Un nuovo attacco ucraino contro il ponte di Crimea nelle prime ore di lunedì è tornato a danneggiare l’opera che più di ogni altra simboleggia il controllo russo sulla penisola annessa da Mosca con l’appoggio della stragrande maggioranza dei suoi abitanti all’indomani del golpe neonazista del 2014. Secondo le autorità russe, a colpire sono stati due droni acquatici che, oltre a danneggiare una sezione della linea stradale, hanno causato la morte di due civili e il ferimento di una ragazzina. L’iniziativa conferma come il regime ucraino continui a prendere di mira deliberatamente edifici e infrastrutture civili ed è perciò un ulteriore segnale della disperazione che regna a Kiev e tra i governi occidentali, la cui assistenza è stata con ogni probabilità decisiva per portare a termine l’operazione di lunedì in Crimea.

 

L’ufficio del governatore della Repubblica di Crimea aveva inizialmente annunciato solo lo stop del traffico tra la penisola e il resto del territorio della Russia a causa di una non meglio identificata “emergenza”. In seguito è stato il governatore della regione di Belgorod a dare la notizia del decesso di una coppia e il ferimento della loro figlia mentre stavano viaggiando sul ponte al momento dell’esplosione.

L’attacco è stato subito attribuito da Mosca al regime di Zelensky e svariati media ucraini hanno parlato di una “operazione speciale” condotta dai servizi di sicurezza (SBU) e dalle forze navali del paese. Da Kiev non è arrivata l’assunzione ufficiale di responsabilità, ma alcuni esponenti del governo hanno scritto post espliciti sui “social”. Il consigliere del presidente, Mikhail Podoliak, ha ad esempio spiegato che “qualsiasi struttura illegale” utilizzata dalla Russia per rifornire le proprie truppe è destinata “necessariamente ad avere vita breve”.

La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha invece accusato l’Ucraina di terrorismo, per poi sottolineare la “diretta partecipazione dei servizi di intelligence e dei politici britannici e americani”. Il Cremlino ha fatto invece sapere che i lavori di riparazione sono già stati autorizzati. I danni, come hanno evidenziato le immagini subito circolate, non sarebbero comunque particolarmente gravi e il traffico potrebbe riprendere in tempi brevi, come accadde dopo il primo attentato dello scorso ottobre.

L’unico risultato che l’attacco odierno contro il ponte di Crimea produrrà per il regime ucraino è probabilmente un’intensificazione della campagna aerea russa. Dal punto di vista tattico o, ancor meno, strategico non vi è infatti nulla da guadagnare per Zelensky. Resta perciò difficilmente spiegabile la ragione della partecipazione occidentale a operazioni di questo genere. Dopo l’esplosione dell’ottobre 2022, Mosca rispose con massicci bombardamenti contro obiettivi militari e infrastrutture energetiche dell’ex repubblica sovietica. Poco dopo l’ultimo attacco, in molti in Russia hanno invitato il Cremlino a chiudere del tutto l’accesso al Mar Nero all’Ucraina.

L’accordo del grano

Sempre lunedì, il governo russo ha annunciato che l’accordo per l’esportazione di cereali attraverso il Mar Nero non verrà rinnovato. L’accordo era stato siglato nell’estate dello scorso anno tra Mosca e Kiev con la mediazione della Turchia e delle Nazioni Unite. Inizialmente in scadenza a maggio, era stato prolungato fino appunto al 17 luglio. Secondo alcuni, il recente riavvicinamento di Erdogan alla NATO e agli Stati Uniti e lo stesso attacco di lunedì contro il ponte di Crimea avrebbero convinto il Cremlino a non impegnarsi per il rinnovo dell’accordo.

La sospensione era tuttavia nell’aria e le ragioni russe appaiono anche altre, sia pure quasi mai spiegate da stampa e governi occidentali. Il documento sottoscritto lo scorso anno prevedeva una serie di condizioni che, oltre a quelle relative alla parte ucraina, avrebbero dovuto beneficiare la Russia. Malgrado l’impegno, queste ultime non sono invece mai state implementate.

Battezzata ufficialmente “Iniziativa del Mar Nero”, l’intesa doveva sbloccare il trasporto tramite questa via d’acqua di prodotti alimentari e fertilizzanti russi. Questa parte dell’accordo non è stata appunto mai rispettata. Stessa sorte è toccata alla prevista riammissione della Banca Agricola russa nel sistema di pagamenti internazionali SWIFT e la cancellazione di alcune sanzioni.

L’accordo sul grano è stato inoltre fuorviante fin dall’inizio. La propaganda occidentale lo aveva presentato come un successo della comunità internazionale, di fronte alle resistenze russe, per garantire la fornitura di grano a paesi e popolazioni povere. Al contrario, la grandissima parte del grano ucraino esportato è finita a paesi più o meno “avanzati”. Tanto che, ad esempio, alcuni governi dell’Europa orientale avevano finito per sospendere unilateralmente le importazioni di questo prodotto in seguito alle proteste dei loro agricoltori, messi in ginocchio dall’afflusso enorme di grano ucraino a basso costo. Secondo i dati ONU, agli otto paesi meno sviluppati è andato poco meno del 7% del grano esportato dall’Ucraina grazie all’accordo. La sola Spagna ne ha importato invece il 19,4%.

