alla fuga dall’offensiva degli Houthi iniziata lo scorso mese di settembre.

Del tutto plausibile sembra dunque che lo stop ai bombardamenti annunciato martedì sia motivato dalle conseguenze di una campagna che ha fatto poco o nulla per indebolire gli Houthi ma che, invece, ha provocato la devastazione nello Yemen.

L’altissimo numero di vittime civili e l’evidenza di svariate incursioni che hanno avuto come bersaglio obiettivi tutt’altro che militari hanno provocato l’orrore nella comunità internazionale, mentre nello Yemen hanno suscitato l’ostilità di gran parte della popolazione, ad esclusione degli ambienti militari e politici anti-Houthi che vedono nell’intervento saudita l’unica possibilità di riconquistare il potere perduto.

Su Riyadh sono così aumentate le pressioni per interrompere le operazioni militari. Dagli stessi Stati Uniti erano apparsi chiari i malumori per l’iniziativa militare yemenita, soprattutto in relazione a possibili riflessi negativi sul negoziato per il nucleare dell’Iran in dirittura d’arrivo.

La complicità dell’amministrazione Obama nell’aggressione saudita allo Yemen è comunque innegabile, visto che Washington ha garantito assistenza nell’identificazione dei bersagli da colpire e ha collaborato nel blocco navale ai danni del paese della penisola arabica, da ultimo proprio qualche giorno fa quando è stato rafforzato il dispiegamento di navi da guerra USA al largo delle coste per impedire possibili trasferimenti di armi agli Houthi da parte dell’Iran.

In ogni caso, molti giornali avevano riportato nei giorni scorsi colloqui tra i vertici del governo americano e le autorità saudite. Il segretario di Stato, John Kerry, avrebbe ad esempio discusso più volte con Riyadh della crisi nello Yemen, mentre il direttore della CIA, John Brennan, ha recentemente visitato la capitale saudita.

Il presidente Obama, poi, ha incontrato lunedì alla Casa Bianca il principe di Abu Dhabi Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan, al quale, secondo la stampa americana, avrebbe manifestato le proprie perplessità per una campagna a cui anche gli Emirati Arabi hanno dato il pieno sostegno.

La ripresa dei bombardamenti nella giornata di mercoledì ha comunque rimesso in discussione - almeno in parte - gli sviluppi delle ore precedenti, anche se l’eventuale prosecuzione delle incursioni aeree difficilmente potrà cambiare la situazione sul campo.

Gli unici risultati prodotti da quattro settimane di campagna militare nello Yemen, così, sono stati esclusivamente massacri di civili, il precipitare della crisi umanitaria e significativi progressi dell’organizzazione jihadista al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), combattuta dagli Houthi e teoricamente nemico giurato di Arabia Saudita e Stati Uniti.

Al di là dell’eventuale proseguimento dei bombardamenti o di una nuova sospensione delle incursioni aeree, resta sempre percorribile per Riyadh l’opzione di un’invasione dello Yemen con truppe di terra. Altri osservatori hanno al contrario collegato la decisione di martedì con i possibili spiragli di una soluzione politica alla crisi emersi in seguito alla nomina da parte del presidente in esilio Hadi dell’ex primo ministro, Khaled Bahah, alla carica di vice-presidente.

Secondo la stampa internazionale, quest’ultimo sarebbe una figura meno controversa di Hadi e in grado di raccogliere consensi in tutto il panorama politico yemenita, forse perchè aveva cavalcato l’ondata rivoluzionaria che nel 2011 chiedeva le dimissioni del presidente Saleh, nonostante egli stesso facesse parte del partito al potere.

Bahah era finito tuttavia agli arresti domiciliari dopo l’offensiva che a gennaio aveva portato alla conquista della capitale, Sanaa, da parte degli Houthi, i quali, a fronte di settimane di bombardamenti, non sembrano ancora disposti a fare troppe concessioni all’Arabia Saudita e ai suoi alleati sunniti.

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