Uno dei temi più dibattuti nel corso e a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di questa settimana è stato senza alcun dubbio l’Iran. Gli interventi e le manovre diplomatiche dei rappresentanti del governo di Teheran, di quello americano e degli alleati europei non hanno prodotto significativi miglioramenti della situazione complessiva. Anzi, la linea dura sostanzialmente riconfermata dall’amministrazione Trump e l’ambiguità dell’Europa hanno probabilmente contribuito a far aumentare il pericolo di un nuovo conflitto in Medio Oriente.

Ancora poco prima dell’appuntamento annuale al Palazzo di Vetro a New York erano rimaste in vita esigue speranze di un faccia a faccia tra il presidente americano Trump e quello iraniano, Hassan Rouhani. Questa ipotesi, già in larga misura tramontata dopo i recenti attacchi contro le raffinerie saudite, attribuiti da Washington alla Repubblica Islamica, è svanita completamente dopo il comprensibile rifiuto della delegazione iraniana di fronte alla totale indisponibilità della Casa Bianca a valutare concreti segnali di distensione.

 

Nel suo discorso di mercoledì davanti all’Assemblea, Rouhani ha ribadito l’intenzione del suo governo di non negoziare “sotto pressione”, mentre ha affermato che, se l’amministrazione Trump intende chiedere maggiori concessioni all’Iran in cambio di un accordo, essa dovrà “dare di più in cambio”. Rouhani non è entrato nei dettagli, ma tutto lascia pensare che la Repubblica Islamica, dopo gli sviluppi degli ultimi mesi che hanno di fatto rafforzato la posizione iraniana, non è più disposta a tornare al tavolo delle trattative per ricevere eventualmente le sole garanzie già previste dall’accordo di Vienna sul nucleare del 2015 (JCPOA), da cui Trump è uscito unilateralmente nel maggio dello scorso anno. Soprattutto, da Teheran non ci saranno aperture se gli USA e gli altri interlocutori insisteranno nell’includere le questioni dei missili balistici, imprescindibili per la difesa dell’Iran, e dell’appoggio ai governi e alle organizzazioni che compongono l’arco della “resistenza” in Medio Oriente.

Ufficialmente, in ogni caso, il quadro previsto per un possibile ritorno alla diplomazia resta proprio quello del JCPOA. Un membro della delegazione iraniana presente all’ONU ha assicurato ad esempio alla Reuters che le porte del dialogo restano aperte per il governo americano se quest’ultimo accetterà di rientrare nell’accordo, di sospendere le sanzioni e di mettere fine alla politica della “massima pressione”.

Il concretizzarsi di queste condizioni resta tuttavia un’ipotesi molto remota. Martedì, nel suo discorso alle Nazioni Unite, Trump ha parlato assurdamente dell’Iran come di “una delle principali minacce alla sicurezza” globale e, nel sollecitare una sorta di coalizione internazionale contro questo paese, ha avvertito i governi di tutto il mondo a non sostenere “la sete di sangue” di Teheran. Se l’Iran dovesse continuare a “comportarsi minacciosamente”, ovvero a non piegarsi ai diktat di Washington, Trump ha assicurato che le sanzioni non solo rimarranno in vigore, ma saranno rafforzate.

La stessa retorica da gangster è stata ostentata anche dal segretario di Stato, Mike Pompeo, in alcuni post su Twitter e poi mercoledì in un discorso all’organizzazione non governativa anti-iraniana e ultra-reazionaria “United Against Nuclear Iran”. A parte i consueti attacchi verbali contro Teheran, due aspetti dell’intervento dell’ex direttore della CIA sono apparsi di qualche rilievo.

Il primo è il ringraziamento ai governi di Francia, Germania e Regno Unito per avere in sostanza sposato la linea americana sulle responsabilità iraniane dell’attacco contro le installazioni petrolifere in Arabia Saudita. L’altro è invece l’annuncio di nuove misure punitive, questa volta dirette anche contro sei compagnie di spedizioni cinesi, alcune delle quali affiliate al colosso pubblico COSCO, impegnate nel trasporto di petrolio iraniano in violazione delle cosiddette sanzioni “secondarie” adottate da Washington.

