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di Sara Michelucci
Il mondo della pubertà, le sue difficoltà, le prime scoperte, le fatiche di passare dall’infanzia all’adolescenza, sono raccontate attraverso la figura esile di un ragazzino di undici anni: Greg Heffley. Diario di una schiappa, il nuovo film di Thor Freudenthal, narra con ironia e leggerezza la storia del giovane Greg, che sta per fare il suo ingresso nella scuola media dove dovrà affrontare un universo nuovo e fatto di mille avventure. Greg ha una vita normale: vive con i suoi genitori, con un fratello maggiore che lo perseguita e con uno molto piccolo che lo ammira.
Una tipica descrizione di una famiglia ‘classica’, dove il fratello ‘di mezzo’ non ha sempre vita facile. La nuova scuola viene affrontata da Greg in compagnia di Rowley con cui ha frequentato già le elementari. Ma se Greg è bassino e magrissimo, Rowley è sovrappeso, ma è anche infantile. L’atteggiamento dell’amico non gioverà a Greg e i due verranno automaticamente catapultati tra coloro che contano poco nella gerarchia della scuola.
Il film trae ispirazione dall’omonimo libro di Jeff Kinney scritto nel 2007 negli Stati Uniti e arrivato in Italia nel 2008. Diventato un best-seller, ha dato vita ad una serie considerata tra i più importanti fenomeni editoriali per ragazzi degli ultimi anni.
Interessante sicuramente l’utilizzo dell’ironia per raccontare lo spaccato di vita che tutti i ragazzi americani e non si trovano ad affrontare. Anche il tema del bullismo viene narrato senza cadere nel banale, ma sapendo ben coniugare trama e dialoghi, tenendosi fuori da luoghi comuni in cui spesso incappano i film di questo tipo. Alcune scelte e immagini sono ben rappresentative di personaggi tipo che si possono incontrare in qualsiasi scuola, come la ragazzina che legge isolata Ginsberg e per questo si sente diversa dai ragazzi della sua età. Non è semplice raccontare la scuola, non lo è soprattutto narrare quello della pubertà, perché spesso di rischia di cadere nel banale. Eppure Diario di una schiappa riesce a caratterizzare bene un mondo, uno spaccato di vita, mettendo in luce le paure, i dubbi, la voglia di farcela e di arrivare tipiche di un’età della vita.
L’interazione tra i ragazzi, poi, rappresenta il vero terreno di apprendimento, humus dove far crescere la propria personalità, per capire chi si vuole diventare da adulti.
In uscita anche il sequel, Diario di una schiappa 2 per la regia di David Bowers, dove Greg frequenta la seconda media ed è molto più sicuro di sé stesso, se non fosse per il fratello Rodrick che ha deciso di mettergli i bastoni tra le ruote.
Diario di una schiappa (Usa 2010)
Regia: Thor Freudenthal
Cast: Zachary Gordon, Robert Capron, Rachael Harris, Steve Zahn, Connor Fielding, Owen Fielding, Devon Bostick, Chloe Moretz, Alex Ferris, Rob LaBelle, Cainan Wiebe, Grayson Russell
Produzione: Color Force
Distribuzione: 20th Century Fox
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di Sara Michelucci
Siamo a tre. Il regista Michael Bay dà vita al terzo capito della serie Transformers, Transformers: Dark of the Moon. Il film segue i primi due capitoli, Transformers e Transformers - La vendetta del caduto, dedicati alle avventure dei celebri robot immaginari, protagonisti di cartoni animati, fumetti, linee di giocattoli e immancabili videogiochi. Avvincente la trama anche in questo terzo capitolo. Scenari futuribili e avventure cyber, mettono in scena un film fantascientifico dai tratti ultra moderni, con protagonisti che richiamano alla mente i giochi dei bambini, trasformati in vere e proprie icone.
In una missione a Chernobyl, il Nest trova un dispositivo alieno che Optimus Prime identifica come “un pezzo del motore di un'astronave cybertroniana, l'Arca”. Durante la ricognizione si manifesta Shockwave, il Decepticon che finora aveva governato Cybertron come governatore tirannico in assenza di Megatron, e il gigantesco robot tentacolare Driller, di cui è il padrone, che solo Shockwave è riuscito ad addomesticare. Optimus capisce quindi che gli umani erano a conoscenza di un segreto della loro razza e che non l'avevano condiviso.
