di Mario Lombardo

L’ostilità degli abitanti di Okinawa nei confronti delle decine di migliaia di soldati americani presenti sull’isola giapponese è tornata a riesplodere in questi giorni dopo l’ultimo della lunga serie di crimini commessi da membri del contingente militare USA. Nella capitale della prefettura più meridionale del Giappone, nel fine settimana è andata in scena quella che gli organizzatori hanno definito come la più massiccia manifestazione anti-americana degli ultimi vent’anni.

I 65 mila partecipanti hanno protestato contro lo stupro e l’assassinio della 20enne Rina Shimabukuro, sparita lo scorso 28 aprile e ritrovata senza vita il 19 maggio. Il responsabile sarebbe l’ex marine Kenneth Franklin Gadson, oggi “contractor” delle forze armate statunitensi presso la base aerea Kadena. Quest’ultimo è stato arrestato e avrebbe ammesso di avere violentato, accoltellato e strangolato la giovane, prima di occultarne il cadavere in una zona boscosa.

Le proteste dei residenti dell’isola scaturite da questo episodio si sono subito saldate al sentimento di avversione generalizzato verso le basi militari americane ospitate a Okinawa. In particolare, da anni la maggioranza della popolazione si batte contro l’accordo tra Washington e il governo di Tokyo per trasferire la base Futenma dei Marines USA dal centro urbano di Ginowan alla località di Henoko, lungo la costa settentrionale.

Se la presenza della base Futenma ha causato e continua a essere causa di crimini, ma anche di forte rumore e inquinamento, per ragioni ambientali coloro che vivono a Okinawa si oppongono al suo spostamento verso un’area attualmente incontaminata. Allo stesso tempo, la resistenza ai piani di trasloco si è trasformata ormai per molti nella richiesta di evacuazione totale dei militari americani dall’isola.

Okinawa sopporta d’altra parte in maniera sproporzionata il peso della presenza militare USA in Giappone. Per la sua posizione strategica, sull’isola, controllata direttamente dagli americani fino al 1972 e teatro di sanguinosi scontri durante la Seconda Guerra Mondiale, si trovano circa 30 mila soldati USA sui 47 mila totali ospitati dal Giappone.

Gli abitanti di Okinawa sono costretti così a subire i crimini commessi dai militari USA, spesso protetti dalle conseguenze legali delle loro azioni grazie agli accordi tra i due governi. Particolare repulsione e manifestazioni di massa aveva suscitato lo stupro di una 12enne giapponese nel 1995 da parte di tre marines americani. Proprio questa vicenda aveva spinto Washington e Tokyo a concordare il trasferimento della base Futenma in un’altra località dell’isola.

Altri casi si sono verificati anche negli ultimi mesi, oltre all’assassinio di Rina Shimabukuro. A marzo, un militare americano aveva violentato una turista giapponese in vacanza a Okinawa, mentre a maggio un ufficiale era stato arrestato per molestie e percosse ai danni di una studentessa giapponese di 19 anni. Ai primi di giugno, infine, una donna soldato americana ubriaca alla guida di un’auto aveva causato un incidente stradale nel quale erano rimaste ferite due persone.

I manifestanti scesi nelle piazze della principale città di Okinawa nel fine settimana hanno firmato una petizione per chiedere il ritiro dei Marines americani dall’isola, rilevando come questi ultimi si siano resi responsabili di quasi seimila crimini a partire dal 1972, di cui poco meno di 600 classificabili come “gravi”.

L’insofferenza diffusa tra la popolazione di Okinawa per la presenza militare americana si riflette anche sulle vicende legali connesse al trasferimento della base Futenma. Il governatore dell’isola, Takeshi Onaga, lo scorso autunno aveva revocato i permessi per la costruzione delle nuove strutture destinate a ospitare i Marines, ma il governo di Tokyo, guidato dal premier ultra-conservatore Shinzo Abe, aveva imposto il congelamento di questa direttiva.

