Scritto e diretto dal candidato premio Oscar, Kenneth Branagh, Belfast è una commovente storia di amore, risate e perdita nell'infanzia di un ragazzo, tra la musica e il tumulto sociale della fine degli anni '60. Al centro della pellicola, la storia di Buddy (Jude Hill) un bambino di 9 anni che vive con i genitori e i suoi nonni, nel North Belfast.

Buddy  trascorre le giornate al cinema o di fronte la televisione, a guardare film e programmi americani, che lo fanno viaggiare con la fantasia, portandolo oltreoceano.

Il contesto storico e culturale è quello tumultuoso della Belfast anni Sessanta, dove vige il malcontento generale, che vede schierarsi cattolici contro protestanti. Iniziano rivolte e attacchi, così che l'intera città viene messa a ferro e fuoco, diventando lo scenario di un conflitto che porterà inevitabilmente alla guerra civile.

Tali conflitti compromettono l'infanzia di Buddy, la cui serenità lascia spazio a tante domande. Il bambino si sente come in uno dei suoi film, dove buoni e cattivi si danno battaglia.

Un film autobiografico, attraverso il quale Kenneth Branagh ripercorre vicende dolorose per il suo Paese, ma anche momenti belli della sua vita familiare. Una storia privata inserita all'interno di un periodo storico preciso, raccontata attraverso l'occhio curioso del piccolo Buddy, che guarda con entusiasmo e innocenza alla vita e alla sua famiglia, nonostante i conflitti sociali.

Belfast (Gran Bretagna 2021)

Regia: Kenneth Branagh

Attori: Jamie Dornan, Jude Hill, Caitriona Balfe, Judi Dench, Ciarán Hinds, Lara McDonnell, Gerard Horan, Turlough Convery, Conor MacNeill, Bríd Brennan, Gerard McCarthy, Sid Sagar, Zak Holland, Barnaby Chambers, Olive Tennant, Josie Walker

Distribuzione: Universal Pictures

Sceneggiatura: Kenneth Branagh

Fotografia: Haris Zambarloukos

Montaggio: Úna Ní Dhonghaíle

Leonardo. Il capolavoro perduto è il documentario firmato da Andreas Koefoed, che racconta la storia del Salvator Mundi, il dipinto più costoso mai venduto (450 milioni di dollari la sua quotazione) ritenuto uno dei capolavori perduti di Leonardo da Vinci.

“Questa storia mette a nudo i meccanismi della psiche umana, la nostra attrazione verso il divino e i meccanismi delle società capitaliste in cui denaro e potere prevalgono sulla verità. Il dipinto diventa un prisma attraverso cui possiamo comprendere noi stessi e il mondo in cui viviamo. A oggi non ci sono prove conclusive che il dipinto sia – o non sia – di Leonardo. E finché c’è un dubbio, persone, istituzioni e stati possono di fatto “usarlo” per lo scopo che risulta loro più utile”, racconta il regista.

Nel 2008, gli esperti di Leonardo Da Vinci più illustri al mondo si sono riuniti attorno a un cavalletto alla National Gallery di Londra per esaminare un misterioso dipinto: un Salvator Mundi apparentemente senza pretese.

Tre anni dopo, la National Gallery ha presentato quell’opera come un dipinto autografo di Leonardo nella celebre mostra dedicata al pittore, dando vita a una delle vicende più seducenti e sconcertanti del mondo d’arte dei nostri tempi. Girato nel corso di tre anni, il documentario racconta meticolosamente l’intera storia dietro il Salvator Mundi e si snoda come un thriller avvincente che vede protagonisti roboanti nomi dell’arte, della finanza e della politica.

Il regista Andreas Kofoed posiziona questa storia all’incrocio tra capitalismo e creazione dei miti contemporanei, ponendo al pubblico una domanda emblematica: questo dipinto multimilionario è davvero di Leonardo o semplicemente alcuni uomini di potere vogliono che lo sia?

È proprio a partire da questo interrogativo che Leonardo. Il capolavoro perduto narra la storia dietro le quinte del Salvator Mundi. Dal giorno in cui (dopo essere stato acquistato per 1.175 dollari in un’oscura casa d’aste di New Orleans) sono state scoperte magistrali pennellate rinascimentali sotto la vernice pesante del suo restauro a buon mercato, il destino del Salvator Mundi ha visto intrecciarsi ricerca di fama, denaro e potere. Man mano che il suo prezzo è salito alle stelle sono aumentate anche le domande sulla sua autenticità.

Ma infine, a distanza di anni: questo dipinto è davvero di Leonardo da Vinci? Svelando i progetti nascosti degli uomini più ricchi della terra e delle istituzioni artistiche più potenti del mondo, il documentario mostra come gli interessi che si celano dietro al Salvator Mundi siano così giganteschi da far diventare la verità qualcosa di secondario.