L’estensione delle sanzioni a entità e individui cinesi è la conseguenza della mancata proroga, decisa a inizio maggio dalla Casa Bianca, delle esenzioni concesse fino ad allora alla Cina e a una manciata di altri paesi per continuare ad acquistare greggio iraniano. La decisione di punire la Cina rappresenta soprattutto un’escalation dell’offensiva americana e conferma la vastità delle implicazioni dell’ossessione iraniana degli Stati Uniti.

Teheran e Pechino avevano non a caso sottoscritto numerosi accordi di varia natura qualche settimana fa per il valore di ben 400 miliardi di dollari nel quadro del progetto economico, commerciale, infrastrutturale e strategico cinese noto col nome di “Belt and Road Initiative” (BRI) o “Nuova Via della Seta”. La recente decisione americana punta perciò a ostacolare le dinamiche in atto nell’area euro-asiatica che minacciano la supremazia di Washington e, parallelamente, fa salire il rischio di innescare una guerra non limitata all’Iran o agli altri paesi mediorientali.

Per quanto riguarda invece il riferimento di Pompeo al sostegno incassato dai paesi europei firmatari dell’accordo di Vienna, è necessario tornare alla giornata di martedì. Sempre dal Palazzo di Vetro, i rappresentanti di Francia, Germania e Regno Unito avevano appunto emesso una dichiarazione congiunta per attribuire la colpa dell’attacco del 14 settembre scorso in territorio saudita alla Repubblica Islamica.

Il testo era illogico e contraddittorio tanto da risultare una presa di posizione esclusivamente politica piuttosto che basata sui fatti. La dichiarazione affermava come per i tre paesi fosse chiaro che “l’Iran è responsabile dell’attacco”, visto che “non esiste un’altra spiegazione plausibile”, nonostante la rivendicazione da parte degli Houthi yemeniti e la dimostrazione pubblica da parte di questi ultimi della disponibilità nei loro arsenali delle armi con cui è stato condotto il raid. Questa affermazione dei tre governi europei è stata però smentita subito dopo quasi interamente da loro stessi, quando hanno sostenuto di appoggiare “le indagini in corso per accertare ulteriori dettagli” della vicenda.

La dichiarazione è un riconoscimento esplicito delle posizioni americane e saudite sui fatti del 14 settembre scorso. A molti ha dato anzi l’impressione che i tre governi europei abbiano sfruttato l’occasione dell’attacco per liquidare definitivamente l’approccio cauto tenuto finora sull’Iran e basato sul tentativo di salvaguardare l’accordo di Vienna. Questa sensazione è stata solo parzialmente smentita mercoledì, dopo che gli stessi tre paesi, assieme a Russia, Cina e alla responsabile uscente della politica estera UE, Federica Mogherini, hanno incontrato a New York il ministro degli Esteri iraniano Zarif.

Il risultato è stato però una dichiarazione blanda sulla scia di quelle emesse negli ultimi sedici mesi a sostegno del JCPOA e degli sforzi diplomatici per ristabilire il dialogo tra Teheran e Washington. In definitiva, come ha confermato anche il contegno tutt’altro che euforico dello stesso Zarif, l’incontro ha confermato l’impotenza dei firmatari europei dell’accordo e, vista la posizione espressa in precedenza sull’attacco contro l’Arabia Saudita, ha affievolito ulteriormente le speranze di una soluzione pacifica della crisi.

Un ultimo affronto all’Iran da parte dell’amministrazione Trump è stato fatto infine negando il visto d’ingresso negli Stati Uniti ad alcuni alti funzionari del governo di Teheran che avrebbero dovuto partecipare ai lavori dell’ONU assieme al resto della delegazione guidata da Rouhani e Zarif. Il chiaro abuso della Casa Bianca è stato accompagnato anche da una ridicola dichiarazione che definisce l’Iran uno “stato sponsor del terrorismo” e, mettendo in luce il comportamento al di fuori della legalità di Washington, ha spinto il governo russo, anch’esso colpito da questi provvedimenti, a sollevare la questione dell’opportunità di trovare in futuro una località alternativa per ospitare la sede delle Nazioni Unite.

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