Cina-UE, la sfida di Xi

di Mario Lombardo

La visita di questa settimana in tre paesi europei del presidente cinese, Xi Jinping, si inserisce nel quadro della competizione globale sempre più accesa tra Washington e Pechino, che vede nel vecchio continente uno dei terreni di scontro più importanti. Con Francia, Ungheria e Serbia sulla sua agenda europea, il leader della Repubblica Popolare ha operato una scelta strategica ben precisa, a...
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Ucraina, fallimento e “linee rosse”

di Mario Lombardo

Le dichiarazioni e le notizie circolate nei giorni scorsi sul possibile prossimo impiego di militari NATO o di singoli paesi membri nella guerra in Ucraina hanno prevedibilmente aggravato il clima già rovente delle relazioni tra Russia e Occidente. L’ennesimo avvertimento del Cremlino a evitare ulteriori escalation dello scontro non hanno in apparenza prodotto alcun frutto, ma i vertici del Patto Atlantico e i leader maggiormente impegnati nelle provocazioni verso Mosca, come il presidente francese Macron, potrebbero rivedere le rispettive posizioni dopo la decisione di Putin di pianificare esercitazioni militari con armi tattiche nucleari. La notizia è arrivata lunedì e il ministero della Difesa di Mosca ha collegato esplicitamente...
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di Fabrizio Casari

Come nel peggiore dei remake, l’ultradestra statunitense torna a minacciare il Nicaragua. Alcuni congressisti, guidati da Ileana Ross-Lehtinen (soprannominata “la loba feroz - la lupa feroce” e amica intima del terrorista cubano americano Luis Posada Carriles ndr) hanno fatto passare alla Camera dei Rappresentanti USA il Nica Act, una misura destinata a far ripiombare la storia delle relazioni tra Nicaragua e Stati Uniti nello scontro degli anni ’80.

Il provvedimento prevede sanzioni nei confronti del Nicaragua. La più importante è il divieto di accesso per il paese centroamericano ai prestiti internazionali emessi da FMI, Banca Mondiale e Banco Interamericano di Sviluppo (BID).

Più che una legge il Nica Act é una indecente ingerenza, il cui obiettivo politico è alterare l’esito del processo elettorale in Nicaragua, scatenando apprensione nella popolazione e negli investitori stranieri nella speranza di condizionare il voto del prossimo 6 novembre. Nel provvedimento si sostiene che il governo sandinista limita i diritti dell’opposizione, viziando il processo elettorale in corso. Il che non è affatto vero.

I sandinisti non hanno nessun bisogno di ridurre lo spazio democratico per vincere. Il consenso conquistato dal governo guidato dal Comandante Daniel Ortega, grazie a 10 anni di sicurezza e di forte recupero dell’economia del paese, si riverbera sui sondaggi, che indicano una distanza incolmabile tra il Frente Sandinista e i partiti che lo accompagnano e la coalizione oppositrice, seppur ampia.

Si deve ricordare che il FSLN è, dal 1984, il primo partito del paese, con uno zoccolo duro intorno al 37% dei voti. L’opposizione, composta da Liberali, Conservatori ed altre formazioni, compresi gli ex.contras, è accreditata nei sondaggi tra il 12 e il 14% dei voti.

Solo due sono le componenti che gridano alla mancanza di condizioni per un regolare svolgimento della campagna elettorali: gli ex liberali legati a Montealegre e il MRS degli ex-sandinisti. Entrambi in cerca di vendette, compongono l’osceno quadretto dei personaggi recatisi a Miami e a Washington a chiedere aiuto all’ultra destra statunitense affinché colpisca il Nicaragua che loro non riescono a conquistare.

Non ci riescono perché godono di un consenso risibile: secondo i sondaggi della CID-Gallup, della M&R Consultores e della Borge&Asociados, se si presentassero alle urne, i liberali vicini a Montealegre arriverebbero a sfiorare il 3% dei voti, mentre il MRS sarebbe allo 0,2%. Proprio per questo non si presentano. Non è la presunta mancanza di equità nelle condizioni di accesso al voto, ma la totale assenza di credibilità di queste due sigle presso l’elettorato a determinarne la marginalità assoluta nel panorama politico nicaraguense. In particolare, i liberali vicini a Montealegre, sono in deficit di credibilità nella loro proposta politica, a causa del loro malgoverno di sedici anni (1990-2006) ed alle liti interne.

Ma accantonando per un momento la miseria umana e politica degli ex-sandinisti del MRS, senza voti né prestigio alcuno, da anni alleati con la destra ed oggi addirittura nelle vesti di chi è invoca l’intervento straniero contro il suo stesso paese, la vicenda dell’opposizione liberale merita di essere raccontata.

