di Sara Michelucci

Che cosa c’è dopo la morte? Esiste sul serio un aldilà, o è giusto rimanere scettici e pensare ad un nulla eterno? L’ultimo film di Clint Eastwood, Hereafter, s'interroga, o meglio interroga lo spettatore, su queste tematiche. Lo fa attraverso tre storie che si intrecciano tra loro, accomunate da un unico punto: il contatto con l’aldilà.

L’inizio del film prende spunto dal terrificante Tsunami che ha colpito l’Indonesia, coinvolgendo Marie Lelay, una giornalista francese che però sopravvive alla furia della natura e alla morte, ma che ha un contatto con l’altro mondo mentre sta quasi per annegare. Rientrata a Parigi non riesce a dimenticare quella breve visione e la sua vita cambia completamente.

Marcus è invece un ragazzino, figlio di una madre tossicodipendente, che perde il fratello gemello, Jason, investito da un'auto. Si sente smarrito e cerca a tutti i costi un contatto con lui, attraverso un tramite che però a fatica riesce a trovare. George Lonegan (Matt Damon) non è un semplice operaio, ma un veggente, in grado di mettersi in contatto con il mondo dei morti. Per un periodo era questo il suo lavoro, ma la sua vita privata ne risentiva troppo, per questo ha scelto un altro lavoro. Ma il destino è ostinato e lo conduce sempre verso persone bisognose del suo aiuto.

La vita è vista come qualcosa che ha una linea di demarcazione ben precisa, tra un qui e un altrove, di cui però non si sa molto. Sono solo visioni fugaci, poco nitide, fatte di voci e figure sfuggenti. Ma il crederci diventa quasi una certezza nel film di Eastwood che, in un certo senso, lascia poco all’immaginazione, ma offre una visione piuttosto univoca di cosa sia l'altro mondo. Siamo decisamente lontani dalla luccicanza di Shining di Stanley Kubrick, dove il tema della morte e anche di un possibile contatto con un aldilà (la veggenza) non viene dato per certo, né tanto meno per predeterminato. Alla psiche umana e alle sue sfaccettature si lascia il primato.

Hereafter mette lo spettatore al centro di tre storie in cui l’idea della morte è vissuta inizialmente in maniera differente: da chi solo percepita, da chi sfiorata e da chi vissuta attraverso la scomparsa di un familiare. Il dolore della perdita, così come l’interrogativo di cosa c’è dopo questa vita, produce punti di vista inizialmente differenti, ma poi simili e incanalati lungo uno stesso binario che porterà i tre personaggi a sfiorarsi l’uno con l’altro, mettendo in condivisione le proprie esperienze. Decisamente intenso il rapporto tra i due gemelli, dove l'essere quasi una sola cosa si percepisce in ogni gesto di Marcus, come nel suo sguardo smarrito.

Il ruvido Clint, che ha al suo attivo dei veri e propri capolavori come Gli Spietati o Mystic River, oltre ad essere il custode del volto più famoso del West, avendo inseguito e combattuto la morte nei capolavori di Sergio Leone, questa volta risulta poco originale e, forse, un tantino scontato, nonostante gli si debba concedere la difficoltà di affrontare un argomento ostico come quello della morte e dell'Oltremondo. Di certo non è un reato nel credere che esiste un dopo oltre la vita reale. Ma nemmeno pensare il contrario. 


Hereafter (Usa, 2010)

Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Peter Morgan
Cast: Matt Damon, Cécile de France, Bryce Dallas Howard, Jay Mohr, Mylène Jampanoï, Thierry Neuvic, Richard Kind, Jenifer Lewis
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Produzione: The Kennedy/Marshall Company, Malpaso Productions, Road Rebel
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

L’ultimo di Stephen Frears è un film corale, la Tamara del titolo è colei attorno alla quale si sviluppano gli eventi (anche piuttosto movimentati per essere ambientati in un sonnacchioso paesino della provincia inglese!); ma i personaggi femminili importanti sono almeno tre, oltre il suo, e ci sono delle figure maschili abbastanza determinanti. Protagonista è in fondo l’intero villaggio in cui è ambientata la vicenda, dove succederebbe ben poco se non fosse per l’arrivo di un gruppo di scrittori in “ritiro creativo” ospitati nella fattoria di un altro scrittore del luogo e di sua moglie, ciecamente innamorata di lui.

