di Mario Lombardo

Il voto di domenica scorsa in Spagna ha sostanzialmente confermato la generale disaffezione degli elettori verso il sistema bipartitico che ha dominato il paese dalla fine del Franchismo. I risultati, tuttavia, anche se di poco differenti da quelli della consultazione di dicembre, hanno fatto registrare, assieme al nuovo arretramento del Partito Socialista (PSOE) e all’aumento dell’astensione, una relativa battuta d’arresto delle forze autodefinitesi del cambiamento. Allo stesso tempo, il Partito Popolare (PP) al governo dovrebbe finalmente riuscire a mettere assieme un nuovo esecutivo, la cui forma e base di sostegno saranno però tutte da verificare.

Come per la “Brexit”, i sondaggi della vigilia hanno fallito nel prevedere l’esito del voto spagnolo, quanto meno in relazione all’aspetto probabilmente più importante. A differenza di quanto annunciato, l’alleanza elettorale nata dall’unione di Podemos (Possiamo) e Sinistra Unita (IU), ribattezzata Unidos Podemos, ha mancato infatti il sorpasso ai danni del PSOE per proporsi come seconda forza politica del paese e dettare da una posizione di forza una possibile alleanza di governo con i Socialisti.

La coalizione, composta dal movimento scaturito dalle proteste di piazza degli “Indignados” e dalla formazione di sinistra in cui erano confluiti il Partito Comunista Spagnolo e altre formazioni minori, ha aggiunto due seggi a quelli ottenuti il 20 dicembre scorso, ma ha fatto nuovamente peggio del PSOE e ha visto di fatto ridimensionate le proprie ambizioni.

I voti totali raccolti da Unidos Podemos sono stati circa un milione in meno rispetto alla somma di quelli ottenuti separatamente sei mesi fa dalle due formazioni che hanno dato vita all’alleanza elettorale, a conferma che il numero di spagnoli che vede quest’ultima come una valida alternativa politica è oggi in netto calo.

Alcune delle responsabilità del suo leader, Pablo Iglesias, appaiono evidenti e hanno a che fare principalmente con l’eccessivo ammorbidimento dell’agenda progressista del movimento, così da accreditarsi come forza di governo agli occhi delle élites spagnole e internazionali, e al corteggiamento del PSOE dopo il voto di dicembre per mandare in porto un accordo che avrebbe potuto far nascere un gabinetto di centro-sinistra.

Podemos era nato come un movimento anti-establishment fortemente critico sia della “casta” che domina in Spagna sia delle politiche di austerity che hanno messo a durissima prova le classi più disagiate. Il PSOE, appunto, è uno dei due pilastri del sistema politico “corrotto” denunciato da Iglesias e i suoi, mentre, prima di essere sostituito dal PP, fu proprio il governo Socialista di Zapatero a implementare diligentemente le prime misure di rigore dopo la crisi del 2008.

Anche se numericamente un accordo di governo potrebbe essere ancora possibile tra il PSOE, Unidos Podemos e la galassia di partiti su base regionale entrati in Parlamento, il nuovo record negativo di consensi dei Socialisti e l’aura di sconfitta che pesa su Iglesias rendono questa soluzione ancora più improbabile rispetto a qualche mese fa.

Il PP è al contrario uscito rinfrancato da un voto anticipato che i suoi leader indubbiamente temevano. Il premier uscente, Mariano Rajoy, ha preso da subito l’iniziativa, proponendosi di creare un nuovo governo entro un mese. Come dopo il voto di dicembre, i seggi del PP e dell’altro partito di centro-destra, il neo-nato Ciudadanos (Cittadini), non bastano però a raggiungere la maggioranza assoluta, così che Rajoy dovrà percorrere altre strade per poter restare alla guida del governo.

Le ipotesi sono essenzialmente due, entrambe già valutate e scartate nei mesi seguiti alle elezioni di sei mesi fa. La prima prevede un accordo tra il PP e Ciudadanos, sempre che il leader di quest’ultimo movimento, Albert Rivera, lasci cadere la pregiudiziale della sostituzione di Rajoy, ritenuto troppo compromesso con i casi di corruzione emersi negli ultimi anni all’interno del suo partito.

I vertici di Ciudadanos, peraltro, non sembrano rispondere in maniera troppo rigorosa agli imperativi morali auto-imposti se in ballo vi è l’accesso alle stanze del potere. Già nei mesi seguiti al voto di fine 2015, infatti, Rivera aveva sottoscritto un accordo con il PSOE, accolto tuttavia non troppo favorevolmente dai suoi elettori, visto che domenica Ciudadanos ha perso circa l’1% dei consensi e 8 seggi alla Camera bassa (Congresso dei Deputati) del Parlamento di Madrid. Un’intesa su un governo di minoranza con Ciudadanos, in ogni caso, richiederebbe la disponibilità del Partito Socialista a fare astenere i suoi 85 deputati durante il voto di fiducia al nuovo gabinetto.

