Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Mario Lombardo

La scadenza del primo obbligo di notifica al Congresso americano da parte dell’amministrazione Trump circa lo stato dell’accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 (JCPOA) ha fornito in questi giorni al nuovo governo USA l’occasione di rilanciare la campagna di pressioni e minacce nei confronti della Repubblica Islamica, con il rischio di aprire un nuovo pericolosissimo fronte di crisi in Medio Oriente.

La Casa Bianca e il dipartimento di Stato hanno mostrato una logica del tutto particolare nel presentare le proprie posizioni sull’Iran. Da un lato, non è stato possibile fare altrimenti che ratificare il pieno rispetto di Teheran dei termini del JCPOA, poiché finora non vi è ombra di una qualche violazione, a conferma che l’intesa siglata a Vienna quasi due anni fa sta fugando ogni dubbio sul programma nucleare iraniano.

Dall’altro, però, l’amministrazione Trump ha attaccato l’accordo stesso, con il segretario di Stato, Rex Tillerson, che lo ha addirittura bollato come un “fallimento”. Il JCPOA è infatti sottoposto a un processo di “revisione” presso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale americano, le cui conclusioni dovranno stabilire se Washington continuerà a tenere in sospeso le sanzioni economiche e finanziarie applicate all’Iran, come previsto dall’intesa.

Anche per il governo USA, dunque, Teheran sta riducendo le proprie centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e garantendo agli ispettori internazionali l’accesso alle proprie infrastrutture nucleari. Ciononostante, per gli USA, il JCPOA avrebbe i giorni contati, visto che esso può soltanto “ritardare” il momento in cui l’Iran diventerà uno stato dotato di armi nucleari.

Questa posizione conferma in definitiva come l’obiettivo dell’amministrazione Trump non sia di fermare pacificamente e con l’accordo della comunità internazionale un programma nucleare dalle possibili implicazioni militari, peraltro mai dimostrate se non da dubbi “rapporti” delle agenzie di intelligence occidentali e israeliane, ma di continuare a prendere di mira l’Iran per ragioni esclusivamente strategiche.

Essendo questa la motivazione del governo USA, è anche evidente come vi sia poco o nulla che l’Iran può fare, a parte allinearsi interamente agli interessi americani in Medio Oriente, per evitare l’ostilità di Washington.

L’altro aspetto assurdo della presa di posizione americana di questi giorni è poi l’accusa, rivolta alla Repubblica Islamica dallo stesso Tillerson, di continuare a essere “il principale sponsor del terrorismo” e il primo fattore di destabilizzazione degli equilibri del Medio Oriente e non solo. Proprio per questo presunto ruolo di Teheran, gli Stati Uniti potrebbero finire col ritirarsi dall’accordo sul nucleare e ripristinare le sanzioni punitive che avevano messo in ginocchio l’economia iraniana.

L’accusa americana all’Iran di appoggiare il terrorismo e seminare il caos nella regione è difficilmente misurabile in termini di ipocrisia. Le parole del segretario di Stato USA, infatti, sono giunte proprio quando il rischio di una conflagrazione nucleare non è mai stato così alto da almeno un quarto di secolo a questa parte e precisamente a causa del comportamento dell’amministrazione Trump.

A partire dal suo insediamento alla Casa Bianca, il nuovo presidente è intervenuto drammaticamente negli scenari di crisi ereditati dal suo predecessore, facendo aumentare sensibilmente le probabilità di una o più guerre su vasta scala dopo il bombardamento di una base militare siriana e l’escalation di minacce contro la Corea del Nord.

Per quanto riguarda la destabilizzazione del Medio Oriente, gli Stati Uniti continuano anche a garantire il loro totale appoggio all’aggressione saudita dello Yemen. Proprio mentre Tillerson attaccava verbalmente l’Iran, il numero uno del Pentagono, generale James Mattis, stava incontrando a Riyadh il sovrano saudita e i suoi due eredi al trono per rassicurarli dell’assistenza americana nel far fronte alla presunta minaccia rappresentata dalla Repubblica Islamica, accusata di interferire nelle vicende yemenite.

