Georgia, sfida alle “interferenze”

di Mario Lombardo

La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva...
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Il nostro debito verso i russi

di Fabio Marcelli

Enorme è il debito di riconoscenza che abbiamo nei confronti del popolo russo, che lasciò decine di milioni di vittime nella lotta vincente al nazifascismo e senza questo enorme sacrificio di sangue probabilmente oggi staremmo tutte e tutti sotto il tallone di ferro del nazismo hitleriano. Per questo è stato importante ricordare e celebrare il 9 maggio, giorno della vittoria, come ha fatto in modo esemplare Moni Ovadia, portando il suo contributo artistico all’ambasciata russa nell’anniversario di quel giorno fatidico. Oggi il modo migliore che abbiamo di ricordare i caduti sovietici è insistere per un’immediata soluzione pacifica del conflitto ucraino, che sappia tener conto degli interessi di sicurezza della Russia e delle...
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di Michele Paris

Il tradizionale appuntamento del Supermartedì nelle elezioni primarie per le presidenziali negli Stati Uniti ha dato probabilmente l’impronta decisiva alle competizioni per la nomination di entrambi i principali partiti. Se però in casa Democratica il consolidamento della leadership di Hillary Clinton ha confortato i vertici e i ricchi sostenitori del partito, il quasi trionfo di Donald Trump ha fatto salire esponenzialmente le ansie dell’establishment Repubblicano, ormai a corto di opzioni per provare a fermare la corsa di un candidato che appare sempre meno presentabile agli elettori in vista del voto di novembre.

L’aspetto forse più preoccupante, anche se non nuovo, per l’ampio fronte anti-Trump all’interno del Partito Repubblicano è stato il risultato convincente ottenuto dal miliardario newyorchese nella maggior parte degli stati che hanno votato martedì dopo una settimana segnata da pesanti attacchi nei suoi confronti e dalle nuove controversie in cui si è trovato coinvolto.

Trump ha vinto ben sette delle undici competizioni in calendario martedì, facendo registrare successi in stati molto diversi tra loro per composizione demografica e orientamenti dell’elettorato. Trump ha cioè prevalso, spesso in maniera netta, in stati del sud come Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee e Virginia, ma anche in due stati del nord-est, dove la sensibilità degli elettori è considerata quasi opposta a quella prevalente in questi ultimi, come Massachusetts e Vermont.

Il numero di delegati conquistati martedì resta ben lontano da quello necessario a garantirsi la nomination Repubblicana ma il vantaggio di Trump sui suoi rivali comincia a essere importante. Non solo, man mano che la competizione avanzerà, sarà sempre più difficile chiudere il divario, soprattutto perché nelle prossime settimane voteranno alcuni grandi stati dove la quota di delegati in palio sarà assegnata con il metodo maggioritario e, quindi, interamente al primo classificato.

Assieme al passo avanti forse decisivo di Trump, l’altro dato più importante della serata è stato il flop del candidato che avrebbe dovuto emergere come l’alternativa più valida dell’establishment e dei finanziatori Repubblicani, il senatore della Florida Marco Rubio. Il 44enne cubano-americano ha vinto soltanto in Minnesota, il terzo stato più piccolo in termini di delegati al voto martedì, mentre è andato molto vicino a Trump in Virginia, dove è stato oggettivamente penalizzato dalla permanenza di altri candidati alla nomination sulle schede elettorali. La maggiore speranza dei Repubblicani che rappresentano gli organi del partito può dunque vantare un bilancio misero a questo punto della corsa, avendo vinto soltanto in uno dei 14 stati che hanno votato finora.

Il fallimento di Marco Rubio, il quale aveva duramente attaccato Trump nei giorni precedenti il Supermartedì, è in parte il risultato del voto diviso tra i Repubblicani, dove restano in corsa cinque candidati. Soprattutto, però, i magri risultati raccolti nonostante il sostegno del partito e dei finanziatori sono dovuti al fatto che Rubio è politicamente poco più di una nullità e deve la sua carriera politica a una manciata di miliardari che lo appoggiano in cambio dei suoi servizi.

Anche l’illusione di poter recuperare su Trump potrebbe crollare definitivamente per Rubio il prossimo 15 marzo nel caso dovesse perdere il suo stato, la Florida, dove peraltro i sondaggi lo danno in ritardo rispetto al rivale. Nel suo stato non ha invece fallito l’altro senatore cubano-americano in corsa per la nomination, Ted Cruz. In Texas, Cruz ha staccato nettamente Trump e Rubio e si è imposto anche in Alaska e Oklahoma.

Il senatore di estrema destra ha chiesto ai suoi rivali - il governatore dell’Ohio, John Kasich, il neuro-chirurgo di colore in pensione, Ben Carson, e appunto Rubio - di abbandonare la corsa in modo da favorire la formazione di un fronte compatto contro Trump. Questa prospettiva è però improbabile al momento, visto che Rubio sembra godere ancora dell’appoggio di un Partito che, allo stesso tempo, vede lo stesso Cruz con estremo sospetto. Solo Carson si è mosso per ora in questo senso, anticipando mercoledì l’imminente ritiro dalla competizione.

Il tempo per mettere assieme una strategia efficace per contrastare l’avanzata di Trump da parte dei vertici del Partito Repubblicano è comunque poco, se non già esaurito. L’imprenditore e showman continua a infiammare una parte dell’elettorato Repubblicano, di dimensioni relativamente ridotte se proiettata su scala nazionale ma significativa se rapportata all’affluenza registrata nelle primarie, con una retorica populista e anti-sistema che fa leva sugli impulsi più retrogradi e che trova terreno fertile in una realtà politica e sociale segnata da oltre un decennio di inesorabile spostamento a destra del baricentro politico americano.

