L’atto finale dell’occupazione americana dell’Afghanistan non poteva che essere segnato da un episodio di brutale violenza nel nome della “guerra al terrore”. Ciò è precisamente quanto accaduto alla fine di agosto con l’attacco mirato, condotto da un drone, contro quello che i vertici militari USA avevano assicurato essere un militante dello Stato Islamico-Khorasan (ISIS-K), l’organizzazione ritenuta responsabile dell’attentato di qualche giorno prima all’aeroporto di Kabul. L’operazione era stata in realtà una strage di civili, come si era subito sospettato, e a confermarlo è stata anche un’indagine giornalistica non di una testata alternativa, ma dello stesso New York Times, cioè uno dei media ufficiali più determinati nell’appoggiare la “guerra giusta” in questi due decenni.

 

La distanza tra la versione ufficiale del Pentagono e la tragica realtà non è mai stata così evidente come in questo crimine, portato a termine mentre gli occhi di tutto il mondo erano sugli Stati Uniti e l’evacuazione dall’Afghanistan stava per essere ultimata, sollecitando una valanga di bilanci della disastrosa esperienza partita dagli attacchi dell’11 settembre 2001.

Il capo di Stato Maggiore in persona, generale Mark Milley, aveva garantito che il raid del 29 agosto in un quartiere di Kabul era stato condotto nel rigoroso rispetto delle procedure teoricamente in grado di minimizzare possibili danni collaterali, ovvero vittime civili. Al contrario, ogni singola parte del processo decisionale e della fase operativa è stata caratterizzata dal completo disinteresse per la vita di persone innocenti, bambini inclusi.

Così, scrive eufemisticamente il New York Times, sono emersi “dubbi sulla presenza di esplosivo sull’auto [colpita dal drone americano], dubbi sui collegamenti tra il guidatore e l’ISIS-K, dubbi sulla seconda esplosione dopo il lancio del missile” USA. Il quadro più ampio testimonia del fallimento totale dell’intelligence, chiamata ad agire tempestivamente in risposta all’attentato contro l’aeroporto di Kabul.

I reporter del Times hanno avuto accesso a immagini filmate e hanno indagato sul luogo dei fatti, dove hanno potuto ricostruire l’operazione grazie alla testimonianza di parenti, colleghi e vicini di casa delle vittime. I militari americani hanno sempre ammesso di conoscere poco o nulla dell’obiettivo del bombardamento, l’ingegnere elettronico Zemari Ahmadi. Il sospetto che quest’ultimo fosse un terrorista, pronto a colpire nuovamente l’aeroporto, derivava da due elementi: una visita in auto presso un edificio presumibilmente utilizzato dall’ISIS-K e il trasporto di esplosivo nel veicolo.

Il fatto che questa miseria di elementi possa essere stata sufficiente ad autorizzare un assassinio mirato con un drone dipende dalle regole stabilite dagli Stati Uniti per questo genere di situazioni. Non disponendo appunto di informazioni sufficienti a identificare un bersaglio, per non parlare dell’esistenza di un qualche procedimento giudiziario che garantisca i più basilari diritti civili e democratici, l’intelligence USA si basa su determinate regole di comportamento che possono portare alla designazione di terrorista in pratica di qualunque maschio adulto di un paese come l’Afghanistan.

La giornata da “terrorista” di Zemari Ahmadi, che gli è costata la vita e quella di altri nove membri della sua famiglia, è stata dunque ricostruita dal New York Times, anche se le testimonianze raccolte a Kabul poco dopo i fatti avevano già delineato alcuni contorni molto sospetti circa la strage. Ahmadi, innanzitutto, non era un membro dell’ISIS-K, ma lavorava dal 2006 per una ONG americana (“Nutrition and Education International”) con sede in California. Ahmadi, di 43 anni, e il cugino 30enne Naser, già “contractor” delle forze armate USA, avevano inoltre entrambi fatto richiesta di asilo negli Stati Uniti per timore di ritorsioni dei Talebani a causa del loro lavoro con gli occupanti.

Il suo ultimo giorno di vita era iniziato con una telefonata ricevuta dal direttore per l’Afghanistan della ONG americana. Quest’ultimo gli aveva chiesto di passare dalla sua abitazione per prendere un computer portatile che aveva dimenticato. Ahmadi aveva poi raccolto due colleghi lungo la strada e una di queste fermate ha fatto scattare la sorveglianza USA della sua Toyota Corolla bianca del 1996.

