Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Mario Lombardo

La decisione del governo americano di chiudere entro i prossimi mesi il programma clandestino della CIA di addestramento e fornitura di armi ai “ribelli” anti-Assad è un altro segnale del parziale cambiamento di rotta dell’amministrazione Trump sul conflitto in Siria. Lo stop al piano lanciato da Obama nel 2013 giunge infatti in parallelo alla tregua concordata con la Russia lungo il confine meridionale con la Giordania, anche se quasi certamente non determinerà un significativo disimpegno americano dal paese mediorientale in guerra.

A riportare la notizia della decisione della Casa Bianca è stato per primo e con una certa insofferenza uno dei giornali maggiormente impegnati nella campagna contro Trump per i suoi presunti legami con Mosca, il Washington Post. Trump si sarebbe convinto a cancellare il programma della CIA quasi un mese fa, in seguito a una riunione con il direttore dell’agenzia di Langley, Mike Pompeo, e con il consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster.

La consultazione era avvenuta poco prima del faccia a faccia di Trump con Putin del 7 luglio scorso durante il G20 di Amburgo, al termine del quale sarebbe stata appunto annunciata l’entrata in vigore di un cessate il fuoco nella Siria sud-occidentale.

Per il governo USA, le due iniziative non sono comunque collegate, né la fine delle operazioni gestite dalla CIA a favore dei “ribelli” in Siria sarebbe stata chiesta dal Cremlino come condizione per il raggiungimento di un accordo. Se ciò è effettivamente possibile, vi sono tuttavia pochi dubbi sul fatto che la recente decisione di Trump da un lato favorisca quanto meno il regime di Damasco e, dall’altro, si inserisca nel quadro della nascente collaborazione tra Mosca e Washington sulla crisi siriana.

A ben vedere, la mossa di Trump è anche una presa d’atto dell’inefficacia di un programma dispendioso che avrebbe dovuto servire fin dall’inizio a mettere in pratica i propositi di cambio di regime in Siria di una parte dell’apparato militare e dell’intelligence americano, sia pure dietro l’apparenza della guerra al terrorismo.

Le armi destinate a gruppi di opposizione considerati come “moderati” erano in realtà finite spesso nelle mani delle formazioni jihadiste. L’addestramento, invece, non ha mai nemmeno lontanamente prodotto le migliaia di combattenti ben selezionati che erano previste inizialmente. Al contrario, per stessa ammissione di molti nel governo e tra i vertici militari USA, gli uomini pronti alla battaglia usciti dal programma della CIA erano stati al massimo poche decine.

Tra i “falchi” dell’interventismo in Siria ci saranno in ogni caso reazioni molto negative alla decisione di Trump, soprattutto perché essa non può che apparire come un favore fatto a Vladimir Putin.

In effetti, ciò che segnala il provvedimento preso questa settimana dalla Casa Bianca è probabilmente la rinuncia, almeno per il momento, a perseguire i sogni di cambio di regime in Siria, non tanto per scrupoli o ripensamenti dopo oltre sei anni di guerra e un paese letteralmente distrutto, quanto per l’impossibilità materiale di realizzare questo obiettivo dopo l’intervento militare di Mosca.

I piani dell’amministrazione Trump per la Siria non sono ad ogni modo pacifici, bensì rivolti a trarre il massimo risultato possibile alla luce della realtà sul campo. Gli sviluppi degli ultimi mesi indicano cioè un ripiegamento su una soluzione che porti a una sorta di balcanizzazione della Siria.

Se questo progetto lascerebbe Assad al suo posto sotto la protezione di Russia e Iran, nondimeno creerebbe in Siria uno spazio occupato dagli Stati Uniti e dalle forze loro alleate, come le milizie curde nel nord del paese, e impedirebbe la ricostituzione di uno stato unitario sotto l’influenza di potenze ostili a Washington.

Com’è evidente, questa strada può essere percorsa oggi in Siria solo attraverso la collaborazione con Mosca. Trump, infatti, ha già fatto sapere che è allo studio la possibilità di estendere la tregua concordata con Putin ad Amburgo ad altre aree della Siria.

Le incognite tutt’altro che trascurabili per la Casa Bianca sono però molteplici. In primo luogo, non ci sono indicazioni che la Turchia e le monarchie sunnite del Golfo Persico abbiano intenzione di interrompere a loro volta il sostegno ai vari gruppi fondamentalisti che combattono il regime di Damasco, anche se almeno il Qatar sembra essersi deciso in questo senso.

Inoltre, le forze contrarie a qualsiasi accomodamento con Mosca all’interno del governo, delle forze armate e dell’intelligence degli Stati Uniti potrebbero muoversi per far saltare l’intesa sul cessate il fuoco in Siria, come è già accaduto nel recente passato.

Da non trascurare è infine anche la variabile israeliana. Il premier Netanyahu, come ha scritto mercoledì la testata on-line Al-Monitor, avrebbe già “messo Trump sull’avviso”, manifestando la propria contrarietà alla tregua in vigore e l’intenzione di agire militarmente se l’accordo dovesse portare a una presenza permanente in Siria di Iran e Hezbollah.

L’impegno americano in Siria proseguirà comunque attraverso la campagna di bombardamenti contro le rimanenti postazioni dello Stato Islamico (ISIS), le attività delle centinaia di uomini delle forze speciali presenti nel paese, il mantenimento di un numero imprecisato di basi militari e l’appoggio alle milizie curde nell’ambito delle cosiddette “Forze Democratiche Siriane”.

Non solo, lo sforzo americano per finanziare, armare e addestrare gruppi “ribelli” siriani non verrà meno del tutto. La decisione presa questa settimana da Trump non toccherà un altro programma simile a quello della CIA, ma al contrario di quest’ultimo riconosciuto ufficialmente e condotto dal dipartimento della Difesa.

Tutti questi fronti che continueranno ad assicurare il coinvolgimento diretto degli USA in Siria dovrebbero consentire al governo di Washington sia di trattare condizioni favorevoli nel quadro di un accordo con Mosca sia di riattivare le operazioni volte al cambio di regime nel caso gli scenari attuali dovessero mutare.

Gli sviluppi di questi ultimi giorni della crisi siriana ratificano infine una tendenza in atto praticamente fin dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Gli Stati Uniti, cioè, sembrano intenzionati a concentrare il proprio impegno in Siria sulle forze curde, sganciandosi invece dai gruppi sunniti, tra i quali hanno peraltro sempre prevalso elementi fondamentalisti.

Questa strategia rischia però di complicare ulteriormente il quadro in Siria, mettendo a rischio anche la precaria stabilità che potrebbe realizzare un eventuale allargamento del cessate il fuoco nel paese. Il ruolo centrale delle milizie curde nel conflitto sta infatti sempre più allarmando la Turchia, il cui governo, già impegnato direttamente oltre il confine meridionale, continua a mostrare nei confronti di Washington segnali di impazienza che potrebbero facilmente degenerare.

Anzi, lo scontro tra i due alleati NATO ha fatto segnare un netto aggravamento proprio nei giorni scorsi, quando gli Stati Uniti hanno protestato fermamente con Ankara dopo che l’agenzia di stampa governativa turca, Anadolu, ha deciso di pubblicare informazioni dettagliate sulla posizione delle basi militari americane nella Siria settentrionale.

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