Fico e l’atlantismo criminale

di Michele Paris

Dopo un lungo e complicato intervento chirurgico, il primo ministro slovacco Robert Fico è sopravvissuto al tentato assassinio di mercoledì avvenuto in una località a un paio d’ore di auto da Bratislava. Il gravissimo episodio ha tutti i connotati di un’operazione politica ed è da collegare allo scontro sull’Ucraina che si sta consumando tra i vertici UE e gran parte dei leader dei...
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Australia: i criminali sbagliati

di Michele Paris

La giustizia australiana ha emesso martedì per la prima volta in assoluto un verdetto di condanna in un caso di crimini di guerra collegato ai due decenni di occupazione militare dell’Afghanistan. A ricevere la condanna non è stato però nessuno dei militari che ha commesso materialmente oppure facilitato o insabbiato questi crimini, nonostante le prove per farlo siano da tempo anche di pubblico dominio, bensì uno dei “whistleblowers” che ha fatto conoscere al pubblico questi stessi crimini commessi contro i civili afgani. Il condannato in questione è l’avvocato militare David McBride, oggetto di una pesante sentenza per avere sottratto documenti riservati all’esercito australiano e poi condivisi con alcuni giornalisti della...
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di Michele Paris

Le primarie di martedì in Wisconsin per le presidenziali USA hanno segnato una prevista battuta d’arresto per i due candidati favoriti nella corsa alla Casa Bianca. Per quanto riguarda gli equilibri numerici in chiave nomination, la sconfitta di Donald Trump appare nettamente più pesante rispetto a quella incassata da Hillary Clinton, la quale continua però a mostrare evidenti punti deboli che vengono sfruttati in maniera sempre più frequente dal suo lanciatissimo rivale, Bernie Sanders.

Il senatore del Vermont ha ottenuto il 56,5% dei consensi nelle primarie dell’unico stato chiamato a votare martedì, lasciando all’ex segretario di Stato il 43,1%. Il margine di vantaggio di Sanders è stato ancora una volta superiore rispetto a quello previsto da molti sondaggi, la maggior parte dei quali lo stimava non troppo al di sopra dei 5 punti percentuali.

Se pure con un elettorato Democratico dalle caratteristiche che sembrano adattarsi perfettamente a Sanders, il Wisconsin non è uno stato marginale nella mappa politica degli Stati Uniti e la portata del suo successo può essere difficilmente sottostimata se si pensa allo status di super-favorita attribuito a Hillary da tutti i principali media americani e dai vertici del partito.

Sanders ha prevalso in 69 delle 72 contee in cui è suddiviso lo stato, così come nella città culturalmente più vivace - Madison - e in svariati centri industriali. Le rilevazioni fuori dai seggi hanno evidenziato come il veterano senatore abbia di nuovo stravinto tra gli elettori più giovani, tra i bianchi e quelli che considerano come temi elettorali più importanti le disuguaglianze di reddito e la crisi economica.

Forse per la prima volta dall’inizio delle primarie, poi, Sanders ha fatto registrare un chiaro vantaggio su Hillary tra gli afro-americani e gli appartenenti ad altre minoranze etniche, anche se limitatamente alle fasce di età più basse.

Il fattore che ha proiettato Sanders alla vittoria in Wisconsin e, più in generale, che gli ha permesso da tempo di scrollarsi di dosso l’etichetta di candidato marginale sembra essere in primo luogo lo spostamento a sinistra dell’elettorato americano, soprattutto quello tendenzialmente orientato a votare per il Partito Democratico.

A dimostrare questa evoluzione sono stati molti sondaggi negli ultimi mesi. Alcuni di essi hanno ad esempio rivelato la crescita consistente in questi anni del numero di elettori Democratici che si autodefiniscono “progressisti” o “molto progressisti”, se non addirittura “socialisti” o meglio disposti verso il socialismo rispetto al capitalismo.

Quello Democratico rimane e rimarrà peraltro un partito fortemente ancorato a determinate sezioni delle élite economico-finanziarie americane e contraddistinto da una drammatica deriva verso destra, sia che il “ticket” presidenziale presenti alla fine Hillary o Sanders. La mobilitazione popolare attorno a quest’ultimo e alla sua piattaforma elettorale di “sinistra” - sia pure non su tutte le questioni - indica però il diffusissimo desiderio di cambiamento in senso progressista tra le classi medio-basse che non possono trovare altre alternative nell’attuale sistema politico americano.

Il quasi totale sostegno per Hillary Clinton dell’establishment Democratico e della stampa che conta è la diretta conseguenza di questi fattori, soprattutto del timore non tanto dell’affidabile Sanders, per decenni sostanzialmente allineato all’ala “liberal” del partito, quanto per i chiarissimi segnali del radicalizzarsi dell’opposizione popolare contro il sistema.

Hillary e il suo staff, dunque, cominciano a mostrare le apprensioni che nutrono per la possibile rimonta di Sanders, ben conoscendo la vulnerabilità di una candidata guerrafondaia e legata a doppio filo a Wall Street e ai poteri forti negli USA. La ex first lady non è ad esempio apparsa in pubblico martedì sera dopo la chiusura delle urne in Wisconsin e mercoledì il sito di informazione Politico.com ha pubblicato un’intervista nella quale è apparsa a tratti spazientita dalla permanenza del rivale nella corsa, tanto da mettere in discussione la fedeltà di Sanders al Partito Democratico.