Da tempo nel PLI si sono scontrati senza esclusione di colpi due blocchi alternativi tra loro: uno guidato da Edoardo Montealegre - banchiere ed ex ministro nei governi liberali - e l’altro da Pedro Reyes, giurista, che a Montealegre si è opposto per linea politica e gestione del partito. Si sono scontrati nelle sedi di partito, sui media e infine nei tribunali, rivendicando ognuno la titolarità giuridica e il simbolo del partito.

Lo scontro tra le fazioni liberali è proseguito fino al giugno di quest’anno, quando  la Corte è stata costretta a sentenziare, dal momento che stava per aprirsi la campagna elettorale e ritardare la sentenza avrebbe complicato non poco la presentazione del simbolo, dei candidati e delle liste elettorali. La sentenza ha accolto il ricorso di Reyes, sostenuto dalla maggioranza del gruppo dirigente.

Gli sconfitti imputano alle pressioni del governo la decisione della Corte Suprema di Giustizia di assegnare a Reyes l’autorizzazione alla gestione del partito. Ma è un’affermazione ridicola e senza fondamento. La Corte ha sentenziato non per volontà del governo ma a conclusione di una vera e propria battaglia legale interna al Partito Liberale. Né il FSLN, né il governo guidato dal Presidente Daniel Ortega, hanno niente a che fare con essa.

Dopo aver vinto, Pedro Reyes è passato alla resa dei conti interna. Ha chiesto agli eletti del PLI in Parlamento di prendere atto del cambio di leadership e sottomettersi alla nuova direzione politica. Sedici di questi, eletti nel 2011 con Montealegre, hanno rifiutato però di schierarsi con Reyes. Costui si è così rivolto al Parlamento per chiedere l’esecuzione della norma del regolamento parlamentare introdotta con voto unanime nel 2014, che proibisce il “cambio di casacca” e prevede la decadenza del mandato per chi abbandona il partito con il quale è stato eletto.

Il Parlamento ha votato la mozione proposta dai liberali di Reyes. Per questo, e non per volontà del governo, lo scorso 29 luglio un gruppo di deputati liberali, Montealegre compreso, sono decaduti. Al loro posto, in alcuni casi sono subentrati i deputati supplenti, ovvero i primi non eletti della lista che si riconoscevano nelle posizioni di Reyes e del gruppo dirigente del PLI.

Detto dei liberali, c’è poi il capitolo squallido del MRS. Fondamentalmente affermano che non vi sono le condizioni per votare solo perché dal voto uscirebbero distrutti. E' per evitare la resa dei conti con l‘elettorato che gli ex-sandinisti hanno chiesto aiuto all’ultra destra statunitense. Il che desta indignazione ma non sorprende. Non solo per la caratura di alcuni personaggi ma anche perché la sentenza della Corte ha guastato i loro piani. Vediamo quali erano.

Va detto in premessa che benché depositario di un consenso con numeri da prefisso telefonico, il MRS, in una opposizione guidata da Montealegre, avrebbe avuto un ruolo primario. Il che non avverrà con il PLI in mano a Reyes, che del MRS e altri, al fine di un rilancio dell’iniziativa della coalizione, ha deciso di fare a meno nell’alleanza elettorale con gli altri partiti d'opposizione. Dunque, salvo ripensamenti dell’ultima ora, il MRS è fuori dalla coalizione oppositrice, così come i seguaci di Montealegre.

Se la coalizione fosse stata in mano a Montealegre, invece, la strategia sarebbe stata un’altra ed era stato proprio il MRS a suggerirla. Non potendo pensare nemmeno da lontano ad una vittoria, il progetto era ritirare simbolo e candidati a 20-30 giorni dal voto, sostenendo non vi fossero le condizioni per un normale svolgimento della campagna elettorale; che la colpa era del governo Ortega e che quindi le elezioni andavano annullate chiedendo al riguardo l’intervento di USA e UE (che li sostengono da sempre).

In subordine, il piano B prevedeva di votare per poi, da sconfitti, gridare ai brogli elettorali ed assegnare agli osservatori statunitensi ed europei il compito di sostenere le accuse per chiedere l’annullamento del voto. Ma le ridicole percentuali previste dai sondaggi hanno fatto abbandonare quest’ultimo progetto, dato che i numeri sarebbero stati i principali nemici della credibilità delle accuse e dello stesso MRS.

Il progetto, a ben vedere, non era niente di straordinariamente originale, solo la versione tropicale dell’operazione messa in atto, per esempio, in Ucraina. Proprio dal reiterato utilizzo politico degli osservatori deriva il già annunciato rifiuto del governo di Managua ad accettare osservatori di organismi legati ai governi USA o UE che altro non fanno se non quello di dichiarare regolari o irregolari le elezioni a seconda di chi vince.