Arrabbiato, Optimus pretende spiegazioni e apprende che americani e russi cominciarono la corsa verso la Luna per raggiungere l'oggetto misterioso che era in realtà la nave Arca; i russi presero il pezzo del motore che si era staccato ed era caduto sulla Terra, lo studiarono e, nulla sapendo della sua origine aliena, pensarono che fosse un avanzato dispositivo americano per produrre energia nucleare; lo misero a Chernobyl e, quando tentarono di usarlo come materiale fissile, provocarono il famoso disastro del 1986.
Il terzo capitolo di Transformers riscrive allora lo Sbarco sulla Luna, richiamando memorie storiche, ma offrendo una chiave di lettura nuova. Piace sicuramente una scelta di questo tipo, dove la storia americana torna ad essere preponderante, nonostante le oltre due ore e mezza di film in 3d sfiancano abbastanza, rendendo la visione più ‘fisica’ che mentale.
Un film che purtroppo non è nato sotto una buona stella. Ricordiamo infatti che il 2 settembre 2010 sono state temporaneamente sospese le riprese ad Hammond, Indiana, dopo un incidente sul set. Un cavo di acciaio si è spezzato colpendo un'auto e rompendo la testa alla conduttrice della vettura, che ha dovuto affrontare un operazione delicata al cervello.
La Paramount Pictures ha ammesso la responsabilità per l'incidente, ma la famiglia della povera attrice ha intentato una causa con sette capi di negligenza contro la Paramount, con danni complessivi al disopra dei 350.000 dollari. Nonostante questa brutta disavventura, il film comunque ha ottenuto un certo riconoscimento al botteghino. Adulti e bambini possono infatti divertirsi, seppure in maniera differente, con un film di questo tipo.
Transformers 3 (Usa 2011)
regia: Michael Bay
sceneggiatura: Ehren Kruger
attori: Shia LaBeouf, Rosie Huntington-Whiteley, Patrick Dempsey, John Malkovich, Ken Jeong, Frances McDormand, John Turturro, Tyrese Gibson, Kevin Dunn, Ramon Rodriguez, Alan Tudyk, Josh Duhamel, Julie White, Frank Welker, James Avery, Peter Cullen
fotografia: Amir M. Mokri
montaggio: Roger Barton, William Goldenberg
musiche: Steve Jablonsky
produzione: DreamWorks SKG, Hasbro, Paramount Pictures
distribuzione: Universal Pictures
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di Sara Michelucci
Un animale in gabbia, un fenomeno da baraccone, un elemento da studiare, scandagliare, violare anche nella propria intimità. Saartjie Baartman, meglio nota come la “Venere Ottentotta” per le sue caratteristiche fisiche, non è considerata una donna, ma un oggetto da esporre. Sradicata dalla sua casa, dalla sua terra d’origine, il Sudafrica, Saartjie è condotta dall’uomo per cui fa la domestica, prima a Londra, e poi a Parigi, per soddisfare la curiosità e lo sciocco voyeurismo delle persone che accorrono ai suoi spettacoli. Ma Sarah, questo il nome con cui è conosciuta in Europa, non è felice. E allora beve e fuma nella solitudine della sua esistenza, segnata dalla morte di un figlio e dall’abbandono dell’uomo che amava.
Il nuovo film di Abdel Kechiche, Venere nera, coniuga sapientemente la vera storia della Baartman con la ricostruzione scenica di spettacoli ed esposizioni nell’Europa della Rivoluzione Industriale, dove il selvaggio, l’essere venuto dalla lontana Africa affascina e diverte sia il popolo che l’aristocrazia e dove non c’è pietà per la natura umana di una donna nera.
A Parigi ci sarà il tracollo definitivo di Sarah, che finisce in un bordello e alla fine consumerà la sua esistenza nella solitudine di una stanza. Nemmeno il suo corpo morto sarà preservato dalla sete di conoscenza e verrà venduto all’Accademia Reale di Medicina di Parigi che nel 1817 ne esporrà un calco, insieme all’organo riproduttivo e al cervello. Il dottor Georges Cuvier, considerato un luminare dell’epoca, discuterà una tesi sulle somiglianze anatomiche fra gli ottentotti e le scimmie, ponendo in essere le basi per un razzismo che poi accompagnerà la storia della popolazione africana.