Questo fatto, divenuto ormai quasi una tradizione, unito al ritorno di Tamara Drewe, erede di una grande magione contadina ma fuggita da quei luoghi per diventare giornalista, daranno luogo a un florilegio di avvenimenti, in genere piuttosto spassosi, se si fa eccezione per l’incidente causato da un cane troppo spavaldo e da un gregge spaventato dalle sue esuberanze. Estremamente significativo si rivelerà l’intervento di chirurgia plastica cui si è sottoposta Tamara poco prima di “rimpatriare”: il suo naso rifatto induce tutti gli abitanti del villaggio, che la ricordavano bruttarella, a rivedere il giudizio estetico su di lei, suscitando invidie, risentimenti e all’opposto irresistibili attrazioni.

Frears conferma la propria duttilità, ogni suo film è diverso, per temi, genere, approccio. Si percepisce come affronti le nuove sfide con grande inventiva, anche se i fondamentali - quelli che lo rendono un ottimo regista - rimangono costanti. L’ironia, il ritmo, la forza delle immagini, la scelta di attori spesso poco conosciuti ma assai validi, l’ambientazione in contesti tipicamente inglesi, queste sono le caratteristiche che ricorrono nelle sue opere. Eppure c’è sempre una sorpresa, è lecito (e oltretutto piacevole) aspettarsi un cambio di registro che mescola le carte e porta scompiglio, come molti dei suoi personaggi…

Tamara Drewe (Tradimenti all’inglese) (Gran Bretagna, 2010)
Regia: Sephen Frears
Sceneggiatura: Moira Buffini
Montaggio: Mick Audsley
Cast: Dominic Cooper, Gemma Arterton, Luke Evans, Tamsin Greig, Roger Allam, Bill Camp
Distribuzione: Bim

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Hanno l’aria di grandi ingenui quei due trentenni un po’ fuori moda. Vivono in una casa tutt’altro che confortevole e spesso sono attraversati dal dubbio di essere dei “falliti”. Certo non rappresentano i classici vincenti, se esserlo significa avere soldi e successo, se la realizzazione deriva soltanto dal soddisfacimento di prepotenti bisogni materiali. Ma Verona e Burt sono immuni al virus dell’invidia e la loro ingenuità è soltanto apparente, la verità è che sanno bene cosa stanno cercando: il luogo giusto dove cominciare una vita da genitori.

La ragazza, infatti, è incinta e l’idea di abitare accanto ai “suoceri”, per poter avere un sostegno anche pratico, sfuma in seguito alla loro decisione, improvvisa quanto avventata, di trasferirsi per due anni in Belgio. Digerita la notizia, Verona e Burt iniziano una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di una “casa” per il bimbo in arrivo, andando a trovare amici e parenti sparsi per l’America e non solo. Tutti hanno una famiglia, si sono sistemati in qualche modo – chi ha adottato dei bambini, chi segue bizzarre filosofie, chi è convinto che il mondo finirà nel giro di poco.

Sam Mendes, autore di film molto interessanti come “American beauty” e “Revolutionary road”, descrive pezzi d’America attraverso gli incontri tra la coppia tranfuga e i loro singolari conoscenti. Ne viene fuori un quadro tutt’altro che scontato, lucidamente ironico, con venature di tenerezza verso questo Paese che sembra essere ancora in preda a una grande paura. Alla quale ognuno reagisce a modo suo, con stravaganti soluzioni o con granitico cinismo.

