di Fabrizio Casari

Un Milan ispirato e spietato, che si avvantaggia dal sostenere l’intera partita in superiorità numerica causa discutibile rosso diretto a Balzaretti, stronca il Palermo e, in qualche misura, stronca anche le ambizioni della Juventus di Conte, che ove non dovesse vincere il recupero contro il Bologna (cosa non semplicissima) comincerebbe a vedere la fuga dei rossoneri con qualche seria preoccupazione.

Anche perché il Chievo, pure privo di Pellisier, con il pareggio ottenuto a Torino ha messo in luce l’insorgere di qualche scricchiolio in casa Juventus. La squadra appare effettivamente con qualche debito di corsa, cioè l’arma principale dei bianconeri che non hanno fuoriclasse a disposizione (come Ibrahimovic) che risolvono le partite anche quando le cose non vanno per il verso giusto. In aggiunta, le dichiarazioni di Marotta (“non disponiamo di uno come Ibra”) risultano fuori luogo, giacché averli sarebbe proprio il compito cui Marotta stesso dovrebbe assolvere e che non assolve.

In questo caso, dunque, le parole del DG juventino sembrano più voler indicare nei limiti dei giocatori a disposizione le eventuali responsabilità. I fischi che hanno accompagnato l’uscita della squadra al termine della partita non hanno certo aiutato al rasserenamento del clima e lo stesso Conte, con dichiarazioni tese come quelle del dopo partita, palesemente rivolte alla dirigenza societaria e alla tifoseria, indica con sufficiente chiarezza il clima di nervosismo che aleggia a Torino e che coinvolge staff tecnico, societario e tifoseria. Il rischio di veder sfumare la vittoria del campionato tiene tutti con i nervi scoperti.

Ben altra aria si respira invece nel Milan, che avendo ormai archiviato il turno di Champions, dato il risultato dell’andata, può decisamente dedicarsi al campionato con un Ibrahimovic tornato in grande forma proprio nel momento nel quale anche il resto della squadra - attaccanti in particolare - pare aver ritrovato tonicità. Da qui al prossimo turno di Champions c’è tempo per mantenere o addirittura incrementare il vantaggio sulla Juventus, che consentirebbe di affrontare la fase finale della stagione con una sufficiente riserva di punti in grado di garantire un finale di stagione ancora in testa.

Il derby di Roma ha definitivamente messo a nudo i limiti della Roma di Luis Enrique, che continua a proporre un’idea di assetto tattico da oratorio di periferia. E’ spaventoso vedere la semplicità con la quale l’assetto difensivo dei giallorossi non trovi misure e tempi per contrastare le ripartenze avversarie, consentite dallo sbilanciamento ossessivo della Roma in attacco. Il possesso palla dei giallorossi è davvero un tic-toc da accademia, una specie di “torello” prolungato ed inutile, prova ne sia che durante il derby il portiere laziale, Marchetti, non ha dovuto mai intervenire, non essendo arrivato nemmeno un tiro nello specchio della porta.

L’idea di tenere la palla e non scagliarla mai tra i legni della porta avversaria è uno dei misteri della fede del nuovo credo calcistico di Luis Enrique, probabilmente convinto che, come nella boxe, in assenza del colpo finale, a stabilire la vittoria o la sconfitta siano i punti che certificano l’iniziativa di uno dei due pugili. Il calcio, invece, è sport diverso: non si vince ai punti, ma con i punti.

La Lazio, invece, squadra decisamente operaia ma non priva di giocatori che hanno confidenza con il pallone, ha capito bene cosa andava fatto e l’hanno fatto come potevano. Una partita, il derby, che non è quasi mai bella nel senso dello spettacolo: troppa la tensione e troppo alta la posta in gioco sul piano della vivibilità degli ambienti per dedicarsi al bel calcio.

Ma è la prima volta che nell’arco di una stagione la Lazio vince due derby su tre e ora Reja, che era sempre stato vittima delle stracittadine con la Roma, è diventato il killer peggiore per Luis Enrique. Addirittura adesso Reja parla di sintonia con la societò, dopo aver minacciato, ritirato e poi negato dimissioni e scontri interni. Miracoli delle vittorie. Partita dunque non bella e tifoseria schifosa, che nei suoi ululati razzisti esibisce la cifra esatta della sua civiltà.

L’Inter evita con 30 minuti di corsa l’ennesima sconfitta, pareggiando con il catania di Montella. Anche sulla sponda nerazzurra si assiste al tributo di sangue che ad ogni partita paga Julio Cesar. Il quale, ancora fortissimo tra i pali se i tiri partono centralmente, viene regolarmente battuto da chiunque tiri in diagonale.

E' vero, l'Inter non ha terzini che sanno marcare e coprire le incusrsioni dalla fascia verso il centro, ma la sensazione è che il tentativo di coprire bene il proprio palo lasci troppo specchio di porta libero per il palo lontano; ed è un difetto, questo, sempre evidenziato dal portiere brasiliano. Ma sarebbe davvero curioso capire come mai non viene risolto, visto che l’Inter ha incassato circa dieci gol in questo modo.

Detto ciò, il gol del due a zero provvisorio del Catania è in colossale fuorigioco, non visto dalla pessima terna arbitrale. Senza quella rete irregolare l’Inter sarebbe tornata ai tre punti che, insieme ai sei che gli sono stati deufradati nelle prime giornate di campionato, vedrebbero ben altra classifica.

Ma per l’Inter è meglio così, perché una diversa classifica avrebbe potuto ulteriormente illudere la dirigenza nerazzurra sul valore oggettivo di questa squadra, che non è nemmeno lontano parente di quello esibito fino ad un anno fa. Ranieri, è chiaro, non è la medicina giusta, quale che sia la malattia, ma l’applauso che ha accompagnato l’uscita dell’inutile Palombo e dell’immobile Cambiasso in favore dell’entrata di due giovani come Obi e Poli, dice molto su quello che tutti i tifosi dell’Inter pensano di cosa sarebbe necessario fare. Ranieri forse ha capito e magari il licenziamento di Villas Boas da parte del Chelsea lo aiuterà a ragionare: da unica possibilità, Ranieri si trova ora ad essere una possibilità a scadenza variabile e niente più.

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