L’altra opzione che Rajoy sta valutando, e di gran lunga la preferita non solo sua ma anche degli ambienti economici e finanziari domestici e internazionali, è un governo di unità nazionale o una sorta di inedita “grande coalizione” con il PSOE. Questa soluzione permetterebbe all’apparenza di stabilizzare un sistema stravolto dal voto dello scorso dicembre.

A sottolineare questo punto, lunedì il sito web del magazine The Economist, ovvero uno dei principali organi di stampa della finanza internazionale, ha salutato il voto di domenica come un passo avanti nella risoluzione della crisi politica, individuando in una “grande coalizione” lo strumento più adatto a operare “i cambiamenti necessari… a consolidare la ripresa dell’economia, a frenare il separatismo catalano e a restituire legittimità al sistema politico”.

In definitiva, l’attestato di sfiducia alle forze che per quasi 40 anni hanno guidato la Spagna e che negli ultimi otto hanno portato avanti un processo di ristrutturazione dell’economia e dei rapporti di classe con conseguenze durissime per la gran parte della popolazione dovrebbe risolversi, almeno momentaneamente, con la conferma del predominio di queste stesse forze e con l’intensificazione delle odiate politiche di rigore, invocate da The Economist attraverso una serie di perifrasi attentamente studiate.

Che una di queste due soluzioni porti allo sblocco dello stallo nelle prossime settimane appare verosimile anche alla luce del fatto che Unidos Podemos sarà in grado di recuperare la spinta e l’entusiasmo affievolitisi dopo il voto di domenica solo agendo da opposizione a un governo PP-PSOE – o PP-Ciudadanos con tacito appoggio dei Socialisti – che, è facile prevedere, diventerà presto impopolare.

L’ostacolo principale resta piuttosto il PSOE stesso, al cui interno si era già discusso in maniera molto accesa dopo le elezioni di dicembre sull’opportunità di favorire un governo a guida Popolare, così come di accettare la proposta avanzata da Podemos. Lunedì, il numero uno Socialista, Pedro Sanchez, ha di nuovo escluso sia l’astensione che l’ingresso in un governo Rajoy. Le dichiarazioni non sono sembrate però una chiusura totale, anzi, Sanchez ha forse gettato le basi per una trattativa con il PP, ipotizzando l’astensione del deputato delle Canarie, Pedro Quevedo, indipendente eletto nelle file del PSOE, in un eventuale voto di fiducia a Rajoy.

Aperture, smentite, messaggi in codice e altro ancora si moltiplicheranno nei prossimi giorni, almeno fino a quando il PSOE prenderà una posizione ufficiale, con ogni probabilità il 9 luglio prossimo, data in cui è stata convocata la direzione del partito.

I dubbi che agitano i leader Socialisti non sono tanto per la natura fondamentalmente reazionaria che avrebbe il nuovo governo Rajoy, visto lo spostamento a destra del PSOE in questi anni, quanto le ripercussioni elettorali su un partito che ha già imboccato una netta parabola discendente negli ultimi appuntamenti con le urne e che rischia di finire nell’irrilevanza politica come è accaduto ad esempio al PASOK in Grecia.

Il caos esploso dopo il voto sulla “Brexit”, che ha in parte anche favorito il parziale recupero del PP rispetto a sei mesi fa, la situazione economica e finanziaria precaria della Spagna e le pressioni internazionali per risolvere la crisi politica a Madrid spingeranno però probabilmente il PSOE ad accettare un qualche accomodamento per far nascere un nuovo governo guidato dalla destra.

Rajoy, da parte sua, lunedì ha già anticipato la disponibilità del PSOE a trattare, mentre alcuni media hanno citato anonimi esponenti di rilievo di quest’ultimo partito che, nonostante la posizione ufficiale contraria del numero uno, Pedro Sanchez, hanno lasciato intendere non solo la disponibilità quanto meno a consentire la nascita di un esecutivo di minoranza del PP, ma a fare di tutto perché si giunga a un simile esito nel più breve tempo possibile.

di Fabrizio Casari

Con una distanza di quattro punti percentuali, la Gran Bretagna si concede una distanza definitiva dall’Unione Europea. A determinare la vittoria della Brexit sono stati gli elettori inglesi (in particolare quelli dei piccoli centri e delle campagne), mentre in Scozia e Irlanda ha prevalso il Remain. La specificazione non è un mero dettaglio, dal momento che Edimburgo è già intenzionata a riproporre il referendum sull’uscita dal Regno Unito, proprio con l’intenzione di non voler uscire dalla Ue.

Per alcuni analisti, l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è l’inizio della fine della UE e, contemporaneamente, anche della stessa Gran Bretagna, ma qui siamo sul terreno delle ipotesi futuribili.

Le conseguenze immediate sono state politiche, con le annunciate dimissioni di Cameron e l’indizione di elezioni il prossimo ottobre; e qui invece si apre uno scenario inquietante, vista l’inconsistenza dei Laburisti e la crescita esponenziale di Farage. Sul piano finanziario la reazione era quella che si prevedeva. Nonostante, infatti, le rassicurazioni di prassi fornite dalle rispettive banche centrali e dai diversi governi, le piazze finanziarie europee sono andate in apnea. Mercati azionari mai così in basso, tracollo delle borse, sterlina ai minimi storici, panico generalizzato nella comunità degli affari. E meno male che si diceva che era tutto sotto controllo.

