Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Mario Lombardo

Da qualche settimana il Libano è scosso da una serie di insolite manifestazioni di piazza, esplose a causa della mancata raccolta dei rifiuti e rapidamente trasformatesi in un movimento di protesta contro lo stato in cui versano le infrastrutture del paese mediorientale e, soprattutto, contro la paralisi e la corruzione di un sistema politico costruito su basi settarie.

Il movimento di protesta - battezzato “Til’at Reehitkum” (“Voi puzzate”) - è nato poco dopo la metà di luglio in seguito alla chiusura definitiva di una discarica che avrebbe dovuto essere dismessa parecchi anni fa. L’incapacità del governo di trovare un sito alternativo ha provocato l’accumulo dei rifiuti per le strade delle città libanesi, innescando una massiccia mobilitazione popolare che ha colto in parte di sorpresa gli stessi organizzatori del movimento.

In occasione di alcune manifestazioni a fine agosto, un certo numero di partecipanti, identificati da molti come provocatori, ha poi danneggiato edifici e automobili in un quartiere di Beirut, fornendo alle forze di polizia l’occasione per regire duramente. Gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati lanciati contro i manifestanti, con il bilancio degli scontri che ha registrato almeno un morto e più di trecento feriti.

Negli ultimi fine settimana del mese scorso e in questo inizio di settembre le dimostrazioni sono però continuate e i leader del movimento di protesta hanno lanciato un ultimatum alla classe politica libanese per implementare alcune loro richieste entro la mezzanotte di martedì, come le dimissioni del ministro dell’Ambiente, Mohammed al-Mashnouq, nuove elezioni parlamentari, il trasferimento alle municipalità del diritto di raccolta delle tasse sui rifiuti e l’apertura di un’indagine sulle violenze commesse dalla polizia contro i manifestanti.

Martedì, inoltre, la situazione in Libano si è fatta ancora più calda con l’occupazione da parte dei membri di “Til’at Reehitkum” del ministero dell’Ambiente, dove sono tornati a chiedere le dimissioni di Mashnouq. I leader del movimento hanno anche promesso nuove iniziative non meglio specificate se le loro rivendicazioni non verranno soddisfatte, anche se la polizia ha alla fine sgomberato l’edificio.

La reazione dei leader politici libanesi alle proteste è apparsa coerente con lo stato di immobilità del governo e delle altre istituzioni del paese. In molti hanno sollecitato un’azione rapida per rispondere alle richieste dei cittadini ma, al momento, l’unica promessa è stata quella di lanciare una qualche forma di dialogo tra i rappresentanti dei principali partiti politici per trovare una via d’uscita alla crisi.

Sempre martedì, il primo ministro sunnita, Tammam Salam, ha invitato il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, ad accelerare i preparativi per le discussioni che dovranno tenersi tra i leader dei vari blocchi parlamentari.

Il malcontento diffuso tra la popolazione libanese risulta ampiamente giustificato, visto che la vita quotidiana di milioni di persone in questo paese è segnata, tra l’altro, dalla scarsità di energia elettrica e di acqua potabile, da un sistema di trasporto pubblico e di infrastrutture fatiscente, da un livello di disoccupazione alle stelle.

A tutto ciò vanno aggiunte le pressioni su un fragilissimo sistema causate dall’altissimo numero di profughi e rifugiati presenti in Libano. Un paese di circa 4 milioni di abitanti conta non solo 500 mila rifugiati palestinesi ma qualcosa come 1,3 milioni di siriani fuggiti dalla guerra in corso e costretti spesso a vivere in condizioni disastrose.

La crisi economica e sociale che travaglia il Libano è collegata a quella politica. A Beirut non c’è un presidente regolarmente eletto da oltre un anno, mentre il parlamento ha più volte esteso il proprio mandato, rinviando le elezioni a causa del mancato accordo tra i vari partiti su una nuova legge elettorale. Il governo, teoricamente di “unità nazionale”, fatica da parte sua a raggiungere un qualche consenso su praticamente ogni questione all’ordine del giorno, essendo diviso tra fazioni attestate su posizioni apparentemente inconciliabili.

Il panorama politico libanese è cioè in sostanza spaccato tra i sostenitori dell’alleanza “8 Marzo”, composta principalmente dai cristiani maroniti del Movimento Patriottico Libero e dagli sciiti di Hezbollah e Amal e quelli dell’alleanza “14 Marzo”, guidata dal Movimento il Futuro dell’ex premier sunnita Saad Hariri, assieme ai cristiani maroniti delle Forze Libanesi e ai falangisti del partito Kataeb. I primi sono appoggiati dall’Iran e dalla Siria, gli altri dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti.

Tutto il sistema politico libanese si regge così su un fragile equilibrio settario uscito dalla guerra civile (1975-1990), nel quale i cristiani e i musulmani si dividono equamente i seggi parlamentari. Inoltre, un accordo non scritto prevede che il presidente sia un membro della comunità cristiana maronita, il primo ministro un sunnita e lo “speaker” del parlamento uno sciita.

L’aspetto più sorprendente del movimento di protesta di queste settimane è stato proprio il superamento delle divisioni settarie imposte dalla classe politica libanese e dai loro sponsor esteri. Molti giornali hanno sottolineato come i dimostranti scesi nelle strade fossero di confessioni diverse e chiedessero frequentemente la fine dell’impalcatura settaria che, di fatto, soffoca le tensioni sociali e perpetua un sistema dominato da una ristretta classe politica e da una manciata di milionari e miliardari.

La stessa iniziativa quasi spontanea di occupare le piazze per protestare contro la mancata raccolta dei rifiuti e la passività del governo è apparsa decisamente insolita per il Libano, dove di solito gli eventi pubblici a cui partecipano migliaia o decine di migliaia di persone sono, appunto, quelli organizzati dai principali partiti politici su base confessionale.

Le vicende libanesi di questi giorni non possono tuttavia far dimenticare che ciò che accade in questo paese è quasi sempre legato alle manovre delle potenze regionali, impegnate in un conflitto per estendere la propria influenza in Medio Oriente che si riflette su Beirut.

L’aggravarsi della crisi economica, sociale e politica che sta vivendo il Libano e che ha contribuito allo scoppio delle proteste è collegato in particolare alla guerra in Siria. In Libano, infatti, si è pericolosamente riprodotto lo scontro tra i sostenitori del regime di Assad e dell’opposizione armata sunnita. Un contingente di guerriglieri di Hezbollah è stato mandato a combattere in Siria a fianco delle forze governative, mentre le località a maggioranza sunnita, come la città settentrionale di Tripoli, fungono da centri di coordinamento per l’invio di armi e uomini destinati a sostenere le formazioni jihadiste anti-Assad.

Se pure la maggioranza dei manifestanti sembra auspicare cambiamenti sociali e politici sostanziali, la situazione del Libano appare dunque bloccata dagli eventi internazionali e dalla tradizionale influenza esercitata dai governi esteri su questo paese. Tanto più, poi, che gli obiettivi degli organizzatori della protesta continuano a essere di natura limitata.

Vista l’importanza strategica del “paese dei cedri”, infine, in molti si chiedono se le dimostrazioni in atto potranno essere in qualche modo manipolate per incidere sulle vicende siriane. Una destabilizzazione del Libano in un frangente storico così delicato produrrebbe cioè un aggravamento del conflitto interno, forzando ad esempio il ripiegamento di Hezbollah sul fronte domestico e privando Damasco di uno dei pilastri della resistenza contro i gruppi fondamentalisti sunniti che ha finora contribuito a impedire il crollo definitivo del regime di Assad.

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