Estremamente significativi della natura del candidato Trump sono due episodi che hanno caratterizzato la vigilia del Supermartedì. Nel corso di un comizio, un agente del Servizio Segreto, che assicura la sicurezza di Trump e degli altri candidati alla Casa Bianca, ha aggredito un noto fotoreporter mentre era in corso una manifestazione di protesta contro il favorito Repubblicano, il quale a sua volta ha mostrato di gradire l’episodio. Trump, inoltre, era finito al centro di nuove polemiche per non avere respinto esplicitamente l’appoggio espressogli dall’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke, e da alcuni gruppi che promuovono il suprematismo bianco.

Al di là delle dichiarazioni di molti che tra i Repubblicani sostengono di essere intenzionati a voltare le spalle a Trump nel caso fosse lui a conquistare la nomination, è probabile che le divisioni verranno in gran parte sanate nei prossimi mesi e il partito finirà per assicurargli il proprio appoggio. Le ipotesi di una convention spaccata o di una coalizione anti-Trump che impedisca al “frontrunner” di ottenere la maggioranza dei delegati che si riuniranno a Cleveland a luglio si dissolveranno verosimilmente nei prossimi mesi.

Alcune indicazioni del fatto che almeno una parte dei membri del partito abbia accettato o sia disposta ad accettare la vittoria di Trump sono già emerse, come ad esempio il sostegno ufficiale dichiarato per quest’ultimo da personalità Repubblicane di spicco, come il governatore del New Jersey e fino a qualche settimana fa candidato alla Casa Bianca, Chris Christie, e il senatore dell’Alabama, Jeff Sessions, beniamino dell’ala conservatrice.

Le prese di posizione in odore di fascismo di Trump non sono d’altronde troppo lontane da quelle che contraddistinguono i “moderati” o i “conservatori” del Partito Repubblicano. La differenza, tutt’al più, consiste nelle modalità con cui esse vengono espresse o nel fatto stesso che vengano espresse pubblicamente. Trump, da parte sua, una volta incassata la nomination, attenuerà in qualche modo i toni, così da rassicurare i vertici del suo partito, per poi scegliere magari come candidato alla vice-presidenza una figura a loro gradita.

Anche tra i Democratici il destino della competizione sembra essere quasi segnato dopo il Supermartedì, anche se il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha confermato la serietà della sua candidatura e l’incisività di un messaggio politico basato sulla lotta alle disuguaglianze sociali e di reddito dilaganti negli Stati Uniti.

Hillary Clinton ha comunque conquistato tutti gli stati in cui era largamente favorita (Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas e Virginia), più il Massachusetts, dove è stato decisivo un margine di appena 20 mila voti. Davanti a un fronte compatto favorevole all’ex segretario di Stato, fatto di leader Democratici, media e ricchi finanziatori, Sanders ha fatto suoi Colorado, Minnesota, Oklahoma e Vermont.

Gli equilibri attuali e la storia delle primarie Democratiche suggeriscono che i margini per recuperare su Hillary sono molto ristretti, anche se il team di Sanders si è detto fiducioso sia per le risorse finanziarie a disposizione sia per un calendario che potrebbe essere più favorevole nelle prossime settimane, quando voteranno, tra gli altri, alcuni stati industriali del Midwest.

La Clinton ha saputo mettere a frutto il vantaggio scaturito dal presunto legame tra la sua famiglia e l’elettorato di colore e ispanico che costituisce una fetta importante dei votanti Democratici nelle primarie negli stati del sud. La sua candidatura continua però a mostrare segnali di evidente debolezza, peraltro inevitabile visto il discredito di una famiglia che ha costruito fortune politiche e ricchezze al servizio di Wall Street e dell’imperialismo americano. Soprattutto tra gli elettori più giovani, i bianchi e i redditi più bassi, Hillary ha ceduto quasi sempre il passo a Sanders in queste primarie, mostrando difficoltà che potrebbero rendere meno facile del previsto un’eventuale sfida contro Trump nel mese di novembre.

Nonostante i dubbi e i risultati molto meno entusiasmanti di quanto i suoi sostenitori si attendevano solo pochi mesi fa, la candidatura di Hillary Clinton sembra essere sul punto di diventare inevitabile, come conferma il fatto che il suo vantaggio in termini di delegati è oggi maggiore rispetto a quello di Obama nel 2008 allo stesso punto della competizione.

Il probabile fallimento di Bernie Sanders, anche se molto relativo viste le condizioni da cui partiva, è dovuto invece anche alla portata decisamente troppo ridotta della “rivoluzione” da lui auspicata, in primo luogo perché promossa all’interno di un partito, come quello Democratico, che è uno dei due principali strumenti della conservazione di un sistema che opera a favore di una piccolissima percentuale della popolazione americana.

Se le sue apparizioni pubbliche hanno spesso registrato la presenza di un numero record di sostenitori, l’entusiasmo non si è tradotto in un movimento sufficiente - se non in alcuni stati – a travolgere la sua rivale, simbolo stesso della deriva reazionaria del Partito Democratico e della sclerotizzazione del sistema politico USA.

Sanders, in definitiva, essendo sostanzialmente egli stesso un affidabile esponente della classe dirigente d’oltreoceano, è mancato nell’obiettivo più importante e allo stesso tempo più complicato, alla luce delle premesse della sua campagna elettorale, vale a dire nel mobilitare quella parte (maggioritaria) di potenziali elettori più colpiti dalle contraddizioni della società americana e che, non votando, continuano a esprimere indifferenza e disprezzo verso un sistema che, a loro, non ha nulla da offrire.

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