In modo da piegare la resistenza dei ribelli sciiti Houthi in Yemen, Mattis ha di fatto avallato i piani dell’Arabia Saudita per la città portuale di Al Hudaydah. Un’operazione militare in questa località aggraverebbe notevolmente la catastrofe umanitaria nel paese arabo, visto che proprio qui giunge la gran parte delle forniture di cibo destinate a una popolazione ormai allo stremo.

In Arabia, il segretario alla Difesa americano ha ribadito che l’appoggio dell’Iran agli Houthi è la causa della destabilizzazione dello Yemen, anche se la guerra sanguinosa condotta da Riyadh e dagli alleati del Golfo Persico con l’assistenza USA ha causato finora più di diecimila morti e almeno tre milioni di profughi.

In ogni caso, l’eventuale passo indietro del governo americano sull’accordo per il nucleare di Vienna, oltre a riaccendere a tutti gli effetti la crisi iraniana, assesterebbe anche un nuovo grave colpo allo stato già precario delle relazioni internazionali, incluse quelle tra gli alleati dell’emisfero occidentale.

Il JCPOA è tuttora sostenuto più o meno fermamente dai governi europei, a cominciare da quelli dei paesi che fanno parte del gruppo dei P5+1 (Francia, Regno Unito, Germania) protagonista delle trattative a Vienna, in primo luogo perché le promesse di nuove opportunità di business in Iran si sono già in parte concretizzate, così come hanno mosso i primi passi i progetti di collaborazione in ambito energetico.

Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, in una conferenza stampa nella giornata di mercoledì ha riconosciuto i rischi di un’azione unilaterale americana per far naufragare l’intesa. Allo stesso tempo, pur senza anticipare possibili mosse, ha però confermato l’intenzione di Washington di rivedere le proprie posizioni sull’Iran.

Gli sviluppi di questi giorni non sono d’altra parte imprevisti. Già in campagna elettorale Trump si era scagliato contro Teheran e il JCPOA. A febbraio, poi, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, generale Michael Flynn, in un discorso pubblico aveva minacciosamente messo l’Iran “sull’avviso” in seguito a un test missilistico condotto poco prima in maniera legittima.

Da allora, le minacce si sono moltiplicate, assieme alle iniziative del Congresso di Washington per adottare nuove sanzioni. Alla luce comunque della compattezza della posizione degli alleati degli USA che hanno sottoscritto l’accordo di Vienna e di quelli che ne stanno traendo beneficio, in molti ritengono che Trump finirà per rispettare, almeno per ora, il JCPOA.

Una prova delle intenzioni della Casa Bianca si avrà già nel mese di maggio, praticamente in concomitanza con le elezioni presidenziali in Iran, e poi ancora a giugno, quando dovrà essere deciso il prolungamento della sospensione di alcune sanzioni che gravavano sulla Repubblica Islamica.

Se, come prevede la maggior parte degli osservatori, Trump dovesse mantenere il suo governo nel quadro del JCPOA, il pressing su Teheran potrebbe proseguire al di fuori di esso. Gli USA, cioè, intenderebbero rispettare formalmente i termini dell’accordo sul nucleare ma potrebbero tenere alta la pressione sull’Iran continuando a sollevare le consuete finte questioni che servono a promuovere gli interessi americani all’estero, come il mancato rispetto dei diritti umani o l’appoggio al terrorismo.

Evidentemente, questa tattica rischia di innescare uno scontro che, di riflesso, finirebbe comunque per mettere a rischio il JCPOA. Anzi, a ben vedere ciò è quanto il governo americano sembra voler provocare, spingendo l’Iran a defilarsi dall’accordo di Vienna in risposta alle pressioni USA su questioni che esulano apparentemente da quella del programma nucleare.

Un’evoluzione di questo genere riporterebbe la crisi iraniana indietro di un paio d’anni, fornendo agli Stati Uniti la giustificazione per colpire anche militarmente la Repubblica Islamica, le cui vere colpe, agli occhi di Washington, hanno poco a che vedere col nucleare o col terrorismo, quanto piuttosto con l’appoggio al regime di Assad in Siria e, più in generale, con l’appartenenza a un asse di “resistenza” che ostacola il dispiegarsi degli interessi strategici americani in Medio Oriente e in Asia centrale.

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