Il caso è finito poi all’attenzione di un consiglio competente sulle dispute tra le autorità locali e centrali in Giappone, il quale ha però evitato di emettere un verdetto definitivo, invitando invece le parti a negoziare una soluzione di compromesso, al momento difficilmente raggiungibile.

Le forze politiche locali che negli ultimi tempi hanno cavalcato le proteste popolari contro i militari USA non sono in ogni caso contrari in linea di principio all’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti, da cui dipende appunto la situazione venutasi a creare a Okinawa, ma cercano per lo più di sfruttare il malcontento nell’isola per i propri calcoli politici.

Anche per questa ragione, l’insofferenza della maggior parte della popolazione di Okinawa verso i militari americani minaccia di aumentare ulteriormente nel prossimo futuro. Tanto più che né Washington né Tokyo intendono fare concessioni sostanziali su questo fronte, visto il rilievo strategico dell’isola.

Okinawa, situata a poche centinaia di chilometri dalle coste della Cina, ha un ruolo decisivo nei piani di militarizzazione del paese del governo Abe, già concretizzati nella “reinterpretazione” della Costituzione pacifista del paese per assegnare maggiori funzioni alle forze armate.

Il Giappone è inoltre integrato nella strategia di accerchiamento della Cina promossa dagli Stati Uniti, i quali considerano a loro volta la presenza di un contingente militare sull’isola una componente cruciale dei propri piani di guerra contro Pechino.

In questo quadro è facile comprendere il motivo per cui il governo americano continui a mostrarsi irremovibile sia sulla questione della presenza dei propri militari a Okinawa sia sul rispetto dell’accordo con Tokyo circa il trasferimento della principale base dell’isola, nonostante la crescente e più che comprensibile ostilità della popolazione locale.

di Carlo Musilli

“Una scelta esistenziale senza possibilità di ritorno”. Così, dalle colonne del Times, il premier britannico David Cameron ha definito il referendum sulla Brexit che si terrà mercoledì 23 giugno. “Rischiamo di commettere un grave errore - ha aggiunto il numero uno di Dowing Street - che porterebbe il Paese in una debilitante incertezza per almeno un decennio”. Cameron ha poi chiarito che, anche in caso di vittoria del “Leave”, non intende abbandonare la guida del Governo, perché si considera l’uomo più adatto a trattare con Bruxelles.

Intanto, però, i sondaggi confermano che sui risultati del referendum peserà molto l’onda emotiva scatenata dalla morte di Jo Cox, la parlamentare laburista uccisa la settimana scorsa da un fanatico per il suo attivismo contro la Brexit. La prima rilevazione dopo l’omicidio vede il “Remain” di nuovo in vantaggio sul “Leave”, anche se di poco (45 contro 42%). A fare la differenza, stando a questi numeri, saranno ancora una volta gli indecisi.

La situazione appare tuttavia molto meno incerta se guardata con gli occhi dei bookmaker, cui gli operatori finanziari danno spesso più credito che ai sondaggisti. Secondo le rilevazioni di Ladbrokes, una delle più grandi case di scommesse anglosassoni, la probabilità che il Regno Unito rimanga in Europa è del 73 percento. Un margine davvero ampio, forse troppo, ma che si è allargato di ben 10 punti percentuali all’indomani dell’omicidio Cox. Ladbrokers, in sostanza, conferma che questo referendum ha davvero poco di razionale: comunque andrà a finire, sembra proprio che la maggior parte degli elettori britannici voglia prendere questa decisione usando molto lo stomaco e poco i neuroni.