Non è tema che riguardi solo il Nicaragua, ovvio. Utilizzare presunte ONG e Fondazioni finanziate dalla politica statunitense e dalla UE é ormai da anni il nuovo modo d’intervenire nei processi politici ed elettorali interni ai paesi non obbedienti agli Stati Uniti. Serve fondamentalmente a consentire alla destra di divenire governo a prescindere dal risultato. In Paraguay e Brasile è andata in scena la versione post-elettorale e parlamentare del piano, mentre in Nicaragua si è probabilmente tentato di applicare la variante che ne prevede la realizzazione prima del voto.

Ma queste operazioni, che per passare hanno sempre bisogno di una sponda interna di dimensioni rilevanti, non sono state facilitate dal PLI guidato da Pedro Reyes e dalle altre formazioni oppositrici, che accettano la competizione battendosi per raggiungere il risultato migliore. Dunque, senza il maggior partito della coalizione oppositrice a sostenere l’illegittimità delle elezioni, il piano del MRS non poteva andare in porto.

Per questo il MRS, preso dalla disperazione, mentre cerca di esercitare ogni pressione verso Reyes per essere riammesso nella coalizione, si è recato in ginocchio negli Stati Uniti a chiedere misure che, se approvate, produrrebbero danni per 250 milioni di dollari al Nicaragua.

Ove esse venissero approvate ne deriverebbero fastidiose ricadute sulla crescita dell’economia nicaraguense, oggi la seconda dopo Panama per crescita del PIL e la prima dell’area centroamericana. Inciderebbero negativamente nel raggiungimento degli obiettivi di equità sociale e percentuale di riduzione della povertà estrema e della forbice sociale. Sono questi fattori fondamentali anche per la sicurezza interna, che indica il paese di Sandino come il più sicuro del Centroamerica.

Quale sarà il cammino del Nica Act al momento è difficile da prevedere. Intanto é approdato alla Commissione Esteri del Senato. Ma potrebbe finire in una bolla propagandistica, considerando che i rapporti diplomatici e commerciali tra Managua e Washington, così come la cooperazione in diversi ambiti - anche relativi alla sicurezza regionale - non offrono pretesti per un irrigidimento anacronistico delle relazioni tra i due paesi. Non si giustificherebbe un inasprimento unilaterale delle stesse con un atto ingerente ed aggressivo che si configurerebbe solo come una stupida fuga verso il passato.

Più realisticamente si può immaginare uno sviluppo dell’iter legislativo successivo al voto in Nicaragua. Un voto che confermerà ampiezza e profondità del consenso elettorale dei sandinisti e, per converso, anche la credibilità di una opposizione che dispone di una parte maggioritaria dei media e di un più che sufficiente bacino elettorale. Infatti Liberali e Conservatori, insieme alle altre formazioni che si oppongono al governo, sono accreditati di percentuali di tutto rispetto, pur se di gran lunga inferiori a quelle che vengono accreditate al FSLN.

Ma questa distanza è il risultato di due progetti alternativi tra loro che hanno avuto modo di dispiegarsi lungamente nel Paese. Sedici anni di governo liberale hanno stremato il Paese, portandolo al triste record di paese più povero dell’emisfero, mentre i successivi dieci anni di governo sandinista lo hanno resuscitato, portandolo al primo posto per crescita sostenibile.

Il Nicaragua scommette sul consolidamento del suo progetto politico riformatore, sul suo cammino di ammodernamento, pacificazione e progresso socioeconomico, così come sulla spinta ad una maggiore unità e stabilità regionale.

Toccherà al Senato USA e alla Casa Bianca dimostrare che tutto è possibile nelle relazioni con Managua ma non una riedizione dell’ingerenza indebita nei suoi affari interni. Una nuova politica aggressiva statunitense verso il Nicaragua non sarebbe semplice da spiegare, né agli investitori statunitensi né in sede internazionale.

L'auspicio è che il Nica Act resti solo un incidente di percorso promosso dall'ultra destra. Un remake degli anni ‘80 risulterebbe ridicolo prima ancora che ingiusto. Una minaccia alla stabilità economica del Nicaragua risulterebbe miope per gli stessi interessi di Washington.

Il Nicaragua sandinista è l’unico autentico muro a difesa della penetrazione del narcotraffico e delle maras tra Centro e Nord America, entrambi flagelli per gli USA. Limitare le risorse di Managua risulterebbe quindi inopportuno per la stessa sicurezza statunitense. Questo si rivelerebbe il Nica Act: un boomerang che partirebbe come un errore per poi tornare indietro come controproducente.




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