Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Michele Paris

Quello che sembra ormai sempre più un processo di riallineamento strategico da parte del governo delle Filippine ha fatto segnare in questi giorni una tappa importante, quanto meno nei toni, in seguito a una serie di dichiarazioni rilasciate dal neo-presidente, Rodrigo Duterte, che prospettano un futuro complicato nelle relazioni con l’alleato americano.

Se una rottura tra Washington e Manila appare ancora molto lontana, le forze che si nascondono dietro la retorica spesso colorita di Duterte rivelano tuttavia un’evoluzione degli equilibri in Asia sud-orientale che mette seriamente a rischio i piani degli Stati Uniti in una regione sempre più nell’orbita del colosso cinese.

Nell’arco di due giorni, l’ex sindaco della città filippina di Davao ha smontato, o minacciato di smontare, alcuni dei pilastri della strategia americana di contenimento della Cina nel continente asiatico. Per cominciare, lunedì ha invitato a lasciare il paese i circa 200 soldati delle forze speciali USA di stanza sull’isola meridionale di Mindanao, dove forniscono assistenza militare e di intelligence ai militari filippini nell’ambito della lotta ai guerriglieri musulmani di Abu Sayyaf.

Duterte e il suo portavoce, Ernesto Abella, hanno cercato di attenuare una presa di posizione che può essere facilmente definita clamorosa, precisando che l’evacuazione dei soldati americani dovrebbe avvenire per la loro stessa sicurezza, visto che l’offensiva del governo contro i ribelli li esporrebbe alle ritorsioni di questi ultimi.

Il governo americano è stato preso evidentemente di sorpresa dalle parole di Duterte. Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha affermato che Washington non ha ricevuto alcuna richiesta formale di rimuovere i propri uomini da Mindanao, per poi paragonare il presidente filippino a Donald Trump per le sue uscite “colorite”. Il riferimento è andato immediatamente alla conferenza stampa di Duterte di settimana scorsa, nella quale diede a Obama del “figlio di p…”.

La richiesta di Duterte alle forze speciali americane rischia di fissare un precedente nei rapporti con le Filippine, con il potenziale di compromettere lo stazionamento di soldati sul territorio di questo paese, previsto dall’accordo di cooperazione (EDCA) sottoscritto nel 2014 dagli Stati Uniti con l’ex presidente filippino, Benigno Aquino.

L’EDCA garantisce ai militari americani l’accesso a una serie di basi nelle Filippine e la sua ratifica era stata oggetto di forti contrasti all’interno della classe dirigente indigena fino alla sentenza della Corte Suprema di Manila a inizio anno che ne aveva confermato la legittimità.

Viste le implicazioni delle parole di Duterte, il suo portavoce si è affrettato ad assicurare gli Stati Uniti che il suo governo intende rispettare i termini dell’EDCA, così come un altro accordo militare, quello del 1999 sulla permanenza provvisoria di soldati americani nelle Filippine in occasione di esercitazioni congiunte.

A conferma delle posizioni tutt’altro che univoche sugli orientamenti strategici di Manila, i vertici militari filippini si sono mossi per cercare di tranquillizzare l’alleato americano. Il portavoce delle forze armate, generale Restituto Padilla, ha infatti definito “solide” le relazioni tra i due paesi in ambito militare e confermato le attività congiunte in programma nell’anno in corso, “nel 2017 e oltre”.

Nella giornata di martedì, Duterte è però tornato sulla questione, annunciando lo stop alle operazioni di pattugliamento con le forze navali statunitensi nelle acque contese con Pechino del Mar Cinese Meridionale. Solo lo scorso aprile, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, e l’allora ministro degli Esteri filippino, Voltaire Gazmin, avevano rivelato nel corso di una conferenza stampa a Manila che le navi dei due paesi avevano iniziato a pattugliare congiuntamente le acque al centro di accese dispute tra la Cina e svariati altri paesi della regione.