Eppure, basterebbe riflettere davvero poco per rendersi conto che per Londra uscire dall’Unione europea sarebbe una follia da qualsiasi punto di vista. Innanzitutto per le conseguenze economiche immediate: secondo l’Ocse, con la Brexit il Pil del Paese calerebbe di almeno il 3% entro il 2020, mentre le Confindustria britannica stima che i posti di lavoro a rischio sarebbero addirittura un milione. La sterlina cadrebbe a picco (-15/20% per Goldman Sachs) e il cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha detto che i prezzi degli immobili potrebbero registrare un calo compreso fra il 10 e il 18% nel giro di due anni. Non solo: le più importanti banche internazionali fuggirebbero dalla City di Londra (per trasferirsi probabilmente a Dublino), il sistema sanitario entrerebbe in crisi e lo Stato non avrebbe più abbastanza soldi per pagare tutte le pensioni. Intanto, sui mercati si scatenerebbe il panico.

L’economia e la finanza, però, non sono tutto. La Brexit aprirebbe anche una serie di problemi dal punto di vista politico e diplomatico, incertezze molto gravi cui il fronte del “Leave” non ha mai dato alcuna risposta. In primo luogo, al di là del generico effetto contagio in tutta Europa (è facile prevedere che un po’ ovunque prenderebbero piede i movimenti per uscire dall’Ue), Londra rischia di non poter più evitare la spaccatura con Edimburgo.

Se in Scozia vincerà il no alla Brexit, mentre il resto del Regno Unito voterà per staccarsi da Bruxelles, gli scozzesi chiederanno di organizzare un secondo referendum per decidere se seguire l’UK o abbandonarlo per rimanere in Europa. A quel punto, il governo centrale non avrà più armi per evitare la secessione, perché molti degli argomenti pretestuosi impiegati dalla propaganda pro-Brexit potrebbero essere usati anche dai nazionalisti scozzesi per sostenere la causa dell’indipendenza da Londra.

C’è poi la questione irlandese. Gli antieuropeisti vogliono mettere sotto controllo il numero di immigrati comunitari che ogni entrano nel Regno Unito e questo significa che bisognerebbe chiudere il confine fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. In caso contrario, infatti, qualsiasi europeo potrebbe prendere un aereo per Dublino e di lì un treno per Belfast, ritrovandosi senza alcun controllo sul suolo di Sua Maestà. D’altra parte, la chiusura della frontiera danneggerebbe non poco l’economia nordirlandese e rischierebbe di mettere a rischio la pace nell’Ulster.

Infine, il problema del commercio. I fautori della Brexit hanno chiarito che intendono abbandonare il mercato unico europeo e porre fine alla libera circolazione. Da questo si deduce che non punteranno a accordi sulla falsariga di quelli siglati con l’Ue da Norvegia e Svizzera, che godono di un ampio accesso al mercato europeo. Qualcuno ha parlato di prendere a modello il sistema adottato dal Canada per le relazioni con l’Unione, altri hanno tirato in mezzo l’Albania. L’unica certezza è che il Regno Unito non avrebbe mai più pieno accesso al mercato europeo, da cui dipende circa la metà dei suoi scambi commerciali.

Quanto all’altro 50%, il fronte del “Leave” non ha mai spiegato in che modo pensa di sostituire gli oltre 50 accordi di libero scambio in vigore fra l’Ue e altri Paesi del mondo. Intanto, Usa e Cina hanno già fatto sapere che non negozieranno accordi commerciali separati di maggior favore per Londra, dal momento che né Washington né Pechino hanno alcun interesse a incentivare la disgregazione dell’Ue.

Insomma, dati alla mano, i britannici avrebbero una valanga di buone ragioni per mettere la croce su “Remain”. Le indagini sulle intenzioni di voto dicono che molti di loro si affideranno alla casualità delle emozioni per decidere, piuttosto che usare la logica e arrivare così all’unica conclusione sensata. Ma se sceglieranno di rimanere in Europa per la compassione ispirata dall’omicidio Cox, andrà bene lo stesso. Vorrà dire che, in futuro, a scrivere i programmi elettorali saranno direttamente gli allibratori.

di Mario Lombardo

Quando lo scorso mese di maggio il Senato brasiliano ratificò il colpo di stato “costituzionale” contro la presidente Dilma Rousseff, in molti nel paese sudamericano e non solo ritennero che il coinvolgimento in un caso di corruzione di colui che l’ha sostituita fosse soltanto una questione di tempo. Puntualmente, poche settimane dopo, il nome del presidente ad interim, Michel Temer, è infatti emerso per la prima volta negli atti relativi a una maxi-indagine che sta scuotendo l’intero mondo politico del Brasile.

