Nel pieno dello scontro politico interno esploso dopo l’incontro con Putin a Helsinki, il presidente americano Trump ha riacceso in questi giorni il confronto con il governo iraniano, minacciando una nuova guerra distruttiva contro un paese che rimane al centro delle mire strategiche degli Stati Uniti.

 

Il “tweet” ormai famoso nel quale Trump ha intimato alle autorità della Repubblica Islamica di astenersi dal minacciare gli USA, per non incorrere in “conseguenze che in pochi hanno dovuto sopportare nella storia”, è stato probabilmente dettato dall’ala più radicale della sua amministrazione, sia per allentare le pressioni derivanti dalla polemica sui rapporti con la Russia sia per riportare al centro del dibattito a Washington una questione più conforme all’agenda della Casa Bianca.

 

 

Trump era ricorso al suo account Twitter ufficialmente per rispondere a un avvertimento del presidente iraniano, Hassan Rouhani, il quale aveva prospettato lo scatenamento della “madre di tutte le guerre” se gli Stati Uniti dovessero cercare di strozzare l’economia del suo paese o di forzare un cambio di regime a Teheran. In precedenza, lo stesso Rouhani aveva minacciato di chiudere lo stretto di Hormuz al transito delle petroliere nell’eventualità di un blocco, da parte americana, delle esportazioni di greggio iraniano.

 

La folta rappresentanza di “falchi” anti-iraniani all’interno dell’amministrazione Trump ha subito amplificato il messaggio del presidente. Già prima del “tweet” di Trump nella serata di domenica, il segretario di Stato, Mike Pompeo, in un discorso in California aveva attaccato duramente la leadership del regime di Teheran, definendola “mafiosa”, “corrotta” e “ipocrita”.

 

L’ex direttore della CIA aveva anche manifestato l’intenzione del suo governo di appoggiare i movimenti di opposizione in Iran e di lanciare una campagna mediatica di “interferenza” negli affari interni al paese mediorientale attraverso la creazione di network di propaganda in lingua persiana. Il giorno dopo l’uscita di Trump sull’Iran, il messaggio del presidente USA è stato poi ribadito quasi parola per parola anche dal consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, notoriamente uno tra i più irriducibili anti-iraniani dell’establishment di Washington.

 

La pretesa di Trump e della sua amministrazione che sia l’Iran a rappresentare una qualche minaccia per gli Stati Uniti è quanto meno assurda. Anche soltanto limitandosi a considerare gli eventi degli ultimi anni, i governi americani hanno condotto contro l’Iran una pesantissima campagna intimidatoria, fatta in gran parte di sanzioni economiche, ma anche di assassini mirati e attività di boicottaggio industriale, a cui si deve aggiungere la minaccia di rovesciare il regime e il costante sostegno offerto a forze di opposizione, anche se armate e con tendenze terroristiche, come i famigerati e ultra-screditati MeK (“Mojahedin-e Khalq”).

 

Ad ogni modo, la reazione di giornalisti e commentatori alle scintille tra Trump e Rouhani è sembrata essere tutto sommato contenuta. Molti hanno rilevato come la retorica del presidente sia appunto legata all’intenzione di sviare l’attenzione dai guai del “Russiagate” e dalle conseguenze politiche interne del faccia a faccia con Putin.

 

Altri, invece, non hanno nascosto le intenzioni bellicose verso Teheran, ma si sono detti praticamente certi dell’improbabilità che Trump possa finire per autorizzare un attacco militare contro l’Iran, alla luce delle enormi difficoltà logistiche e strategiche di un nuovo conflitto contro un paese di 80 milioni di persone, oltretutto in un momento già segnato da gravi crisi internazionali.

 

Se per l’immediato questa tesi appare ragionevole, è tuttavia necessario osservare il quadro generale della politica estera americana. L’ultima minaccia di aggressione militare contro l’Iran si inserisce cioè in uno schema di iniziative, già prese dall’amministrazione Trump, che in molti casi assomigliano molto a dichiarazioni di guerra.

 

Tra di esse c’è ovviamente l’abbandono unilaterale dell’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA) e il conseguente reintegro delle sanzioni economiche, sospese dall’amministrazione Obama. Gli USA e i loro alleati sono inoltre in un certo modo già in guerra contro Teheran.

