Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

Il margine di vittoria minimo registrato dal “sì” nel referendum costituzionale in Turchia di domenica scorsa ha rappresentato con ogni probabilità una certa delusione per il presidente Erdogan, al quale, in ogni caso, è stata consegnata la possibilità di trasformare la democrazia parlamentare del suo paese in un sistema dai connotati marcatamente autoritari.

Se Erdogan ha comunque incassato un successo che riteneva fondamentale per le sue ambizioni e il suo progetto politico, nondimeno il 51,4% dei favorevoli alla proposta di stravolgimento della costituzione avanzata dal suo partito (AKP) conferma la realtà di una Turchia profondamente divisa, principalmente proprio a causa del suo presidente.

Come avevano confermato le numerose proteste popolari contro il governo di Erdogan e dei suoi primi ministri a partire da quelle del 2013, esplose attorno a un controverso progetto edilizio a Istanbul, soprattutto nelle aree urbane turche continua a essere forte il malcontento nei confronti dell’AKP. Il sostegno al referendum costituzionale è arrivato infatti dalle aree rurali e più conservatrici della Turchia. Le principali metropoli – Istanbul, Ankara, Izmir – hanno visto invece prevalere il “no”, talvolta nettamente, così come in alcune città industriali, a cominciare da Bursa.

Subito dopo la diffusione dei primi dati, i principali partiti di opposizione, come il kemalista CHP e l’HDP curdo, hanno denunciato brogli diffusi che avrebbero influito in maniera decisiva sull’esito del voto. L’Alta Commissione Elettorale ha ad esempio ammesso che molte schede sono state distribuite ai votanti nonostante fossero sprovviste del timbro ufficiale della stessa commissione, previsto dalla legge turca. Queste schede, per l’Alta Commissione, sono però da considerarsi valide, a meno che non venga provata l’esistenza di una qualche frode elettorale.

Gli osservatori internazionali dell’OSCE, da parte loro, pur non riscontrando episodi particolarmente gravi nella giornata di domenica, hanno evidenziato come il voto non abbia rispettato gli “standard internazionali”. Soprattutto, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa ha evidenziato come il referendum si sia svolto “in un clima politico nel quale le libertà fondamentali ed essenziali di un processo autenticamente democratico sono risultate ridotte”.

Inoltre, le due parti – i sostenitori del “sì” e quelli del “no” – “non hanno avuto le stesse opportunità di far sentire le proprie ragioni agli elettori”. La drastica limitazione degli spazi concessi dal governo agli oppositori delle modifiche costituzionali ha probabilmente influito in maniera decisiva sull’esito del voto. Erdogan stesso ha fatto campagna elettorale attiva per il “sì” al referendum, giungendo spesso a bollare come poco meno di “traditori” o “terroristi” i contrari al suo progetto autoritario.

Fino a poche settimane prima dell’appuntamento con le urne, svariati sondaggi indicavano come fosse il “no” ad avere un leggero margine di vantaggio, ma alla vigilia del voto gli equilibri sembravano essersi consolidati a favore di Erdogan.

Oltre che a questi metodi e a possibili brogli, il presidente turco, il quale può comunque contare su un ampio consenso in Turchia, si è assicurato la maggioranza dei votanti anche in un altro modo. A fare spostare verso il “sì” un certo numero di elettori, verosimilmente tra quelli gravitanti attorno all’AKP, è stata anche la strategia di Erdogan di presentare il suo governo e l’intero paese come vittime delle manovre delle potenze occidentali.

Importanti consensi il fronte del “sì” li ha certamente guadagnati dopo gli scontri diplomatici di qualche settimana fa con paesi come Olanda, Germania o Austria a causa delle decisioni dei governi di questi ultimi di impedire a politici turchi di fare campagna elettorale per il referendum entro i loro confini.

Erdogan ha sfruttato abilmente queste iniziative oggettivamente anti-democratiche, collegandole tra l’altro alle accuse che dalla scorsa estate rivolge all’Occidente di essersi immischiato nelle vicende interne turche con il fallito golpe che lo aveva quasi rimosso dal potere.

Nel suo primo discorso dopo la chiusura delle urne, Erdogan ha ad ogni modo assunto i consueti toni aggressivi, prospettando una rapida evoluzione verso l’autoritarismo in Turchia. Inquietante è stata ad esempio la promessa di tenere un prossimo referendum sulla reintroduzione della pena di morte, abolita nel 2004. Un passo in questo senso metterebbe fine ai già moribondi negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

Dopo il successo del “sì”, che dovrebbe essere ratificato ufficialmente tra pochi giorni, si metterà in moto un processo parlamentare che introdurrà entro un anno le modifiche alla costituzione volute da Erdogan.

Tra di esse spicca l’abolizione della carica di primo ministro con il trasferimento del potere esecutivo al presidente. Quest’ultimo avrà facoltà di nominare i ministri, ma anche la maggioranza dei membri della versione turca del CSM. Infine, il presidente potrà dichiarare lo stato di emergenza e sciogliere il Parlamento, il quale diventerà di fatto una sorta di organo di ratifica dell’esecutivo. Le modifiche entreranno in vigore con le elezioni del 2019 e il presidente resterà in carica cinque anni e per un massimo di due mandati, così che Erdogan potrà continuare a guidare la Turchia fino al 2029.

L’esito del referendum è stato accolto da reazioni differenti a livello internazionale. Se le monarchie assolute del Golfo persico o il vicino Azerbaigian si sono complimentati con Erdogan per il successo, evidenti sono state le critiche dell’Occidente. Qui, i governi di vari paesi e i vertici UE hanno anche sottolineato come il margine di vantaggio del “sì” sia stato ridotto e hanno invitato perciò Erdogan a cercare il più ampio consenso possibile nell’implementare i cambiamenti alla costituzione.

Alcuni commenti sui media europei prima e dopo il voto, pur riconoscendo lo scivolamento della Turchia in una quasi-dittatura, hanno però anche rilevato come una sconfitta di Erdogan avrebbe complicato la sua permanenza al potere e messo a rischio la tenuta stessa della Turchia. Grazie al successo, al contrario, il presidente turco avrà la possibilità di stabilizzare il paese con amplissimi poteri conferitigli da un processo “democratico”.

Le preoccupazioni occidentali per la situazione in Turchia, in definitiva, non sembrano essere tanto per la deriva autoritaria che si prospetta, quanto per gli orientamenti strategici di un presidente spesso imprevedibile. Se Erdogan, cioè, dovesse operare una nuova svolta e tornare ad allinearsi agli interessi europei e americani, soprattutto in Siria e nell’intera regione mediorientale, gli scrupoli “democratici” prodotti dal referendum costituzionale finiranno probabilmente col dissolversi in fretta.

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