Temer è stato accusato apertamente da Sergio Machado, ex senatore ed ex dirigente di una compagnia di trasporti facente parte del colosso petrolifero a maggioranza pubblica Petrobras, secondo il quale il presidente avrebbe sollecitato donazioni a un’azienda di costruzioni da destinare al suo Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB). In cambio di finanziamenti pari a svariate centinaia di migliaia di dollari, Temer avrebbe favorito la stessa compagnia nell’ottenimento di appalti pubblici.

Le accuse sono contenute in una testimonianza di Machado resa pubblica questa settimana dalla Corte Suprema brasiliana. Machado è anch’esso al centro di indagini nell’ambito dell’operazione denominata “Autolavaggio” (“Lava Jato”), ma ha sottoscritto un accordo con le autorità giudiziarie che prevede la sua collaborazione nel fare emergere i nomi di politici e imprenditori coinvolti nello scandalo.

Temer, da parte sua, ha respinto ogni accusa, assicurando che le donazioni rispettavano i termini previsti dalle norme brasiliane sul finanziamento ai partiti. Se le richieste di Temer e le stesse donazioni erano in effetti avvenute nel rispetto formale della legge, il suo accusatore sostiene che esse rientravano in un quadro di corruzione volto a manipolare l’assegnazione di contratti per la realizzazione di opere pubbliche.

Il recente coinvolgimento di Temer nella vicenda giudiziaria più nota del Brasile è solo l’ultimo guaio del suo governo, già nato privo di qualsiasi legittimità politica. Alla fine di maggio, due ministri appena nominati erano stati ad esempio costretti a dimettersi dai rispettivi incarichi. Il ministro per la Trasparenza, Fabiano Silveira, ufficialmente incaricato di combattere la corruzione, e quello per la Pianificazione, Romero Jucá, erano stati protagonisti di intercettazioni diffuse dalla stampa nelle quali entrambi discutevano possibili modalità per ostacolare l’indagine “Autolavaggio”.

Un paio di settimane fa, un tribunale di San Paolo aveva poi giudicato il presidente ad interim colpevole di violazione delle norme sui finanziamenti elettorali. Temer si è così ritrovato nella posizione paradossale di occupare la carica di presidente senza essere stato eletto e con una condanna che gli vieta di candidarsi a cariche elettive per otto anni.

Nel gabinetto di Temer ci sono almeno altri sette membri coinvolti nelle indagini per corruzione che ruotano attorno a Petrobras. A questo dato va aggiunto il fatto che circa il 60% dei membri del Parlamento brasiliano risulta incriminato o sotto indagine della magistratura. Ciò dimostra a sufficienza la natura delle manovre che hanno portato all’impeachment di Dilma Rousseff e il rilievo morale dei protagonisti dell’operazione.

Dilma, oltretutto, non è stata per il momento toccata dallo scandalo, pur avendo guidato per anni la compagnia petrolifera brasiliana. La sua estromissione è dovuta alle accuse di avere manipolato alcune voci del bilancio federale per dare un’immagine migliore della situazione finanziaria del paese, cioè una pratica comune a praticamente tutti i precedenti governi brasiliani e a quelli di molti altri paesi.

In sostanza, i politici con a capo Temer che hanno rimosso Dilma dall’incarico di presidente avrebbero agito per favorire la trasparenza nella gestione degli affari pubblici, salvo poi ritrovarsi in buona parte invischiati in procedimenti giudiziari per corruzione e altri crimini.