Va detto che l’uscita della Gran Bretagna dalla UE è una sconfitta per Bruxelles e Berlino oltre che per Londra. La quale, seppure dovrà rinunciare alle clausole commerciali favorevoli tra i paesi membri della UE, avrà mano libera negli scambi con Cina e Russia, oltre che con gli USA, con i quali da sempre ha un rapporto privilegiato. Sarà tutto da dimostrare se sul breve e medio termine non ne ricavi benefici maggiori rispetto ad oggi.

L’Unione Europea, che perde volumi di stati, superficie, popolazione e PIL, subirà un impatto relativo sul piano della stabilità monetaria, dal momento che Londra non era parte dell’Unione Monetaria. Ma sebbene il Regno Unito sia sempre stato un membro particolare della UE, per storia, cultura, modello politico e alleanza militare, indissolubilmente legato agli Stati Uniti più che alla Commissione Europea, non vi sono dubbi che l’aspetto politico rappresenta uno schiaffo violento per la UE.

Il voto della Gran Bretagna è certamente espressione di una vocazione isolazionista che mal digerisce l'idea dell'integrazione europea. Non c'è dubbio che il populismo di destra è riuscito ad intercettare il malessere sociale e veicolarlo contro la dimensione continentale. Ma, parallelamente, non vi sono dubbi che sia anche indicativo di come l'attuale disegno europeo risulti inadeguato e a tratti ostile. La UE ha abbandonato da anni il sentimento federalista proposto dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. I valori fondamentali che animavano un progetto continentale costruito su un modello socioeconomico includente ed alternativo al monetarismo, sono stati invertiti.

Il “modello renano”, sul quale si basava il progetto sociale europeo è stato seppellito proprio da quel monetarismo che si voleva contrastare e, in preda alle convulsioni isolazioniste dei suoi paesi membri nell’approccio ai grandi temi - dall’immigrazione al dumping sociale - il vecchio continente ha dimostrato solo la sua mancanza d’integrazione culturale e politica. Molti sono i punti dei trattati ignorati o addirittura stravolti in assenza di qualunque presa di posizione dell’Unione e, nello stesso tempo, nessun progetto unitario sul piano della politica estera e di difesa è mai stato prossimo alla costruzione. E sia chiaro: Londra, che oggi esce, è stata soggetto preminente di queste scelte, dunque nel voto sulla Brexit è implicito anche un voto sull’establishment britannico.

Dopo un decennio a trazione tedesca, che ha consentito per Berlino un costante surplus di bilancio ai danni degli altri paesi cui è toccato un surplus di crisi economica, la UE è stata incapace di proporre politiche di crescita, al punto di collocare l’eurozona agli ultimi posti al mondo per la capacità di recupero dei livelli pre-2008. La promessa di generazione di ricchezza diffusa è stata sostituita dalla più grande crisi continentale del mercato del lavoro degli ultimi sessant’anni, a fronte di un arricchimento sproporzionato della Germania, e le regolette sulla misura dei mitilli sono state avvertite come le uniche aree di competenza del Parlamento Europeo.

L’Unione Europea si è rivelata un club esclusivo di banchieri e burocrati, che con le politiche di austerity dall’evidente conseguenza recessiva hanno ridotto in pezzi l’identità sociale ed economica delle popolazioni. Per questo Bruxelles rappresenta oggi un governo ostile agli occhi dei 500 milioni di europei.

E non hanno certo giovato l’applicazione burocratica di norme e regolamenti che, indifferenti al senso delle proporzioni ed anche alla decenza, hanno aperto lo spazio europeo a paesi che, per proporzioni e peso specifico, non possono certo rappresentare i valori e principi su cui la UE venne costruita. Basti pensare all'Ungheria di Orban nelle vesti di presidente di turno della Ue o a Romania o Polonia, che dopo aver inondato di migranti l’intera Europa, rappresentano oggi la voce più intransigente contro l’immigrazione. Peraltro la connessione sentimentale della destra nostalgica con i populismi euroscettici trova proprio nel rifiuto dell'accoglienza dei migranti il cortocircuito decisivo. I festeggiamenti di oggi della Le Pen e camerati vari indicano come sia la distruzione dell'idea di Europa, più che della UE, l'obiettivo finale. E' quindi il momento d'invertire la rotta dell'Europa, prima che essa s'incagli definitivamente sugli scogli del nuovo fascismo.