Gli attori scelti da Mendes, i protagonisti ma anche i comprimari, hanno facce normali, sono o troppo magri o troppo grassi, o troppo alti o troppo bassi rispetto ai modelli imposti dalle riviste patinate. Gente comune con problemi comuni: l’impianto elettrico che salta, i figli obesi, l’infertilità, un fidanzato che dice cose banali, l’incapacità di inserirsi nel “contesto”. Gente un po’ marginale, che non fa notizia, nel bene ma nemmeno nel male. Al centro di tutto questo, Burt e Verona, che si amano con candore e convinzione e che si sostengono a vicenda: quando uno dei due è scoraggiato, c’è sempre l’altro ad infondergli fiducia.

Il loro girovagare li riporterà alle origini, alla riconciliazione con un passato doloroso che si trasforma finalmente in un nuovo inizio, denso di promesse. American life è una commedia romantica, buffissima e a tratti commovente, con un inestinguibile nucleo di positività.

American life (Usa, gran Bretagna, 2009)
Regia: Sam Mendes
Sceneggiatura: Dave Eggers, Vendela Vida
Musiche: Alexi Murdoch
Cast: John Krasinski, Maya Rudolph, Catherine O’Hara, Allison Janney
Distribuzione:Bim

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Quando si guarda The Tourist viene davvero voglia di alzarsi dalla poltrona e farsi restituire i soldi del biglietto. Il film di Florian Henckel von Donnersmarck, con Johnny Depp e Angelina Jolie, tanto atteso dal pubblico italiano perché ambientato a Venezia, è un vero e proprio crogiuolo di cliché cinematografici, che tenta inutilmente di ripercorrere la strada di grandi film di spionaggio come Caccia al Ladro, Notorious - L'amante perduta, o la saga di 007.

Frank Tupelo, interpretato dal bravo Johnny Depp (lo preferiamo decisamente in compagnia di Tim Burton) è un professore di matematica del Wisconsin. In viaggio in Italia, dopo la morte della moglie, incontra sul treno diretto a Venezia, Elise (interpretata da un’ingessata Angelina Jolie, più presa a rincorrere il divismo degli anni '50 che non a offrire spessore al personaggio) donna misteriosa e bellissima, la quale però è controllata dalla polizia internazionale, poiché amante di un famoso ricercato.

Elise e Frank, ovviamente, s’innamorano subito e insieme affronteranno una serie di pericoli e inseguimenti, fino all'happy end, con tanto di sorpresa che, però, cozza con molti punti del film, poco chiari o mal costruiti.

Eppure Florian Henckel von Donnersmarck ha girato una pellicola come Le vite degli altri, per nulla banale, anzi, dove lo spessore dei personaggi e della storia colpiscono lo spettatore, offrendo uno spaccato coinvolgente della Germania dell'Est negli anni ottanta del Novecento. In The Tourist, invece, i personaggi sembrano del tutto finti, come i luoghi, estremamente lussuosi e poco credibili.

Nemmeno le scene di azione coinvolgono, e la finzione si fa visibile. Si scomoda perfino la mafia russa, ma senza successo. Per non parlare delle scene d'amore: dal classico bacio sul balcone a un “I love you” sussurrato mentre si sta quasi per morire. Tutto sa di costruito e di già visto.

Un bel pezzo di cinema italiano è finito in The Tourist. Presenti, infatti, Christian De Sica, Raoul Bova, Nino Frassica, Alessio Boni e Neri Marcorè, tutti in piccolissimi ruoli che, però, hanno attirato la curiosità degli spettatori italiani. E Roma è stata protagonista della pellicola, ospitando lo scorso 20 dicembre l'anteprima italiana al The Space Moderno, in piazza della Repubblica. Con tanto di Red carpet e passerella di Depp e della coppia dorata “Brangelina” che non ha certo rinunciato a creare attesa e confusione.

Qualcosa di turistico però c'è veramente: una bella cartolina di Venezia, con la promozione di alcuni suoi marchi che, forse, potrebbero aiutare a rilanciare il turismo made in Italy.   