A poco più di un mese dall’insediamento, il governo Temer ha un livello di gradimento infimo e, per alcuni osservatori, il moltiplicarsi dei guai giudiziari che riguardano i suoi membri e lo stesso presidente potrebbe addirittura erodere il sostegno al Senato per la procedura di impeachment in atto.

Dilma Rousseff è stata sospesa per un massimo di 180 giorni dal suo incarico dopo il voto del Senato brasiliano, il quale nei prossimi mesi sarà chiamato a decidere se rendere definitiva la rimozione della presidente. In questo caso, Temer sarebbe confermato alla guida del paese fino al 2018.

La situazione politica in Brasile è però estremamente fluida. Il discredito della cerchia di politici golpisti che ha assunto il potere ai danni del governo del Partito dei Lavoratori (PT) rende infatti difficile la messa in atto dei compiti che i poteri forti, domestici e internazionali, a cominciare da Wall Street e dal governo di Washington, si aspettano, ovvero lo smantellamento dei programmi sociali dei precedenti governi e l’implementazione di misure di austerity per far fronte alla drammatica crisi economica in atto.

Allo stesso tempo, parte della classe dirigente brasiliana continua a manovrare per escludere permanentemente dal potere il PT, ben sapendo che esso conserva una consistente base di supporto tra le classi più povere nonostante il peggioramento delle condizioni di vita negli ultimi anni e la cattiva gestione dell’economia della presidente Rousseff.

L’ennesima prova di ciò si è avuta proprio questa settimana con la notizia della riapertura di un’indagine per corruzione contro l’ex presidente Lula. Quest’ultimo era stato accusato di avere ricevuto in regalo un appartamento di lusso nel quadro degli schemi corruttivi collegati sempre alla compagnia Petrobras.

Dopo l’apertura dell’inchiesta mesi fa, Lula era stato nominato capo di gabinetto da Dilma Rousseff, così che, secondo la legge brasiliana sull’immunità garantita ai membri del governo, il procedimento era stato automaticamente sospeso e trasferito alla Corte Suprema.

Lunedì scorso, il più alto tribunale brasiliano ha alla fine deciso che l’indagine su Lula può tornare di competenza del giudice federale Sergio Moro, titolare dell’inchiesta “Autolavaggio”, e seguire il suo normale corso. Un’eventuale condanna costerebbe caro a Lula e probabilmente anche al Brasile, visto che, come accaduto recentemente a Temer, lo escluderebbe dalla corsa alla presidenza per otto anni, spianando la strada alla destra per il ritorno definitivo al potere.

di Mario Lombardo

A differenza di quanto promesso a partire dal 2009 dal presidente Obama, la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan continuerà a protrarsi ancora a lungo e farà anzi segnare un’escalation degli scontri e delle violenze nel prossimo futuro. Questo è il senso della decisione presa qualche giorno fa dalla Casa Bianca e che garantisce maggiore discrezione ai vertici militari USA per partecipare alle operazioni belliche delle forze armate indigene contro gli “insorti” Talebani.

La guerra in Afghanistan sembra continuare a rappresentare poco più di un dettaglio per l’opinione pubblica internazionale, ma il governo di Washington e il Pentagono stanno da tempo apportando importantissime modifiche ai precedenti piani di “disimpegno” da questo paese dell’Asia centrale, in modo da assecondare l’evoluzione del quadro strategico della regione in base agli interessi degli Stati Uniti.

Il cambiamento più significativo consiste nella facoltà assegnata alle truppe di occupazione di prendere parte ai combattimenti dell’esercito regolare afgano contro i Talebani. La nuova autorizzazione non riguarda solo le forze di terra, bensì anche quelle aeree. Secondo quanto riportato dal New York Times, “i bombardamenti aerei non avranno più soltanto una funzione difensiva”, poiché “i comandanti americani potranno ricorrervi quando lo riterranno necessario” per colpire le forze talebane.