Maestro di humor e di garbo, Gigi Proietti rappresenta un punto di riferimento per il mondo artistico italiano. Il racconto dell’ultimo grande istrione dello spettacolo italiano, la sua vita, la sua storia, il segreto della sua indimenticabile comicità sono racconti nel documentario Luigi Proietti detto Gigi, firmato da Edoardo Leo e presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma.

A volte si conosce la storia leggendo libri, a volte ascoltandone i racconti, a volte facendo appello ai ricordi. Questa volta, lo strumento usato per ricordare la storia recente del Nicaragua, è un documentario firmato da Marcio Vargas e Carlos Vargas Arana. Una produzione che ricorre la storia tenebrosa dei sedici anni di governi liberali (inizio 1991- fine 2016). Cominciarono quando Violeta Chamorro, candidata degli Stati Uniti e dell’oligarchia nicaraguense ad essi devota, alla testa di una coalizione di 14 partiti, sconfisse il Frente Sandinista alle elezioni del 1990. L’annessionismo tornava a sconfiggere l’indipendentismo: il somozismo senza Somoza si imponeva alla guida del Nicaragua.

Con l’incoronazione della Presidente Chamorro, cominciarono i 16 anni di governi liberali. Sedici anni di miseria, fame, distruzione dei diritti sociali, repressione, brogli elettorali, corruzione e ruberie. Il patto con gli Stati Uniti era scritto a lettere maiuscole: l’oligarchia privava gli USA di un nemico storico (il Sandinismo) e gli USA consentivano all’oligarchia di arricchirsi come mai nella storia. Per le famiglie della borghesia nicaraguense fu una corsa all’oro migliore di quella che ebbero con Somoza, il quale non lasciava che briciole all’appetito degli oligarchi che, per questo, si travestirono da antisomozisti.

A specializzarsi nell’odio in quei sedici anni furono in diversi, ma il peggiore fu Humberto Belli, ministro dell’istruzione che fece rima con distruzione. Membro dell’Opus Dei e fratello della scrittrice Gioconda, relatrice di tutti i suoi amori tranne quello che prova per il denaro e i potenti. Mai, la cosiddetta poetessa, raccontò l’orrore per il consanguineo, mai un rigo per prenderne le distanze. Del resto l’impero non l’esigeva.

Il documentario racconta con un tocco delicato ma deciso quello che significarono i 16 anni dell’orrore. E’ un documentario militante, che offre una lettura sociopolitica di quanto avvenuto in quei sedici anni con i liberali al governo. L’alternanza tra interviste, voci dalla strada, immagini provoca un felice matrimonio tra sguardo udito. Racconta, per chi vuole sapere, la valanga di famiglie divoratrici capaci solo di saccheggiare e mentire.

La famiglia Chamorro aprì le fauci e si prese Presidenza della Repubblica e direzione del governo e, nemmeno il tempo di sedersi, licenziò 20.000 lavoratori dello Stato identificati come sandinisti e diede vita alla vendita di aerolinea, ferrovia e flotta peschiera. Cominciava così il più imponente trasferimento di ricchezza dalle casse pubbliche a quelle private, che vide anche il tentativo di privatizzare l’acqua e i rifiuti  e privatizzò istruzione e sanità per generare un maggior risparmio per lo Stato, che poteva così continuare a versare i suoi attivi nelle casse dell’oligarchia. Era l’inizio del chamorrismo.

Il trasferimento di ricchezza ebbe il suo contesto politico. La vendetta ideologica contro il Sandinismo grondava odio e rabbia. Vennero cancellati monumenti, murales e vie intitolate agli eroi sandinisti, venne chiuso il museo dell’alfabetizzazione, come a evidenziare l’insopportabilità di pelle verso una iniziativa che aveva dato onore al Nicaragua. Perché potendo imparare a leggere e a scrivere, i poveri, gli umili e i senza diritto avrebbero disposto di sapere e, sapendo, non si è più schiavi.

In un efficace uso del bianco e nero che si sovrappone al colore, quasi ad indicare il rilievo di alcuni passaggi drammatici, il documentario indica la sostanza del progetto liberale, che prevedeva di spezzare le gambe al popolo, di azzerarne ogni dimensione identitaria e di classe, ogni lettura della società che non fosse quella feudale. Togliergli il lavoro, le case, i diritti, oltre a permettere una gigantesca appropriazione indebita di proprietà da parte dell’oligarchia, toglieva la dignità e obbligava ad una vita di stenti una popolazione intera. Gli rendeva difficile la militanza politica, le lotte, il sogno del cambiamento, perché prevaleva l’urgenza del sopravvivere, del provare a mettere cibo in tavola e ad avere un tetto sulla testa. Il presente doveva impedire anche solo di immaginare il futuro.

La sfida fu quella di chiudere per sempre con il Sandinismo in Nicaragua ma l’operazione destinata ad azzerare il Frente Sandinista non ebbe seguito. La pattuglia di traditori guidati da Sergio Ramirez e Dora Maria Tellez si era rivelata un fracasso e Daniel Ortega aveva deciso di ricostruire dal basso il Frente Sandinista. Difendere le conquiste della Rivoluzione, appoggiare le istanze sociali e le battaglie per i diritti, furono gli esercizi della nuova palestra sandinista. Municipio per municipio, senza mezzi che non fossero la disponibilità collettiva, Daniel ricostruiva quello che sembrava perso nell’immondezzaio del tradimento e del trasformismo politico.