Il regista di Cous cous riesce a mostrare con intensità l’aberrazione della condizione della giovane africana, ma allo stesso tempo dà ampio spazio allo spettacolo scenico, con i balli tribali della “venere nera” e la sua grande capacità di suonare. Bella la scena in cui segue con il suo strumento “primitivo” le note di un violino. O quella in cui accompagna un dolce canto al suono dello strumento, dando una dimensione nuova e diversa alla sua esibizione, slegandola dall’osceno spettacolo di animale in gabbia o tenuto al collo da una catena. Lo spettacolo, allora, può mettere strette catene, ma le può anche sciogliere nel momento in cui tira fuori l’arte, la bravura o il talento.
Il Sudafrica riuscirà solo nel 2002 a far tornare sua figlia in quella terra di colori e di tradizioni, ricongiungendola in un abbraccio forte e in parte consolatorio, grazie alla liberazione della popolazione nera dalla schiavitù, in qualunque forma essa si manifesti, con la vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid.
Venere Nera (Francia, 2010)
regia: Abdellatif Kechiche
sceneggiatura: Abdellatif Kechiche
attori: Yahima Torrès, Andre Jacobs, Olivier Gourmet, Elina Löwensohn, François Marthouret, Michel Gionti, Jean-Christophe Bouvet, Jonathan Pienaar, Olivier Loustau, Diana Stewart
fotografia: Lubomir Bakchev
montaggio: Camille Toubkis, Ghalya Lacroix, Laurent Rouan, Albertine Lastera
produzione: MK2 Productions
distribuzione: Lucky Red
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di Sara Michelucci
Due donne. L’affetto, l’amicizia, l’amore, racchiusi nelle pieghe di un ventaglio. Racconti di vite lontane, legate da un patto inscindibile, quello laotong. Un legame d’amicizia tra due donne, più forte di una parentela, tipico della contea di Jangyong e sancito dal linguaggio femminile segreto, “nu shu”. Il ventaglio segreto, ultimo lavoro del regista cinese, Wayne Wang e ispirato al romanzo di Lisa See, "Fiore di Neve e il ventaglio segreto", racconta la storia di Nina e Sophia, amiche intime che hanno deciso di sancire l’antico patto laotong per rimanere legate per sempre da un sodalizio spirituale.
Alla loro storia si alterna quella di due bambine, Fiore di neve e Giglio bianco, nella Cina del 19° secolo, a cui sono stati fasciati i piedi nello stesso giorno. La loro storia è narrata nel libro che Sophia sta scrivendo e che Nina trova e legge mentre l’amica è in coma in ospedale, dopo essere stata travolta mentre andava in bicicletta.
Le due bambine, che hanno sottoscritto l’antica alleanza, diventeranno adulte e seppur lontane e nella solitudine dei loro rispettivi matrimoni, continueranno a scriversi su dei ventagli affidati a messaggeri. Si rincontreranno, tenteranno di scindere il loro legame per rendere l’una libera dall’altra, ma il loro affetto e l’amicizia che le unisce sono troppo forti.
Anche il legame di Nina e Sophia è messo a dura prova. Anche in questo caso Sophia tenterà di liberare Nina da un peso, ma alla fine ci sarà una riscoperta in chiave moderna dell’antica unione del laotong. La tradizione cinese, il maschilismo della società tradizionale, l’empatia delle donne, sono ben presenti in questo film che mischia elemento storico con quello più attuale.
Dal linguaggio, alle scene e ai colori, si evincono le differenze, ma le similarità delle due storie sono rese visibili dalle scelte delle stesse interpreti per i quattro ruoli. Nei gesti teneri delle due donne si racchiude un mondo fatto di comprensione e lealtà, cui il mondo maschile, che resta sempre sullo sfondo, difficilmente potrà accedere.