In precedenza, a partire dall’annunciata cessazione delle operazioni di combattimento da parte delle forze USA a fine 2014, il contingente residuo rimasto in Afghanistan aveva ufficialmente soltanto compiti di addestramento e poteva tutt’al più fornire “assistenza” alle forze speciali di Kabul durante operazioni “anti-terrorismo”.

La decisione di Obama sarebbe stata presa dopo un’elaborata discussione all’interno del governo e con i vertici militari, ma in realtà la nuova impennata delle operazioni belliche in Afghanistan era in preparazione da tempo. Gli eventi degli ultimi mesi, in particolare, hanno evidenziato la persistente fragilità del governo di Kabul del presidente, Ashraf Ghani, la cui sopravvivenza come strumento degli interessi americani può essere garantita solo da un rilancio dell’impegno militare di Washington.

Il presunto relativo disimpegno dall’Afghanistan propagandato da Obama avrebbe potuto concretizzarsi soltanto con la stabilizzazione del governo e della situazione interna. In uno scenario simile, gli Stati Uniti si sarebbero garantiti il controllo del paese e delle rotte energetiche e commerciali, al centro delle quali è posizionato, nella migliore delle ipotesi con uno sforzo militare e finanziario minimo.

Il continuo precipitare della situazione interna, in seguito all’avanzata dei Talebani, e l’acuirsi delle tensioni a livello regionale, principalmente proprio a causa della dissennata e spesso confusa politica estera dell’amministrazione Obama, hanno però rimesso in discussione questo progetto. La Casa Bianca e il Pentagono si sono visti così costretti a ripiegare nuovamente sulla soluzione bellica, in una spirale distruttiva che non vede esito diverso dalla perpetuazione del caos in un paese già devastato da quasi quindici anni di guerra.

Che l’attribuzione di maggiori responsabilità in combattimento alle forze di occupazione non sia un dettaglio insignificante o un evento isolato è confermato anche da un’altra probabile imminente decisione di Obama sull’Afghanistan. Citando fonti governative, questa settimana i media americani hanno dato l’impressione dell’esistenza di un dibattito interno anche sul piano di ridimensionamento del contingente di occupazione.

Obama, nel quadro del già ricordato “disimpegno” dalla guerra in Afghanistan, aveva promesso di portare da circa 10 mila a 5.500 il numero di soldati USA nel paese entro la fine dell’anno scorso, mentre per il dicembre 2016 la presenza militare sarebbe stata limitata agli uomini necessari alla difesa delle rappresentanze diplomatiche americane.

A ottobre 2015, però, questo piano era già stato stravolto e Obama, cercando disperatamente di minimizzare le nuove disposizioni, aveva annunciato il rinvio della riduzione delle forze di occupazione alla fine del 2016 o all’inizio del 2017, in concomitanza cioè con il suo addio alla Casa Bianca. In quell’occasione, pur avvertendo che l’aggiustamento della strategia afgana non sarebbe stato l’ultimo, il presidente aveva assicurato che le truppe nel paese centro-asiatico avrebbero continuato a non avere compiti di combattimento.

Se quest’ultima promessa è saltata qualche giorno fa, nelle prossime settimane si attende la marcia indietro anche sui tempi della riduzione del numero delle truppe di occupazione. La decisione dipenderebbe dal risultato di una valutazione in corso della situazione in Afghanistan condotta dal nuovo comandante delle forze USA in questo paese, generale John Nicholson.

Il clima venutosi a creare attorno alle sorti della guerra, le pressioni dei militari e la recente direttiva firmata da Obama rendono però praticamente certo un altro rinvio del ridimensionamento del contingente di occupazione. La decisione ufficiale potrebbe essere annunciata in occasione del summit della NATO in programma a Varsavia l’8 e il 9 luglio prossimo.