Certo, si deve riconoscere che Khol e Mitterrand non hanno avuto eredi all’altezza: Merkel, Hollande o Junker - quest’ultimo poi rappresenta una banca off-shore che si fa stato - non sono certo assimilabili alla categoria degli statisti che servirebbero per affrontare una crisi di civiltà come quella che il mondo intero attraversa e che dei valori che indicarono l'unità continentale avrebbe più che mai bisogno. La guerra del capitale contro il lavoro, la progressiva caduta dei livelli di welfare che azzera ogni principio di perequazione interna, l’approfondirsi della contraddizione tra sviluppo e ambiente, i rigurgiti di ideologie autoritarie che si richiamano al nazifascismo e si diffondono in parte del continente, assumono il volto di un epoca buia. Proprio ora servirebbe più Europa.

L’Unione Europea, purtroppo, dichiara invece la sua incapacità di proporre un modello d’interpretazione della realtà e, presa dalla priorità assoluta delle politiche finanziarie, si dimostra incapace di assumere la sfida culturale e politica alle grandi incognite di inizio secolo e di prefigurarne uno sbocco progressista. Viene percepita come uno spazio angusto, soffocante, privo di spinta propulsiva, che mentre aumentano povertà, disoccupazione e disagio, imprigiona l'eurozona nei dettami ideologici dell'ultramonetarismo, che elegge a faro della sua identità il rigore di bilancio.

Per l’Europa, la Brexit può divenire l’occasione per ridurre il peso politico della Germania, unica possibilità di fermare l’effetto domino di una volontà di rottura con la UE che appare difficilmente arrestabile per quanto sbagliata. Serve più Europa proprio per ridisegnare un progetto diverso da quello applicato fino ad ora. Per Londra, in attesa di verificare quanto e come pagherà lo strappo, è il momento di ripetersi il loro vecchio detto che in caso di maltempo sulla Manica, recita: “Il continente è isolato”.

di Michele Paris

Dopo il ritiro dei rivali dalla corsa alla nomination per il Partito Repubblicano ai primi di maggio, Donald Trump ha visto la sua campagna elettorale per la Casa Bianca sprofondare in un grave stato di crisi. Oggi, l’imprenditore miliardario si trova nettamente indietro rispetto a Hillary Clinton, sia nei sondaggi su scala nazionale sia in quelli condotti negli stati decisivi per il successo di novembre, mentre la macchina della raccolta fondi arranca pericolosamente ed è tornata all’ordine del giorno anche l’ipotesi clamorosa di dirottare il sostegno del partito verso un altro candidato nel corso della convention di luglio.

Sugli affanni di Trump in questa fase della sfida per la presidenza degli Stati Uniti pesa indubbiamente la sua inesperienza politica e il confronto con una vera e propria corazzata organizzativa come quella della ex first lady, in grado di contare su agganci formidabili con ampie sezioni della classe dirigente americana e sull’appoggio compatto dell’establishment Democratico.

Tenendo in considerazione però che Hillary Clinton è la seconda personalità politica di primo piano più disprezzata dagli elettori negli USA, dopo Donald Trump, gli stenti di quest’ultimo sono tutto fuorché il risultato dell’aumento della popolarità della sua rivale.

Le ultime settimane hanno visto piuttosto una serie di episodi nei quali Trump è riuscito ancora una volta a tirarsi addosso una valanga di critiche da parte della stampa e di buona parte dei suoi stessi compagni di partito. Particolarmente deleteria sembra essere stata la sua accusa a un giudice americano di origine latino-americana di non poter essere imparziale nel giudicarlo nell’ambito di un procedimento legale che lo vede indagato per avere truffato alcuni ex studenti della defunta Trump University.

Le critiche del candidato alla Casa Bianca facevano riferimento a possibili pregiudizi del giudice viste le numerose uscite razziste e xenofobe di Trump nei confronti degli immigrati ispanici. Dello stesso tono è stato poi anche il commento seguito alla strage di Orlando dello scorso 13 giugno, in seguito alla quale Trump aveva rilanciato la proposta di impedire l’ingresso negli USA a tutti i musulmani.

I sentimenti e le opinioni che circolano all’interno del Partito Repubblicano non sono in realtà molto più progressisti di quelli espressi da Trump. La censura nei suoi confronti ha a che fare più che altro con i timori che i Repubblicani possano perdere ulteriori consensi tra gli appartenenti a minoranze etniche, già poco orientati a sostenere il loro partito.

Le polemiche attorno alla candidatura di Trump riflettono ad ogni modo le dinamiche che hanno caratterizzato la sua ascesa e gli aspetti di una campagna decisamente diversa da quella di un qualsiasi tipico candidato Repubblicano alla nomination per la Casa Bianca.

Trump ha potuto cioè sbaragliare i suoi rivali più graditi ai vertici del partito e conquistare il numero record di 14 milioni di voti nel corso delle primarie in larga misura proprio grazie a una campagna tutt’altro che convenzionale, costruita al preciso scopo di creare un’immagine da “outsider”.

Allo stesso tempo, però, gli aspiranti alla presidenza per i due principali partiti americani devono in qualche modo adeguarsi o trovare un compromesso con le esigenze dell’establishment, sia in termini formali che di sostanza, soprattutto nel passaggio dalle primarie alla campagna per la presidenza vera e propria.

Questo conflitto si è consumato in qualche modo all’interno dello stesso team di Donald Trump e si è forse risolto nei giorni scorsi con il licenziamento del responsabile delle operazioni, Corey Lewandowski, vero e proprio punto di riferimento per gli elementi fascistoidi emersi fin qui nella campagna elettorale dell’uomo d’affari di New York.

Con l’uscita di scena forzata di Lewandowski, il comando delle operazioni in casa Trump è passato al suo rivale interno già assunto qualche mese fa, Paul Manafort, ex lobbysta con una lunga esperienza nelle campagne elettorali Repubblicane e quindi molto più ben visto dai leader del partito.

Questi ultimi rimangono comunque in ansia per la gestione delle operazioni dell’organizzazione di Trump. Il candidato Repubblicano alla presidenza, secondo i dati più recenti, dispone di appena 1,3 milioni di dollari contro i 42 di Hillary, mentre da quasi due mesi non ha commissionato un solo spot elettorale negli stati che si prevede saranno maggiormente in bilico a novembre.

La questione del finanziamento della campagna elettorale e della raccolta fondi è determinante nel sistema americano, dove la selezione del potere è sostanzialmente affidata al denaro e a chi ne detiene in misura tale da potere influenzare la politica. I grandi finanziatori Repubblicani sono attualmente alla finestra, sia per la precarietà della posizione di Trump sia perché qualsiasi donazione andrebbe in buona parte nelle sue casse private e in quelle della sua famiglia.

Trump ha infatti usato finora svariati milioni di dollari per pagare servizi forniti alla sua campagna elettorale da aziende di sua proprietà o di qualche famigliare. Allo stesso modo, i quasi 50 milioni di dollari del suo patrimonio usati per finanziare le operazioni delle primarie sono in realtà un prestito - di fatto a se stesso - che dovrà essere ripagato con le donazioni dei sostenitori Repubblicani.

L’ostilità dei finanziatori Repubblicani nei confronti di Trump è dunque accentuata da queste circostanze e potrebbe risultare decisiva nel prosieguo della sfida con Hillary Clinton. Il commentatore conservatore George Will, ostile a Trump, ha scritto ad esempio recentemente sul Washington Post che i ricchi donatori “possono salvare il loro partito negando il loro aiuto al suo candidato”.

Le speranze dell’ampio fronte Repubblicano anti-Trump sono legate anche ai tentativi di alcuni delegati che saranno presenti alla convention di Cleveland per modificare in parte le regole di voto stabilite dal partito. Anche se il processo appare complicato, teoricamente esiste un modo per svincolare dai risultati delle primarie i delegati chiamati a scegliere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca già alla prima votazione. In questo modo, a Trump sarebbe negata la maggioranza dei consensi dei delegati, così che in una seconda votazione la nomination potrebbe essere assegnata a un candidato diverso.

La testata on-line Politico ha spiegato questa settimana come ci siano già alcune decine di delegati intenzionati a percorrere questa strada e altri ancora potrebbero essere convinti nelle prossime settimane a liquidare Trump. Nomi importanti dell’orbita Repubblicana hanno d’altra parte evitato di sostenere formalmente Trump o si sono addirittura espressi contro di lui, come il candidato alla Casa Bianca del 2012, Mitt Romney, o più recentemente il governatore del Wisconsin, Scott Walker, per un breve periodo tra i contendenti alla nomination in questa tornata elettorale.

L’impressione prevalente è comunque che un simile colpo di mano per estromettere Trump dalle presidenziali non sarà alla fine attuato. Questo piano rischierebbe di spaccare il Partito Repubblicano e di consegnare non solo la Casa Bianca ma forse anche il Congresso ai Democratici. La sola esistenza di disegni di questo genere, presi in considerazione seriamente da una parte del partito, è però indicativa della situazione di crisi esistente tra i Repubblicani.

Le elezioni di novembre sono in ogni caso ancora lontane e gli equilibri della corsa alla Casa Bianca potrebbero facilmente cambiare in maniera anche rapida. Gli scenari politici e il clima sociale negli USA risultano estremamente instabili, mentre l’avversione per tutto ciò che viene identificato con il sistema di Washington è in continua crescita.

Non solo, la stessa Hillary Clinton, oltre a essere vista correttamente come un mero strumento delle élite economico-finanziarie, dei militari e dell’intelligence, continua a essere minacciata dalla questione dell’uso illegale di un server di posta elettronica privato quando era al Dipartimento di Stato.

A giudicare dall’atteggiamento della stampa ufficiale e dei poteri forti in queste prime battute delle presidenziali, tuttavia, appare evidente la loro netta preferenza per la candidata Democratica, identificata come quella maggiormente affidabile per la difesa e la promozione degli interessi delle forze che rappresentano il tradizionale apparato di potere degli Stati Uniti.

di Michele Paris

I 28 paesi membri dell’Unione Europea hanno offerto martedì a Bruxelles un’apparente dimostrazione di unità sulla questione del prolungamento delle sanzioni economiche in vigore dal 2014 contro la Russia per le presunte responsabilità di Mosca nella crisi in Ucraina. Dietro le apparenze, continuano tuttavia a persistere profonde divisioni e crescenti perplessità nei confronti di una linea dura essenzialmente dettata da Washington, tanto che proprio esponenti del paese europeo più influente - la Germania - hanno preso posizioni molto nette contro la condotta dell’UE, invocando al più presto un processo di distensione con la Russia.

Grande risonanza e reazioni stizzite ha suscitato in particolare l’intervista del ministro degli Esteri del governo di “grande coalizione”, Frank-Walter Steinmeier, pubblicata lo scorso fine settimana dalla testata tedesca Bild am Sonntag. Le parole del capo della diplomazia di Berlino, appartenente al Partito Social Democratico (SPD), sono apparse a molti come una vera e propria rottura pubblica del fronte anti-russo, tanto da risultare indistinguibili da quelle che governi e media occidentali potrebbero attribuire a organi di propaganda del Cremlino.

Oltre alle aperte “minacce di guerra” indirizzate alla Russia dai leader dei governi e dai vertici militari occidentali, Steinmeier ha criticato duramente la militarizzazione in atto dei confini orientali dell’Europa attraverso un processo di mobilitazione condotto dalla NATO che rischia di “infiammare la situazione”. Il ministro degli Esteri della Cancelliera Merkel ha poi avvertito che “chiunque pensi di rendere più sicura [l’Europa] attraverso sfilate simboliche di carri armati lungo i confini orientali dell’Alleanza sta ingannando se stesso”. Consigliando di evitare di offrire “pretesti per un nuovo confronto”, Steinmeier ha infine invitato a percorrere la strada “del dialogo e della cooperazione” con Mosca.

Se l’esistenza di posizioni quanto meno sfumate sui rapporti con la Russia all’interno della classe dirigente tedesca è ben nota, le esternazioni pubbliche di Steinmeier sono per certi versi clamorose. Non solo esse sono state pubblicate nell’immediata vigilia del summit dei 28 ambasciatori UE, che intendeva dare il via libera preliminare alla conferma delle sanzioni contro Mosca, ma anche a pochi giorni dalla conclusione della massiccia esercitazione militare “Anaconda” in Polonia, considerata una chiara provocazione rivolta alla Russia e a cui ha partecipato anche un contingente tedesco.

Inoltre, la NATO terrà un vertice cruciale a Varsavia tra due settimane, nel quale dovrebbe essere deciso lo stanziamento di migliaia di nuovi soldati in alcuni paesi dell’ex blocco sovietico. Nel frattempo, il Patto Atlantico ha poi annunciato l’applicazione del famigerato Articolo V, che obbliga i paesi membri a intervenire militarmente in difesa di uno qualsiasi di loro nel caso venisse aggredito, anche nell’eventualità di un “cyber-attacco” da parte di paesi come Russia o Cina.

Su queste e altre decisioni o iniziative anti-russe, il governo di cui Steinmeier fa parte ha sempre dato il proprio assenso. Inevitabilmente, così, le sue dichiarazioni hanno spaccato il panorama politico tedesco. A livello generale, esponenti dell’Unione Cristiano Democratica (CDU) della Merkel, la stampa allineata a questo partito, ma anche una parte dei parlamentari della SPD hanno censurato il ministro degli Esteri.

Questa settimana è giunta inoltre la condanna da parte della NATO e dei vertici militari degli Stati Uniti. In quella che è sembrata essere una risposta coordinata, alti ufficiali militari americani e il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, hanno assurdamente negato la natura minacciosa delle esercitazioni militari in Europa orientale. Ugualmente, queste ultime e la moltiplicazione delle truppe ai confini con la Russia sono state di nuovo giustificate come misure difensive per far fronte all’aggressività di Mosca.

In molti nella SPD e negli ambienti vicini al partito hanno al contrario applaudito alle affermazioni di Steinmeier, invitando talvolta il governo Merkel a fare proprie le posizioni concilianti nei confronti della Russia. L’ex cancelliere Social Democratico, Gerhard Schröder, è stato prevedibilmente tra i più accesi difensori dell’ex collaboratore, auspicando la cancellazione delle sanzioni significativamente nel corso di un intervento dedicato al 75esimo anniversario dell’inizio dell’invasione Nazista dell’Unione Sovietica.

Com’è facile intuire, Steinmeier o Schröder non sono mossi da sentimenti pacifisti disinteressati, ma parlano in sostanza per quegli interessi economici che si vedono penalizzati dal deterioramento delle relazioni con la Russia. Ciò conduce quindi alla questione centrale sollevata dalla presa di posizione di Steinmeier sulle pagine della Bild, vale a dire la crescente divergenza di interessi tra la Germania e le altre potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti.

Almeno una parte del business tedesco ritiene cioè che i propri interessi possano essere meglio promossi attraverso il perseguimento di una politica estera più indipendente e che, nel caso specifico, consenta di guardare a oriente, ovvero alla Russia ma anche alla Cina, con un’attitudine diversa, ad esempio, da quella di Washington.

In questo quadro, è evidente che le parole del fine settimana scorso del numero uno della diplomazia di Berlino non sono tanto quella boccata di aria fresca nello scontro con Mosca che molti commentatori non allineati alla propaganda occidentale hanno accolto con favore. Le pesanti critiche di Steinmeier alla NATO, pur descrivendo in modo corretto la situazione attuale, indicano piuttosto un acuirsi della conflittualità che attraversa pericolosamente il capitalismo occidentale e che, come hanno insegnato gli eventi della prima metà del secolo scorso, non lascia intravedere sviluppi pacifici.

Queste spinte che vengono dall’interno della classe dirigente tedesca non sono ancora visibili, se non in misura minima, nella linea ufficiale del governo Merkel. Tuttavia, quello analizzato sembra essere un processo oggettivo che trapela ormai attraverso le parole di esponenti di primo piano del mondo politico e degli affari e che, ad esempio, potrebbe manifestarsi in maniera più evidente con l’avvicinarsi delle elezioni parlamentari che la Germania terrà il prossimo anno.

Non a caso, d’altra parte, il vice-Cancelliere Social Democratico, Sigmar Gabriel, qualche giorno fa ha prospettato un probabile rifiuto da parte del suo partito a prendere parte a una nuova “Große Koalition” con la CDU/CSU dopo il voto del 2017. Lo stesso Gabriel, poi, settimana prossima si recherà a Mosca per incontrare Putin, a conferma degli orientamenti divergenti della SPD in materia di politica estera.

In definitiva, l’uscita dalla logica delle sanzioni e dello scontro a cui aspira una parte delle élites tedesche è da collegare alle rinnovate ambizioni da grande potenza di Berlino, evidenti anche dall’impulso alla militarizzazione che sta caratterizzando il governo Merkel e determinate dall’indebolimento sempre più marcato degli Stati Uniti e dello stesso progetto unitario europeo dopo la crisi del 2008.

Per comprendere meglio questo legame è utile ricordare un articolo firmato dallo stesso Frank-Walter Steinmeier e apparso una decina di giorni fa sul prestigioso “magazine” americano Foreign Affairs. Il pezzo era sostanzialmente un’affermazione dell’ambizione della Germania a svolgere un ruolo di primaria importanza sul piano internazionale e, a ben vedere, aveva rappresentato una sorta di premessa all’intervento successivo sulla Bild a proposito della Russia.

Su Foreign Affairs, Steinmeier ha parlato della necessità di “reinterpretare i principi che hanno guidato la politica estera [tedesca] per oltre mezzo secolo”, in conseguenza del venir meno della “illusione di un mondo unipolare”, nel quale avrebbero dovuto essere evidentemente gli Stati Uniti a fungere da faro per il resto del mondo.

Una simile analisi si traduce inevitabilmente in considerazioni sul ruolo di Washington a tratti non meno dure di quelle pronunciate in seguito sulle relazioni con la Russia. Steinmeier ha cioè spiegato come “la nostra esperienza storica abbia distrutto ogni fiducia nell’eccezionalismo di un qualsiasi paese”, mandando così un messaggio di rifiuto inequivocabile alla pretesa americana di affermarsi come unica e sola “super-potenza” globale destinata a guidare il pianeta dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

di Michele Paris

Dopo la strage nella discoteca di Orlando di dieci giorni fa, il dibattito tra i politici e sui media negli Stati Uniti sta ruotando attorno alle circostanze della radicalizzazione del responsabile delle 49 vittime, il cittadino americano di origine afgana, Omar Mateen. Se il killer aveva offerto il suo giuramento di fedeltà all’autoproclamato califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, durante l’attacco del 12 giugno, a contribuire alla sua radicalizzazione in questi anni potrebbero però essere state forze molto lontane dal fondamentalismo sunnita in Medio Oriente.

Tra le varie notizie emerse dopo i fatti di Orlando, la più interessante e potenzialmente ricca di implicazioni è stata riportata in un’intervista pubblicata da un giornale della Florida meridionale. A parlare è stato lo sceriffo della contea di St. Lucie, Ken Mascara, il quale ha rivelato che Mateen era stato da lui segnalato all’FBI nel 2013 per il comportamento inappropriato che era solito tenere quando lavorava come guardia di sicurezza per la compagnia privata G4S in un tribunale della Florida.

Secondo Mascara, Mateen aveva minacciato di far uccidere un suo vice da al-Qaeda e inveiva spesso contro donne ed ebrei. Mateen era stato allora messo sotto indagine da parte dell’FBI e, soprattutto, il “Bureau” aveva piazzato un proprio informatore al tribunale dove prestava servizio per cercare di coinvolgerlo in una qualche operazione sotto copertura, che però non ebbe successo.

Quest’ultima dichiarazione dello sceriffo della contea di St. Lucie, anche se virtualmente ignorata dai media ufficiali, è di particolare importanza perché si collega a una pratica consueta dell’FBI nel post-11 settembre. In altre parole, Omar Mateen, viste le sue origini, le presunte simpatie per il fondamentalismo islamico e la probabile instabilità mentale, era stato scelto dalla polizia federale americana per essere incastrato in un qualche caso di terrorismo costruito in larga misura a tavolino dallo stesso FBI.