Duterte, in un esplicito messaggio indirizzato a Washington, ha chiarito che il suo governo non intende “mettersi nei guai” con operazioni che sono considerate estremamente provocatorie dalla Cina, le cui forze navali controllano buona parte delle isole e degli atolli contesi nel Mar Cinese Meridionale.

Il passo indietro di Manila sui pattugliamenti deve essere stato accolto dagli Stati Uniti con profonda irritazione, visto che queste operazioni sono considerate cruciali nella loro strategia anti-cinese in Estremo Oriente. Washington ha già condotto un certo numero di pattugliamenti ai limiti delle acque territoriali delle isole rivendicate da Pechino in nome della “libertà di navigazione” e insiste da tempo con i propri alleati – come Filippine e Australia – per convincerli a partecipare a queste stesse operazioni.

Nel caso i messaggi non fossero stati abbastanza chiari, sempre martedì il presidente filippino ha poi assestato il colpo definitivo alle aspettative americane, dichiarando senza mezzi termini che il suo paese intende perseguire “una politica estera e militare indipendente”.

Ciò significa che le Filippine potrebbero declinare gli inviti degli Stati Uniti ad assumere posizioni intransigenti nei confronti della Cina. L’attitudine prudente di Duterte era apparsa peraltro chiara dalle esitazioni nell’utilizzare la recente sentenza del Tribunale Arbitrale Permanente de L’Aja, sfavorevole a Pechino, sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, per esercitare pressioni sulla Cina.

Inoltre, Duterte ha avvertito che il suo governo intende rivolgersi a Russia e Cina per gli approvvigionamenti militari, spezzando potenzialmente il quasi monopolio americano nelle forniture in questo ambito che dura almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Duterte ha spiegato che Mosca e Pechino sono disposte a vendere armi “senza condizioni”, al contrario degli USA.

Le politiche indipendenti invocate da Duterte non comportano in ogni caso una rottura definitiva con Washington. Il presidente filippino ha aggiunto infatti che il suo paese “non volterà le spalle a nessuno”, mentre il ministro degli Esteri, Perfecto Yasay, solitamente più moderato di Duterte, ha garantito che “la solida amicizia” con gli Stati Uniti non verrà intaccata.

L’atteggiamento di Rodrigo Duterte sulle questioni di politica estera è dettato principalmente dalla consapevolezza dell’importanza della Cina per mantenere livelli di crescita economica sostenuti in un paese che continua ad avere un tasso di povertà elevatissimo e infrastrutture fatiscenti.

Duterte ha già intrapreso iniziative per sviluppare i rapporti economico-commerciali con la Cina, come aveva fatto la presidente delle Filippine fino al 2010, Gloria Macapagal Arroyo, prima della svolta strategica del successore di quest’ultima, Benigno Aquino, considerato un fedelissimo di Washington.

L’equilibrismo di Duterte rischia però di diventare insostenibile già nel breve periodo, poiché la crescente rivalità con la Cina spinge gli Stati Uniti a esigere posizioni chiare dai propri alleati circa la disponibilità ad abbracciare le politiche provocatorie adottate contro Pechino.

Le tensioni con le Filippine dimostrano però allo stesso tempo anche la declinante influenza americana in Asia orientale e le difficoltà a conservare rigide alleanze in una realtà segnata sempre più dal multipolarismo, nonché dall’ascesa della Cina e dalla sua capacità di condizionare le scelte strategiche dei paesi vicini.

Un’ulteriore dimostrazione degli affanni americani in Asia si è avuta nel recente summit dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico) in Laos, al termine del quale gli Stati Uniti hanno dovuto incassare l’ennesimo rifiuto dei paesi membri di condannare apertamente le operazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

Non solo, la Cina e i paesi ASEAN, incluse le Filippine, hanno finito per approvare all’unanimità un codice di condotta per regolare i conflitti ed eventuali situazioni di crisi nelle stesse acque contese, proprio come chiedeva da tempo il governo di Pechino.

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