The Tourist (USA, Francia 2010)
Regia: Florian Henckel von Donnersmarck
Sceneggiatura: Florian Henckel von Donnersmarck, Julian Fellowes, Christopher McQuarrie
Interpreti: Johnny Depp, Angelina Jolie, Paul Bettany, Timothy Dalton, Steven Berkoff, Christian De Sica, Neri Marcorè, Alessio Boni, Daniele Pecci, Raoul Bova, Nino Frassica,
Distribuzione: 01 Distribution
Casa di produzione: GK Films, StudioCanal, Spyglass Entertainment Group

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Figura smilza, sguardo arguto e sorriso malizioso. Blake Edwards, pseudonimo di William Blake McEdwards, raffinato consacratore della commedia hollywoodiana, si è spento a Santa Monica lo scorso 15 dicembre, all’età di 88 anni. Tutti lo ricordano come il padre della Pantera Rosa, fortunata serie di film che ha consacrato la bravura e l’eclettismo, oltre che di Edwards, anche del genio attoriale Peter Sellers. L’ottavo e ultimo film della serie, girato dieci anni dopo, vede il ritorno di Claudia Cardinale nei panni della madre del Gendarme Jacques Gambrelli, figlio dell'ispettore Clouseau, interpretato da Roberto Benigni. Ma non è certo stato questo il suo miglior film.

Tra le pellicole di maggiore successo, invece, ci sono Colazione da Tiffany, 10, Victor Victoria e l’indimenticabile Hollywood Party, film irriverente e pungente, che prende di mira il mondo dello spettacolo hollywoodiano, mettendo a nudo vizi e contraddizioni di un universo dorato solo all’apparenza. Una vera sagra della vanità, dove la bravura di Sellers e le qualità registiche di Edwards mettono in scena una delle pellicole più riuscite del loro sodalizio. L’improvvisazione, il costruire il film giorno per giorno, senza una sceneggiatura stringente, ma con poche pagine di canovaccio, fanno emergere la genialità di entrambi.

L’irriverenza tipica di Edwards o, meglio, il suo voler stuzzicare con gusto le Major hollywoodiane, deriva anche dagli attriti con i produttori e da quella che lui definisce l'invadenza degli studios, spesso causa degli insuccessi (al botteghino) di alcune pellicole come La grande corsa, con Jack Lemmon, e il già citato Hollywood Party. Da qui “l’esilio” in Gran Bretagna, periodo questo dove Edwards si dà a film sullo spionaggio, dirigendo alcune pellicole come Il seme del tamarindo (1974), con Julie Andrews (la sua seconda moglie e la famosa interprete di Mary Poppins) e Omar Sharif, e offrendo la sua firma anche a programmi televisivi.

Il ritorno ad Hollywood è sancito dalla realizzazione (finalmente possibile) di 10, sceneggiatura ritenuta fino ad allora troppo ‘spinta’, che lanciò la pin up Bo Derek e spinse al di là dei confini più stringenti la commedia sexy, dando così ampio respiro a nuovi generi. Le insofferenze dei suoi personaggi, il dècor dei suoi film, la musica del maestro Henry Mancini, contribuiscono a creare "l'Edwards touch", ovvero il tocco autoriale.

L’industria hollywoodiana, si sa, può essere molto dura e molto poco riconoscente con i suoi figli, soprattutto con i più insofferenti, come era Edwards. Forse è proprio per questo che è tardato così tanto ad arrivare un premio per l’istrionico registra.

Solo nel 2004, l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences lo premia con un Oscar alla carriera. “Ognuno ha contribuito a questo momento, amici e nemici. Non avrei potuto arrivare qui senza dei nemici. Grazie a mio padre, grazie a mia madre e grazie a te, bellissima ragazza inglese con un'incredibile e sensuale voce da soprano”, disse Edwards, riferendosi alla moglie Julie Andrews, durante il discorso di ringraziamento.

La forza di personaggi come Edwards è di saper andare contro convenzioni e luoghi comuni e, anche, contro un botteghino che spesso non è lo specchio di film dalla robusta consistenza intellettuale o dalla spiccata originalità. E così raggiungono traguardi ben più importanti di una statuetta, colpendo al cuore la storia e restando impigliati nelle sue maglie, diventando insegnamento prezioso per chi resta ancora un po' in questo mondo. 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy