La visita di stato di questa settimana a Washington del presidente francese, Emmanuel Macron, è stata apparentemente caratterizzata da un’atmosfera cordiale e da un’accoglienza con tutti gli onori del caso da parte di Donald Trump. Il vertice tra i due leader, in attesa dell’arrivo negli Stati Uniti della cancelliera tedesca Merkel, è stato attraversato però dalle crescenti tensioni transatlantiche, soprattutto in vista dell’imminente decisione americana sulla sorte dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA).

 

 

Le relazioni con la Repubblica Islamica e le prime avvisaglie della guerra commerciale inaugurata dalla Casa Bianca si intrecciano così con i tentativi di Macron di posizionare la Francia come interlocutore europeo preferito degli USA dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione.

 

Una strategia, quella dell’inquilino dell’Eliseo, che punta all’allineamento degli interessi dei due paesi su determinati fronti, a cominciare da quello della competizione strategica in Medio Oriente, per superare le divisioni sempre più evidenti in altri ambiti, con l’obiettivo di promuovere la posizione internazionale della classe dirigente transalpina.

 

L’ostentazione dell’unità di vedute tra Stati Uniti e Francia nel corso della trasferta americana di Macron era stata smentita già alla vigilia dell’incontro con Trump, quando un’intervista rilasciata dal presidente francese a Fox News aveva mostrato chiaramente tutte le sue apprensioni e quelle dei leader europei per il rapido sgretolarsi dell’ordine internazionale sotto l’azione del governo di Washington.

 

Nell’ambito del commercio e delle tariffe doganali, Macron aveva espresso ad esempio una vaga speranza nel ravvedimento dell’amministrazione repubblicana, invitata per lo meno a esentare dai provvedimenti delle ultime settimane i paesi europei, vista la necessità di salvaguardare i rapporti con i propri alleati in previsione di un possibile aggravamento della situazione internazionale su altri fronti, dalla Cina alla Russia alla Siria.

 

Ben sapendo di dover trattare con un partner sempre più ostile, il presidente francese è sembrato ancora una volta far leva sull’impulso al militarismo e, nello specifico, sull’interventismo nel teatro di guerra siriano, come fattore di intesa tra gli alleati sulle due sponde dell’Atlantico. La prova di ciò si era già avuta nella partecipazione di Parigi al bombardamento illegale della Siria deciso da Trump poco più di due settimane fa.

 

Nella stessa intervista a Fox News, poi, Macron ha di fatto riproposto le tesi dei “falchi” americani per giustificare un impegno maggiore in Siria, dove un eventuale disimpegno corrisponderebbe a lasciare il paese nelle mani del regime di Assad e, soprattutto, sotto l’influenza di Russia e Iran.

 

Al di là dei cinici riferimenti al bene del popolo siriano, l’aggressività francese riguardo la crisi in questo paese è altamente significativa della natura di un governo il cui leader solo pochi giorni fa aveva fatto appello ai valori democratici europei come una sorta di faro nella deriva autoritaria in atto a livello globale.

 

L’insistenza di Macron sulla collaborazione con Washington in Siria riflette anche i timori europei sempre più evidenti per una possibile decisione della Casa Bianca sull’Iran che porti al naufragio dell’accordo di Vienna del 2015. Entro il 12 maggio, Trump sarà chiamato infatti a certificare il rispetto da parte di Teheran dei termini del trattato oppure, come sembra intenzionato a fare, a ritirare di fatto gli Stati Uniti dall’intesa che l’amministrazione Obama aveva sottoscritto assieme agli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania.

 

L’Europa continua a sostenere in maniera ferma la validità dell’accordo, in primo luogo per i potenziali benefici economici che le aziende del vecchio continente potranno ottenere dalla progressiva apertura del mercato iraniano. Inoltre, il crollo del JCPOA aprirebbe un nuovo fronte di instabilità in Medio Oriente, con il rischio concreto di una guerra dalle conseguenze ancora più gravi di quella in Siria, e finirebbe per incrinare ulteriormente i rapporti con gli Stati Uniti.

 

Essendo questa la posta in gioco, risulta comprensibile il rilievo dato dai media occidentali alla questione del nucleare iraniano nel quadro della visita di Macron a Washington, così come di quella della Merkel nella giornata di venerdì.

 

Macron, da parte sua, ha avvertito dell’inesistenza di un “piano B” se Trump dovesse affondare l’accordo di Vienna. Per evitare un esito di questo genere, la diplomazia europea è da tempo al lavoro sia sul fronte del dialogo con Washington sia nelle trattative per presentare alla Casa Bianca un piano di revisione del trattato con la Repubblica Islamica che soddisfi le richieste americane.

 

Sul tavolo ci sarebbero in teoria alcune iniziative che affrontano questioni come quella dei missili balistici iraniani, la presunta influenza destabilizzante di Teheran in Medio Oriente e la “scadenza” delle restrizioni imposte dall’accordo di Vienna al programma nucleare civile della Repubblica Islamica.

 

Tutte e tre le questioni non rappresentano in realtà alcuna vera minaccia, se non agli interessi strategici di Washington, ma sono soltanto un pretesto agitato dal governo americano per fare pressioni sull’Iran e giustificare un eventuale ritorno alle sanzioni punitive se non un intervento militare contro questo paese.

Ad ogni modo, l’Europa rischia di ritrovarsi in un vicolo cieco sull’Iran, poiché due dei paesi firmatari dell’accordo di Vienna – Russia e Cina – e soprattutto lo stesso governo iraniano si sono detti indisponibili a valutare modifiche o anche solo a riaprire i negoziati.

 

Gli alleati europei degli Stati Uniti sono ben consapevoli di quanto siano fragili gli equilibri e hanno infatti espresso l’auspicio che l’amministrazione Trump finisca per ritenersi soddisfatta dei soli sforzi in corso per pianificare una revisione teorica del trattato e che quindi, almeno, per il momento, ne venga confermata la validità.

 

Secondo alcuni commentatori, Macron avrebbe anche fatto notare a Trump come la denuncia del trattato sul nucleare iraniano da parte americana in questo frangente rischierebbe di gettare un’ombra sull’imminente vertice tra lo stesso presidente americano e il leader nordcoreano, Kim Jong-un. Il sostanziale ripudio senza motivo di un accordo appoggiato da tutta la comunità internazionale metterebbe cioè in serio dubbio da subito il possibile raggiungimento di un’intesa con il regime di Pyongyang.

 

L’argomento appare legittimo, ma è tuttavia incerto l’impatto che potrebbe avere sulla condotta della Casa Bianca. D’altra parte, l’interesse di Trump ad avviare realmente un percorso diplomatico con la Corea del Nord è tutt’altro che scontato. Il senso stesso del faccia a faccia con Kim, sempre che vada in porto, non è chiaro, visto anche che all’interno dell’amministrazione repubblicana sembrano esserci posizioni contrastanti sull’approccio alla crisi nordcoreana.

 

Per quanto riguarda ancora le visite dei leader europei a Washington di questa settimana, l’importanza assegnata dalla Casa Bianca a quella di Macron contrasta con la relativa freddezza che dovrebbe caratterizzare la più breve trasferta americana di Angela Merkel.

 

La differenza di trattamento da parte dell’amministrazione Trump è perfettamente coerente con gli attriti che hanno segnato nell’ultimo anno i rapporti tra USA e Germania, mentre più recente è la mancata partecipazione di Berlino all’aggressione militare contro la Siria, nonostante l’appoggio garantito dalla Merkel all’operazione promossa da Washington.

 

Nel quadro dell’inequivocabile formarsi, pur tra divisioni e contrasti, di una politica comune europea in vari ambiti, tra cui quello militare potenzialmente in contrasto con la NATO, è evidente perciò anche il tentativo americano di provare a ostacolare il faticoso consolidamento in atto dell’asse tra Parigi e Berlino.

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