A spingere per il mantenimento dei circa 9.800 soldati attualmente in Afghanistan anche dopo il gennaio 2017 sono stati anche alcuni ex generali e diplomatici americani, i quali hanno indirizzato recentemente una lettera aperta al presidente Obama, invitandolo a rimandare indefinitamente la riduzione del numero delle truppe. Più che un intervento indipendente, quest’ultima mossa sembra essere un’operazione concordata con la Casa Bianca per dare una qualche copertura alla decisione di Obama di fare marcia indietro dalla promessa di porre fine a una guerra che dura dall’autunno del 2001.

Il rilancio delle operazioni belliche USA in Afghanistan non è comunque determinato soltanto da fattori indipendenti dalla volontà americana. Anzi, Washington ha agito e continua ad agire attivamente per creare condizioni che facciano apparire inevitabile la permanenza di un cospicuo contingente militare in Afghanistan.

In questo senso va letta l’eccezionale decisione di assassinare con un missile lanciato da un drone il leader dei Talebani, Mullah Aktar Mansour, il 21 maggio scorso. Il raid era avvenuto in territorio pakistano al di fuori delle aree tribali di confine con l’Afghanistan, dove operano solitamente i droni americani con il tacito consenso del governo di Islamabad, il quale ha infatti immediatamente manifestato la propria irritazione.

L’uccisione di Mansour ha rappresentato secondo molti un messaggio esplicito di Washington alle parti coinvolte nelle difficili trattative per portare i Talebani e il governo-fantoccio di Kabul al tavolo delle trattative e, in particolare, alla Cina e al Pakistan. Evidentemente, le discussioni in corso avevano convinto gli Stati Uniti dell’impossibilità di impostare gli eventuali colloqui di pace sui binari desiderati per la salvaguardia dei propri interessi strategici nella regione.

La decisione di colpire il numero uno dei Talebani, favorendo l’installazione di un nuovo leader considerato un fautore della linea dura, ha posto così le basi per un inasprimento del conflitto e il raffreddamento del Pakistan nei confronti di un possibile processo diplomatico.

Il riassestamento della strategia americana in Afghanistan, incrociandosi con la cosiddetta “svolta” asiatica finalizzata all’accerchiamento e al contenimento della Cina, costituisce dunque un ulteriore fattore di destabilizzazione per i già precari equilibri che caratterizzano l’Asia centrale.

La conferma di questa preoccupante evoluzione si è avuta dagli scontri registrati a inizio settimana tra le forze armate di Pakistan e Afghanistan. I militari dei due paesi si sono scambiati colpi di artiglieria nell’area di confine di Torkham, risultando in un numero imprecisato di feriti e provocando la morte di almeno un agente di frontiera afgano e di un ufficiale dell’esercito pakistano.

I combattimenti sarebbero esplosi in seguito alla costruzione in territorio pakistano di una barriera di confine, a cui l’Afghanistan si oppone perché in violazione di un accordo che prevederebbe la cooperazione tra i due paesi nella realizzazione di strutture di qualsiasi genere nelle aree di frontiera.

Gli scontri s’inseriscono però in un’atmosfera di crescenti tensioni e di deterioramento delle relazioni bilaterali, la cui origine va ricercata principalmente proprio nelle manovre destabilizzanti condotte dagli Stati Uniti nella regione centro-asiatica.

di Michele Paris

L’orribile tragedia avvenuta nella notte tra sabato e domenica a Orlando, in Florida, è stata puntualmente seguita da rivelazioni e commenti, rilasciati dagli esponenti politici americani, che ricalcano in maniera inquietante quelli già registrati in seguito a praticamente tutti gli episodi di sangue di questo genere accaduti in questi anni negli USA e altrove.

Le reazioni del presidente Obama e dei candidati alla sua successione, Hillary Clinton e Donald Trump, hanno avuto toni diversi, ma tutti hanno prevedibilmente mancato di fare anche un minimo riferimento alle ragioni di ordine sociale e politico che stanno dietro alla manifestazione violenta e distorta della profondissima crisi della società e del sistema di potere negli Stati Uniti.