I postumi di Vilnius

A una settimana dalla chiusura del vertice NATO nella capitale lituana, non si sono ancora spenti gli echi del trattamento riservato dai paesi del Patto Atlantico al presidente Zelensky. Il fallimento della “controffensiva” ucraina ha riportato alla realtà gli sponsor di Kiev, ma l’elaborazione a livello pubblico dell’umiliazione che deriverebbe da un’eventuale mossa per favorire la risoluzione pacifica della crisi sembra ancora molto lontana.

La sostanziale bocciatura delle richieste del regime ucraino in relazione alla possibile adesione alla NATO comporta in ogni caso un relativo arretramento da parte di Washington e Bruxelles. I timori di innescare uno scontro militare diretto con la Russia, magari con il ricorso ad armi nucleari, ha probabilmente convinto i paesi membri a frenare e, nella migliore delle ipotesi, a rimandare a un futuro lontano la questione dell’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza.

Sull’argomento è stato scritto molto nei giorni scorsi, ma meno analizzata sembra essere la questione delle conseguenze della débacle ucraina sul ruolo e la natura stessa della NATO a 74 anni dalla sua creazione. Le promesse di continuare ad appoggiare l’Ucraina nella guerra in corso, lo stanziamento di nuovi aiuti e l’invio di altre armi nascondono cioè un disagio crescente per il ridimensionamento drastico a cui rischia di andare incontro l’Alleanza, sotto la spinta di divisioni e spaccature interne di cui in questi mesi si è avuto solo un antipasto.

Tra le poche riflessioni in merito, apparse per lo più su media e piattaforme alternative, è utile citare quella dell’analista russo-americano Dmitry Orlov. Sul suo blog, quest’ultimo ha evidenziato come uno degli elementi centrali del conflitto russo-ucraino sia rappresentato dall’inefficacia degli equipaggiamenti militari trasferiti dai paesi NATO all’Ucraina. Orlov sostiene che la NATO non è un’organizzazione difensiva, visto che il nemico che intendeva contrastare – l’Unione Sovietica – non esiste più da 32 anni, ma non è nemmeno offensiva, se si escludono le imprese belliche che hanno preso di mira paesi deboli o indifesi.

Il confronto di questi mesi con la Russia si sta infatti dimostrando rovinoso per il Patto Atlantico e per quello che Orlov ritiene essere il suo obiettivo numero uno, ovvero l’apertura di sempre nuove opportunità di mercato per i produttori di armi americani e, in misura miniore, europei. I conflitti degli ultimi decenni che hanno vista coinvolta la NATO o i soli Stati Uniti sono stati in altre parole anche, se non soprattutto, vetrine per i prodotti di colossi come Raytheon o Lockheed Martin. Allo stesso tempo, le campagne di bombardamenti condotte dalla NATO e dagli USA hanno permesso il rinnovo dei depositi di armi e munizioni degli stessi paesi membri che hanno ugualmente gonfiato i profitti dei produttori.

Quest’ultima circostanza riguarda anche il conflitto in corso in Ucraina, ma la differenza fondamentale è che in questo teatro di guerra le armi americane e quelle realizzate in Europa sono risultate inefficaci o, addirittura, inutili se si considera la capacità di influenzare gli equilibri sul campo. Tutti gli equipaggiamenti lanciati come “decisivi” per sconfiggere la Russia sono diventati o diventeranno carcasse inutilizzabili o, ancora, sono finiti ad alimentare un lucroso mercato nero. In altre parole, la campagna di marketing del fronte ucraino sta avendo effetti disastrosi per le armi occidentali, mentre l’interesse globale di quelle russe ha raggiunto livelli senza precedenti.

Queste dinamiche non hanno solo risvolti economici, ma anche geo-strategici, che si possono osservare nel consolidamento di rapporti bilaterali e multilaterali tra la Russia e moltissimi paesi e organizzazioni sovranazionali a partire dall’inizio delle operazioni militari in Ucraina. Per frenare questa deriva, la NATO ha bisogno di una “exit strategy” urgente in Ucraina, ma la soluzione più logica, vale a dire quella diplomatica, comporterebbe da un lato la presa d’atto del fallimento della guerra e, dall’altro, la sostanziale accettazione delle condizioni dettate da Mosca.

Entrambe le cose avrebbero conseguenze potenzialmente devastanti sulla tenuta della NATO, così che, per il momento, la guerra si trascinerà ancora a lungo nonostante il tragico bilancio di perdite ucraine, col rischio sempre presente di un’ulteriore escalation o di scatenare eventi imprevisti in grado di far precipitare irrimediabilmente la situazione.

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