Il Nicaragua conobbe i brogli elettorali di Aleman e la cosiddetta “osservazione elettorale” statunitense e costaricense che forniva al MRS, che presiedeva il CNE, l’avallo per il furto dei voti. Dopo Aleman arrivò Bolanos, ma non vi furono differenze di sostanza. Il primo rubava immergendosi nelle sue feci in piscina, il secondo usava guanti bianchi, ma il saccheggio non conobbe pause, solo differenze di stile.

Sull’irrompere vorace e servile della classe di arricchiti nelle viscere del Paese il documentario incede senza pietà. L’utilizzo degli insert video si rivela utile a disegnare i contorni e i commenti in studio spezzano il ritmo dando spazio al parlato da affiancare alle immagini.

Furono sedici anni nei quali mancò la decenza della politica e quella degli uomini, la luce e il cibo, dove i pavimenti erano polvere e il dormire senza un tetto chiedeva clemenza alla natura. La Chureca, discarica della capitale, divenne la mensa dei poveri perché la povertà divenne miseria, la tristezza si fece disperazione.

Ma il libro che racconta la vita del Nicaragua non si chiuse con la pagina orribile della disperata miseria, delle morti per malattie curabili, degli indici nutrizionali più bassi della Regione, della mortalità infantile ai livelli più alti e della speranza di vita ridotta al minimo. Il Sandinismo, come un fiume che attraversa le stagioni, seppe ricominciare a scorrere e la sua morte troppo presto annunciata venne sostituita dalla sua la resurrezione. Quel popolo umiliato, affamato e deriso, messo ai margini e dichiarato estraneo al suo stesso Paese, trovò il modo di impugnare una matita come fosse un fucile, riportando nel Novembre del 2006 le cose nel loro ordine naturale. Daniel trionfò e l’oligarchia dovette lasciare il campo. L’orrore era finito. Il Nicaragua tornava ad essere dei nicaraguensi.

Chi non conosce il Nicaragua, per non esserci stato o per non essersene mai occupato, così come chi lo conosce solo attraverso le lenti deformate, le parole mistificate e i fatti manipolati della stampa occidentale, potrebbe – anzi dovrebbe – vedere una e più volte questo documentario. Oggi, che il Nicaragua vive la stagione migliore di tutta la sua storia, vedere cosa ha attraversato rende edotti su quanto è stato fatto in questi 15 anni di Sandinismo. Per questo va visto, per l’emozione che trasmette e la verità che racconta. E sconfiggere la menzogna conoscendo la verità è il primo passo per respirare giustizia.

Unico film italiano in concorso al prossimo festival di Berlino, Leonora Addio, firmato da Paolo Taviani, racconta la rocambolesca avventura delle ceneri di Pirandello e il movimentato viaggio dell’urna da Roma ad Agrigento, fino alla tribolata sepoltura avvenuta dopo quindici anni dalla morte. E a chiudere il film, l’ultimo racconto di Pirandello scritto venti giorni prima di morire: “Il chiodo” dove il giovane Bastianeddu, strappato in Sicilia dalle braccia della madre e costretto a seguire il padre al di là dell’oceano, non riesce a sanare la ferita che lo spinge a un gesto insensato.

Pirandello muore a Roma il 10 dicembre 1936 e nel suo testamento lascia precise disposizioni: “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.

Il film girato in Sicilia e negli studi di Cinecittà, è interpretato da Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker, Claudio Bigagli.

“Il grottesco delle ceneri sballottate dal caso e dalla stupidità umana pare uscito dalla stessa penna di Pirandello: il paradosso, il ridicolo che scivolano nell’assurdo. Come assurdo è il furore tragico di “Il chiodo”, la seconda storia del film ispirata a Pirandello da un fatto di cronaca a Brooklyn: ‘bambina uccisa da un ragazzo italiano’. Qui la verità della cronaca si fonderà con un’altra verità, quella del film”, dichiara Taviani.

E sul festival aggiunge: “È proprio una bella notizia che il Festival di Berlino si farà in presenza. Sì, è una bella sfida ai virus che ci perseguitano. È il cinema che combatte e Berlino è un Festival che non si scoraggia e cerca sempre il nuovo del cinema nel mondo. Buona fortuna allora al direttore Carlo Chatrian e ai suoi collaboratori. E a tutti noi!”.

Leonora Addio (Italia 2022)

Regia, soggetto e sceneggiatura: Paolo Taviani

Montaggio: Roberto Perpignani

Musiche: Nicola Piovani

Attori: Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker, Claudio Bigagli

Distribuzione: 01 Distribution

laylist 1h 28’ (18:30 - 20)


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