In termini numerici, comunque, Sanders ha ancora moltissima strada da fare per chiudere il divario di delegati da Hillary. Il successo di martedì gli ha infatti permesso di recuperarne appena una decina e di ridurre il margine a circa 230. Sanders ha però vinto sette delle ultime otto primarie (o “caucuses”) e già sabato si prospetta un nuovo successo in Wyoming che potrebbe dare al senatore un’altra spinta in vista delle sfide decisive dopo la metà di aprile, nonostante il numero totale dei delegati in palio in questo stato non arrivi a 20.

Cruciale sembra essere il voto del 19 aprile nello stato che mette a disposizione il numero maggiore di delegati dopo la California, quello di New York, per il quale Hillary ha servito al Senato di Washington. La Clinton è data attualmente in vantaggio e può contare come al solito sull’appoggio di tutto il potente apparato Democratico dello stato. Sanders, nativo di Brooklyn, spera però in un clamoroso sorpasso grazie all’entusiasmo generato dalle recenti vittorie e dal denaro che esse hanno fatto entrare nelle casse della sua campagna elettorale.

Nelle primarie per il Partito Repubblicano, Donald Trump ha dovuto incassare la sconfitta più pesante dal primo appuntamento a inizio febbraio in Iowa. Come in quel caso, anche in Wisconsin a batterlo è stato il senatore ultra-conservatore cristiano fondamentalista del Texas, Ted Cruz. L’esito del voto è stato piuttosto netto (48% a 35%, con il governatore dell’Ohio, John Kasich, fermo al 14%) e potrebbe avere frustrato in maniera definitiva le speranze di Trump di conquistare la maggioranza assoluta dei delegati e, quindi, la nomination al termine delle primarie.

Per i giornali americani, l’imprenditore miliardario dovrebbe infatti conquistare quasi il 70% dei delegati ancora da assegnare per evitare una battaglia alla convention Repubblicana di luglio, in programma a Cleveland, nell’Ohio. Se si dovesse arrivare senza un candidato in grado di giungere alla soglia dei 1.237 delegati necessari per ottenere automaticamente la nomination, tutti i votanti alla convention potranno in sostanza scegliere liberamente a chi assegnarla.

In uno scenario simile, al momento Trump sembra avere poche chances di prevalere, viste le manovre che i vertici del Partito Repubblicano e i suoi finanziatori stanno mettendo in atto per far naufragare la candidatura del favorito. Una campagna sostenuta da milioni di dollari in donazioni, assieme a una lunga serie di gaffes e controversie in cui si è venuto a trovare lo stesso Trump, hanno avuto un certo effetto nel rallentare la corsa di quest’ultimo.

L’apparato di potere Repubblicano, o quanto meno una buona parte di esso, è insomma disposto a rischiare una spaccatura nel partito e la diserzione dei sostenitori di Trump nelle presidenziali pur di impedire la sua presenza sulle schede elettorali a novembre. Allo stesso tempo, il partito sembra avere digerito l’ipotesi di candidare Cruz alla Casa Bianca, nonostante anch’egli non risulti particolarmente ben visto dai leader Repubblicani e sia attestato su posizioni decisamente estreme.

La profonda opposizione che Trump sta incontrando all’interno del suo stesso partito si spiega in parte con il suo atteggiamento più adatto a un uomo di spettacolo che a un politico e alle posizioni in odore di fascismo evidenziate durante la campagna elettorale. Un simile candidato, insomma, risulterebbe ineleggibile, col rischio di consegnare nuovamente la presidenza ai Democratici.

Questa spiegazione non esaurisce però le ragioni dello scontro sulla candidatura di Trump, tanto più che di candidati al limite del presentabile i Repubblicani ne hanno avuti molti, basti pensare a George W. Bush, o che talune sue “proposte” di estrema destra differiscono da quelle normalmente accettate dal resto del partito solo nelle modalità e nei toni con cui vengono esposte.

Trump, probabilmente, suscita preoccupazione tra l’establishment Repubblicano anche per la sua relativa indipendenza dai grandi centri economici e finanziari e, soprattutto, per avere ipotizzato alcune iniziative che contrasterebbero con le mire strategiche ben consolidate a Washington, come il ridimensionamento della NATO o la convivenza pacifica degli USA con Russia e Cina.

Che Trump riesca o sia intenzionato a seguire questa strada una volta alla Casa Bianca è comunque in fortissimo dubbio, come dimostra anche la scelta del suo team di consiglieri in materia di politica estera, fatto prevalentemente di “neo-con” e “falchi” dell’interventismo a stelle e strisce.

Anche Trump ha in ogni caso accusato il colpo martedì, visto che insolitamente non ha tenuto discorsi pubblici dopo il voto in Wisconsin, lasciando il commento sulle primarie a un breve comunicato che ha descritto Cruz come “peggio di un burattino” e “un cavallo di Troia usato dai capi del partito” per cercare di derubarlo della nomination.

Se l’obiettivo di chiudere il discorso nomination prima della convention sembra dunque allontanarsi, per Trump si tratta ora di accumulare il maggior numero di delegati in modo da scoraggiare clamorosi ribaltoni a Cleveland. Anche per lui l’appuntamento chiave nel breve periodo è rappresentato dalle primarie di New York, cioè il suo stato, dove continua a rimanere favorito.

Qui, però, Trump avrà tutto da perdere, dal momento che i nuovi scenari in casa Repubblicana lo costringeranno non solo a vincere ma addirittura a stravincere per cercare di arginare l’ondata di opposizione interna che rischia di travolgere la sua campagna.

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