Secondo la versione ufficiale, l’indagine su Mateen sarebbe stata chiusa dopo alcuni mesi e il piano di trascinarlo in una finta trama terroristica lasciato cadere. Tuttavia, i particolari che si conoscono sulle modalità con cui l’FBI costruisce casi di terrorismo sul suolo americano sollevano più di un dubbio circa la possibilità che i propri informatori o agenti sotto copertura abbiano potuto contribuire alla radicalizzazione di Mateen.

Gli individui che finiscono in questo modo nella rete dell’FBI sono regolarmente incoraggiati a manifestare le proprie simpatie per gruppi estremisti come al-Qaeda o l’ISIS, mentre gli uomini dell’FBI in incognito offrono loro il proprio aiuto nel reperire armi ed esplosivi, ma anche nell’individuare bersagli da colpire. Solitamente, i potenziali terroristi vengono arrestati prima di commettere azioni violente, organizzate però proprio dall’FBI e che per loro iniziativa non verrebbero mai portate a termine.

Nel caso di individui che manifestano un disagio psichico o sociale, come appunto Omar Mateen, non è da escludere che queste operazioni clandestine dell’FBI abbiano potuto agire da stimolo e concretizzarsi drammaticamente con le modalità registrate nel gay club Pulse di Orlando. In questo e in altri casi di terrorismo, ciò aiuterebbe anche a spiegare il fatto che gli attentatori sono puntualmente già noti da tempo alle autorità.

Un’altra circostanza quasi del tutto trascurata dalla stampa “mainstream” negli USA sembra alimentare ulteriormente questi dubbi. Mateen era ciò in qualche modo in contatto con Marcus Robertson, ex Marine diventato fuorilegge e poi informatore del governo americano. Robertson aveva lavorato per la CIA raccogliendo informazioni in vari paesi sugli estremisti islamici, prima di essere ufficialmente estromesso dal programma nel 2007.

Tra il 2004 e il 2007 aveva operato sotto copertura anche per l’FBI all’interno degli Stati Uniti, verosimilmente nel quadro delle operazioni “anti-terrorismo” sotto copertura descritte in precedenza. Robertson è oggi a capo di un progetto fondamentalista chiamato “Timbuktu Seminary” che, secondo alcuni, non potrebbe esistere se non fosse una trappola del governo per attirare simpatizzanti jihadisti.

Queste perplessità sono alimentate dal fatto che, per stessa ammissione dell’FBI, non è stato possibile riscontrare legami o contatti diretti tra Omar Mateen e l’ISIS. Il presunto processo di radicalizzazione attraversato da quest’ultimo, indubbiamente sovrappostosi alla situazione di disagio nella quale viveva da tempo, avrebbe dunque potuto avvenire proprio grazie alla consolidata rete di informatori operata dall’apparato della sicurezza nazionale americana, volta sostanzialmente a fabbricare minacce terroristiche per tenere alto il livello di guardia nel paese.

L’attenzione dei media d’oltreoceano in questi giorni non si sta in ogni caso concentrando su questi interrogativi, bensì sulla decisione dell’FBI di omettere inizialmente il riferimento di Mateen all’ISIS quando è stato reso noto il contenuto delle sue telefonate al numero di emergenza 911 e con i negoziatori del governo durante l’attacco alla discoteca di Orlando.

Sull’FBI sono piovute le critiche soprattutto dei leader Repubblicani, i quali hanno denunciato un possibile tentativo di occultare le motivazioni di Mateen. In realtà, proprio l’FBI ha cercato di promuovere la versione dell’attentato terroristico di matrice islamista, per mezzo di almeno un’iniziativa che risulta coerente con gli sforzi del “Bureau” di alimentare la minaccia jihadista negli Stati Uniti.

Il fidanzato della ex moglie di Mateen ha cioè affermato in una recente intervista a una televisione brasiliana che l’FBI aveva chiesto alla coppia di non rivelare alla stampa le probabili tendenze omosessuali dell’attentatore, nel tentativo appunto di orientare l’opinione pubblica sulla versione del terrorismo islamista.

Se i contorni della vicenda appaiono a tratti ancora oscuri, quel che è certo è che il lavoro dell’FBI e degli organi del governo USA ha permesso di sfruttare il massacro di Orlando per promuovere una nuova escalation militare all’estero – ufficialmente contro l’ISIS – e nuove iniziative anti-democratiche sul fronte domestico.

Infatti, il presidente Obama, dopo la strage, aveva subito annunciato un’intensificazione della guerra contro il “califfato” in Medio Oriente, mentre i due candidati alla sua successione - Hillary Clinton e Donald Trump - si erano affrettati a promettere rispettivamente un aumento dei poteri di sorveglianza dell’intelligence e una schedatura di massa di tutti i musulmani presenti sul territorio degli Stati Uniti.


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