Secondo le informazioni presumibilmente nelle mani degli americani, uno di questi luoghi visitati da Ahmadi prima di recarsi al lavoro era un edificio utilizzato dall’ISIS-K. L’abitazione del direttore di “Nutrition and Education International” corrispondeva invece al luogo da cui la stessa organizzazione terroristica minacciava di lanciare un nuovo attacco contro l’aeroporto di Kabul il giorno successivo. La casa del superiore di Ahmadi è stata visitata dai giornalisti del Times e i membri della sua famiglia, oltre ad aver negato qualsiasi legame con l’ISIS-K, hanno confermato di avere vissuto nell’edificio da 40 anni e di essere anch’essi in attesa di un riscontro alla loro richiesta di asilo negli Stati Uniti.

Le altre attività di Ahmadi si sono in seguito svolte normalmente e nel pomeriggio, come hanno mostrato le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza analizzate dai reporter del Times, aveva riempito alcuni contenitori di acqua potabile, per poi caricarli nel baule dell’auto e trasportarli a casa in modo da rimediare al blocco delle forniture nel suo quartiere all’indomani dell’ingresso dei Talebani a Kabul.

Questi contenitori sarebbero stati scambiati per esplosivo e, secondo Washington, avrebbero provocato la seconda più potente esplosione seguita all’impatto del missile lanciato con un drone. Una seconda esplosione non è invece mai avvenuta e ciò è emerso anche dall’indagine del Times sul luogo della strage. La rovinosa operazione americana si è conclusa pochi minuti prima delle 17, quando un missile Hellfire ha colpito l’auto di Ahmadi appena entrata nel cortile dell’abitazione che condivideva con le famiglie dei suoi tre fratelli.

L’esplosione è avvenuta mentre alcuni bambini stavano correndo incontro ad Ahmadi ed erano saliti sull’auto mentre la stava parcheggiando. I parenti rimasti dentro l’abitazione si sono precipitati nel cortile e hanno visto una scena raccapricciante. Il bilancio è stato di dieci morti, quasi tutti fatti a pezzi dall’esplosione. Oltre ad Ahmadi e al fratello Naser, hanno perso la vita otto dei figli delle quattro famiglie. Il più piccolo aveva due anni e il maggiore 20. Due bambine avevano solo tre anni, mentre i figli rimasti uccisi di un altro fratello sopravvissuto ne avevano rispettivamente 2, 6 e 7.

La sanguinosa operazione delle forze armate degli Stati Uniti, va ricordato, avrebbe dovuto vendicare un attentato che aveva fatto complessivamente 170 vittime all’aeroporto di Kabul. Anche in questo caso erano emersi dettagli inquietanti circa le responsabilità americane. La maggior parte dei morti non era stata infatti provocata dalla bomba dell’ISIS-K, ma dal fuoco sulla folla dei soldati a guardia dell’aeroporto che temevano la presenza di un altro o di altri terroristi sul luogo dell’esplosione.

La distruzione della famiglia di Zemari Ahmadi non è evidentemente un episodio isolato, ma solo l’ultimo di un lunghissimo elenco di atrocità commesse dalle forze di occupazione in Afghanistan sotto il comando americano. Solo le incursioni dei droni hanno causato innumerevoli vittime civili innocenti e i fatti sono stati quasi sempre insabbiati o, tutt’al più, oggetto di inutili indagini interne ordinate dal Pentagono.

L’ultima strage prima del ritiro dall’Afghanistan ha in qualche modo suggellato un’avventura bellica venduta come necessaria per vendicare l’11 settembre e per impedire che altri eventi simili potessero essere portati a termine dal terrorismo jihadista. Mentre i governi americani continuavano però a sfruttare queste stesse forze fondamentaliste per i propri interessi, dalla Libia alla Siria fino allo Yemen, le bombe continuavano a cadere sulla popolazione civile, con la scusa di nuovi imminenti attentati da sventare. Minacce di attentati quasi mai dimostrate, come mai saranno portati davanti a un tribunale per crimini di guerra i responsabili delle decisioni come quella che a fine agosto ha portato morte e distruzione in un affollato quartiere di Kabul, dentro una famiglia afghana che aveva lavorato per gli Stati Uniti e che negli Stati Uniti aveva riposto le proprie speranze per un futuro migliore.

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