Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Michele Paris

Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha accolto con giustificato sollievo i risultati del voto di domenica per il rinnovo della metà della Camera Alta, o dei Consiglieri, del Parlamento di Tokyo. I segnali provenienti dal Paese e l’atteggiamento di un esecutivo intenzionato a perseguire impopolari politiche da grande potenza avevano infatti lasciato intravedere, se non una sconfitta, un possibile ridimensionamento del premier e della sua ambiziosa agenda. Il discredito e la confusione che regna nell’opposizione di centro-sinistra hanno invece consegnato una nuova nettissima vittoria alla destra nipponica.

La camera dei Consiglieri della Dieta (Parlamento) di Tokyo mette in palio la metà dei suoi 242 seggi ogni tre anni. Il Partito Liberal Democratico (LDP) di Abe e il suo partner di coalizione - il partito buddista moderato Komeito - già dispongono di un’ampia maggioranza alla camera bassa, o dei Rappresentanti, superiore cioè ai due terzi, ovvero il numero minimo per approvare modifiche alla Costituzione giapponese. Lo stesso obiettivo è stato ora raggiunto anche alla camera alta grazie alla probabile collaborazione di Consiglieri indipendenti o appartenenti ai formazioni minori.

Abe avrà ora la possibilità teorica di apportare i cambiamenti desiderati a una carta costituzionale dal carattere marcatamente pacifista, in modo da affidare alle forze armate il ruolo previsto dalle ambizioni della classe dirigente del Giappone.

Vista la delicatezza della questione, Abe si è però mostrato prudente alla chiusura delle urne. Il primo ministro ha preferito concentrarsi sui piani economici del suo governo e già lunedì ha annunciato il lancio di un nuovo pacchetto di stimolo che dovrebbe prevedere più che altro massicci investimenti in opere pubbliche del valore, secondo fonti Liberal Democratiche citate dalla Reuters, di circa 100 miliardi di dollari.

Queste prime dichiarazioni del dopo voto di Abe hanno suscitato perplessità tra molti economisti e analisti di gruppi finanziari internazionali. Il timore tra questi ambienti è che il governo cerchi di rianimare l’economia giapponese tramite le consuete misure di spesa che hanno fatto salire il debito pubblico a livelli da record tra i paesi avanzati. Sull’esecutivo di Tokyo ci sono forti pressioni affinché proceda con la terza componente delle cosiddette “Abenomics”, come sono note le ricette economiche propagandate dal premier, cioè la più scottante e impopolare, ovvero la liberalizzazione del mercato del lavoro.

Le altre due “frecce” all’arco di Abe sono lo stimolo fiscale e una politica monetaria espansionistica sul modello del “quantitative easing” già promosso dalla Fed americana e in seguito dalla Banca Centrale Europea. Nonostante i toni trionfali che avevano accompagnato il ritorno al potere di Abe nel dicembre del 2012, le sue iniziative in materia economica non sono riuscite a dare un impulso a una crescita tutt’al più stagnante, se non addirittura negativa in più di un trimestre dal 2014 a oggi.

La cautela di Abe nell’implementare misure che favoriscano il clima per gli investimenti in Giappone malgrado la larghissima maggioranza detenuta in Parlamento si deve probabilmente alla posizione non esattamente solidissima del governo. Le iniziative sul fronte economico e della “sicurezza nazionale” in questi anni hanno alimentato gravi tensioni sociali anche in Giappone, tradottesi nei mesi scorsi in parecchie manifestazioni di protesta insolitamente affollate.

Il pieno fatto dai Liberal Democratici alla camera alta dipende in buona parte dal discredito del principale partito di opposizione, quello Democratico (DP) di centro-sinistra. Il DP era stato protagonista di una vittoria storica nel 2009 sul tradizionale partito di governo giapponese, ma i governi succedutisi fino al 2012 si erano rimangiati una promessa elettorale dopo l’altra, finendo per riconsegnare il paese alla destra, questa volta nella versione radicale di Abe.

Nel voto di domenica, così, molti giapponesi si sono trovati senza alcuna alternativa valida alla maggioranza di governo, il quale peraltro nelle settimane precedenti aveva mostrato una certa apprensione. Abe aveva infatti spostato l’introduzione dell’impopolare aumento della tassa sui consumi dall’aprile 2017 all’ottobre del 2019. La misura era già stata decisa dal governo Democratico nel 2012 per mettere un freno all’enorme debito pubblico giapponese.

L’attenzione della stampa domestica e internazionale si è comunque fissata sulla questione della modifica alla Costituzione pianificata da anni dal primo ministro Abe. Il governo aveva già fatto approvare nel settembre scorso la “reinterpretazione” dell’articolo 9 della carta costituzionale che vieta il ricorso alla guerra nelle risoluzioni delle crisi internazionali e lo stesso mantenimento di un esercito. Con questa mossa, Abe aveva introdotto il concetto di “auto-difesa collettiva”, in modo da consentire non solo l’impiego delle forze armate per la difesa del Giappone, come avviene da tempo, ma anche dei paesi alleati.

I progetti e le ambizioni da grande potenza della classe dirigente nipponica, la crescente rivalità con la Cina e il desiderio di Washington di integrare Tokyo nella propria strategia anti-cinese in Estremo Oriente richiedono però la cancellazione stessa delle clausole pacifiste previste dalla Costituzione giapponese. Con la maggioranza dei due terzi in entrambi i rami del Parlamento, Abe potrebbe ora teoricamente procedere in questo senso, nonostante qualsiasi modifica dovrà essere ratificata da un referendum popolare.

Alcuni fattori indicano tuttavia che i tempi non saranno troppo brevi. Innanzitutto, l’opinione pubblica giapponese continua a manifestare opinioni contrarie a quelle del governo sulla modifica alla Costituzione. Allo stesso modo, il partner di governo dei Liberal Democratici, il partito Komeito, è attestato su posizioni più moderate e chiede un atteggiamento più cauto sulla questione.

Infine, gli ambienti economici e finanziari temono che il focalizzarsi sullo smantellamento della Costituzione pacifista possa compromettere la già difficile adozione delle misure di ristrutturazione dell’economia in senso liberista prevista dalle “Abenomics”.

Viste le complicazioni, il governo giapponese potrebbe spingere per un emendamento alla Costituzione meno controverso rispetto alla modifica dell’articolo 9, giungendo però agli stessi risultati. Abe punterebbe cioè a un meccanismo che consenta di imporre uno “stato di emergenza” in presenza di situazioni di crisi di vario genere. In questo modo, sotto l’autorità del capo del governo, le forze armate potrebbero essere sostanzialmente impiegate senza i vincoli imposti dalla Costituzione giapponese.

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