 

In Siria, ad esempio, obiettivi e personale iraniano sono talvolta colpiti da bombardamenti operati soprattutto da Israele. Anche in Yemen il vero obiettivo è il contenimento dell’influenza iraniana, combattuta con una guerra sanguinosa contro i ribelli sciiti Houthi, ritenuti dalle monarchie assolute del Golfo Persico una forza dietro a cui si nasconderebbe la Repubblica Islamica.

 

L’escalation di pressioni e minacce, all’interno della quale si inserisce la retorica dei giorni scorsi dell’amministrazione Trump, rischia dunque di spingere Stati Uniti e Iran sull’orlo di un pericoloso confronto militare diretto, al di là delle intenzioni attuali dei rispettivi governi.

 

Anche le voci critiche dell’approccio all’Iran della Casa Bianca non brillano per un’inclinazione particolarmente pacifista. L’obiettivo di questi ambienti, legati in parte alla precedente amministrazione democratica di Barack Obama, è grosso modo lo stesso che aveva portato alla firma dell’accordo sul nucleare. Cioè, la relativa distensione con l’Iran governato dalla fazione “moderata” del regime doveva servire a neutralizzare, almeno temporaneamente, il pericolo di un’altra guerra sul fronte mediorientale in modo da concentrare l’attenzione su Cina e, soprattutto, Russia, come conferma l’isteria sulla vicenda del “Russiagate” e sul vertice con Putin.

 

Un’altra interpretazione del comportamento di Trump offerta dalla stampa ufficiale negli USA è che il presidente starebbe cercando di ricalcare con l’Iran il percorso che ha aperto la strada del dialogo con la Corea del Nord. Minacce e pressioni dovrebbero così servire alla fine a convincere i leader della Repubblica Islamica ad accettare il confronto diplomatico con Washington, chiaramente alle condizioni imposte dal governo americano. A questo proposito, martedì Trump ha affermato che il suo governo è pronto a sottoscrivere un “vero accordo” con l’Iran.

 

Che ciò sia possibile è però improbabile, sempre che rientri effettivamente nelle intenzioni di Trump. Come ha spiegato martedì il New York Times, la realtà iraniana, per cominciare, risulta molto più complessa di quella nordcoreana, con differenti centri di potere e una classe divisa sulle priorità e gli orientamenti strategici del paese. Inoltre, le resistenze a un eventuale dialogo con Teheran sarebbero formidabili per la Casa Bianca, a cominciare da quelle che opporrebbe la potentissima e influente lobby israeliana.

 

Soprattutto, mentre il regime di Kim appare prudentemente disponibile a considerare una cauta svolta strategica che sganci almeno in maniera parziale il suo paese dalla Cina per muoversi verso l’orbita statunitense, l’Iran non ha alcuna intenzione di abbandonare la sua politica estera indipendente, anche se “riformisti” e “moderati” continuano a essere aperti al dialogo a tutto campo con l’Occidente.

 

Infine, malgrado le sanzioni USA rischino di pesare sugli altri paesi occidentali che hanno stabilito rapporti diplomatici e d’affari con l’Iran dal 2015 a oggi, questo paese, al contrario della Corea del Nord, è tutt’altro che isolato. Se l’Europa promette finora solo a parole di salvaguardare i rapporti bilaterali, Teheran sembra avere ottenuto rassicurazioni più salde da parte di svariati paesi asiatici sulla prosecuzione delle forniture di petrolio anche dopo l’entrata in vigore delle sanzioni americane. Allo stesso modo, l’Iran è e sarà un nodo nevralgico dell’ambizioso programma di integrazione economica e infrastrutturale euro-asiatico promosso dalla Cina (“Belt and Road Initiative”).

 

Per queste ragioni, la risposta alle minacce di Trump da parte del ministero degli Esteri di Teheran ha offerto questa settimana un’interessante interpretazione della crescente aggressività di Washington. Secondo il portavoce di questo dicastero, cioè, quella in atto sarebbe una “guerra psicologica”, condotta dagli Stati Uniti non tanto per cercare di isolare l’Iran, quanto per reagire al loro stesso isolamento internazionale nel persistere a esercitare pressioni sulla Repubblica Islamica.

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