La forza di queste due donne, al contrario delle Thelma e Louise di Ridley Scott, non è tanto nei gesti quanto nelle parole, nonostante le scelte alla fine saranno nette, e Nina non ci penserà due volte a rinunciare o almeno a rimandare il suo trasferimento da Shanghai e New York.
Wang, che ricordiamo essere il regista un bel film come Smoke (1995), sceglie questa volta una storia tenera, al femminile, nonostante non sia stilisticamente perfetto e probabilmente non sarà un film “indimenticabile”.
Il ventaglio segreto (Cina-Usa, 2011)
regia: Wayne Wang
sceneggiatura: Angela Workman, Ronald Bass, Michael Ray
attori: Bingbing Li, Gianna Jun, Vivian Wu, Hugh Jackman, Archie Kao
fotografia: Richard Wong
montaggio: Deirdre Slevin
produzione: IDG China Media
distribuzione: Eagle Pictures
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di Sara Michelucci
L’agiatezza e la povertà sono ben distinte in un borghese palazzo parigino degli anni Sessanta. Al sesto piano abita un gruppo di domestiche spagnole, relegate in una sorta di soffitta con diverse stanze e un bagno che non funziona. Il resto del palazzo è suddiviso tra gli appartamenti dei ricchi signori che queste donne servono.
Ma il signor Jean-Louis Joubert è diverso. Maniaco dell’uovo alla coque e agente di cambio affermato e rigoroso, scopre che la sua vita e soprattutto il suo matrimonio sono piatti e senza un’autentica felicità. Quando la giovane Maria entra nella sua vita come governante, al posto della vecchia e brontolona Germaine, la sua vita e quella della sua borghese e “finta” famiglia cambiano di colpo.
La giovane donna, da poco giunta nella Ville Lumiere da Burgos, gli apre le porte di un universo esuberante, totalmente diverso da quello a cui è abituato, fatto di sacrifici, ma anche di allegria, folklore e gioia. Colpito da queste donne piene di vita, Jean-Louis si lascia andare e per la prima volta gusta i sapori più semplici che la vita gli dona.
Sullo sfondo di questo bel film, che sa ben caratterizzare i personaggi dando uno spessore tale che ad ognuno possiamo dare un’identità ben precisa, c’è la Francia di De Gaulle e la violenta Spagna di Franco. Due mondi contrapposti, come lo sono quelli delle domestiche iberiche e dei borghesi francesi. Due mondi che sembra non possano mai incontrarsi, ma le cui barriere verranno destrutturate da Maria e Jean Louis, creando scandalo, ma aprendo gli occhi su una società ipocrita.
Guardando il film di Philippe Le Guay, Le donne del sesto piano, seppur con le dovute differenze, viene così alla mente il pluripremiato Gosford Park di Robert Altman. In questo caso al piano di sotto c’è la servitù e a quello superiore c’è la nobiltà. Il contrario insomma di quello che avviene nel film di Le Guy.
L’autentico oggetto del capolavoro di Altaman è proprio la rappresentazione del rigido sistema di classi dell’Inghilterra degli anni Trenta. Molte delle vicende che s’innestano sulla trama principale vogliono svelare le complesse relazioni tra la nobiltà e la servitù, mostrando l’ipocrisia dei comportamenti pubblici ingabbiati nei rituali della società.
Stessa cosa accade ne Le donne del sesto piano, con l’immagine della portinaia sprezzante verso le domestiche spagnole, pur essendo lei stessa a servizio dei padroni e quella diametralmente opposta di Jean-Louis, illuminato borghese che rinuncia alla sua agiatezza pur di respirare una boccata di aria pura, assaporando con Maria la vera gioia di essere uomini.
Le donne del sesto piano (Francia 2011)
regia: Philippe Le Guay
sceneggiatura: Philippe Le Guay, Jérôme Tonnerre
attori: Fabrice Luchini, Sandrine Kiberlain, Natalia Verbeke, Carmen Maura, Lola Dueñas, Berta Ojea, Nuria Solé, Concha Galán, Muriel Solvay, Marie-Armelle Deguy, Annie Mercier, Michele Gleizer
fotografia: Jean-Claude Larrieu
montaggio: Monica Coleman
musiche: Jorge Arriagada
produzione: France 2 Cinéma, Les Films de la Suane
distribuzione: Archibald Enterprise Film