Se le motivazioni ultime che hanno spinto il 29enne Omar Mateen, nativo di New York ma di origine afgana, a commettere una strage nel night club gay Pulse non si conoscono e forse non si conosceranno mai, è evidente che il moltiplicarsi di assassini di massa in America non può essere ricondotto semplicemente a concetti astratti come “odio” o “male”, né alla mancanza di regolamentazioni stringenti sulla vendita di armi in questo paese.

I possibili legami di Mateen a una qualche rete terroristica internazionale sono inoltre tutti da dimostrare, nonostante la dubbia rivendicazione dello Stato Islamico (ISIS) giunta poco dopo la sparatoria e il “giuramento” al califfato fatto dall’attentatore in una telefonata al numero di emergenza 911 durante l’assalto alla discoteca.

L’ex moglie di Mateen ha parlato di una (breve) vita di coppia fatta di abusi, mentre il padre, attivista afgano impegnato contro il governo-fantoccio di Washington al potere a Kabul, ha escluso la motivazione religiosa, facendo riferimento piuttosto al risentimento del figlio nei confronti degli omosessuali.

Ragioni personali e psicologiche possono essersi perciò fuse ai contraccolpi sociali provocati dall’attività criminale di un governo, come quello americano, in perenne stato di guerra, soprattutto contro paesi musulmani, spingendo Mateen, come già altri individui chiaramente disturbati, ad abbracciare anche solo idealmente il fondamentalismo islamico e a portare a termine un atto di violenza indicibile che è costato finora la vita a 49 persone innocenti.

L’atmosfera tossica venutasi a creare negli Stati Uniti del dopo 11 settembre, fatta di repressione, violenza, promozione di forze ultra-reazionarie, deve svolgere un ruolo nella preparazione di ripetute stragi di massa che, con questa frequenza e gravità, non si registrano in nessun altro paese del mondo.

Questa realtà stride fortemente con la sterile risposta offerta dal presidente Obama alla strage di domenica. L’inquilino uscente della Casa Bianca non ha come al solito speso una sola parola per cercare di spiegare l’accaduto, se non riferendosi a un altro atto di “terrore e odio”, ma si è limitato a invitare gli americani a “stare uniti” e ha promesso di “proteggere… e difendere la nostra nazione”, nonché di “agire contro coloro che ci minacciano”.

Obama, va ricordato, è stato costretto a fronteggiare pubblicamente un’altra strage, l’ennesima che ha caratterizzato la sua amministrazione, solo un paio di giorni dopo la notizia della sua autorizzazione all’escalation della guerra in Afghanistan, rimangiandosi sostanzialmente la promessa di mettere fine a questo interminabile conflitto.

Trump, da parte sua, ha riproposto le proprie teorie razziste per spiegare la violenza terroristica o presunta tale, assieme al rilancio del divieto di ingresso negli Stati Uniti di tutti gli stranieri di fede musulmana. Cosa, quest’ultima, evidentemente inutile per prevenire il massacro del fine settimana, vista la nascita e la cittadinanza americana di Omar Mateen.

La reazione più minacciosa è stata però quella di Hillary Clinton, la quale ha riassunto alla perfezione, e in modo non troppo velato, la volontà della classe dirigente USA di sfruttare simili eventi, ma soprattutto il dolore e il disorientamento che suscitano tra la popolazione, per giustificare ulteriori iniziative improntate al militarismo e alla compressione dei diritti democratici. Il tutto per rendere gli Stati Uniti un posto più sicuro.

Fermo restando dunque il dubbio sulla matrice dell’assalto al night club di Orlando, è inevitabile rilevare come ancora una volta la condotta delle forze di polizia di un paese occidentale – in questo caso l’FBI – sollevi una lunga serie di interrogativi. Soprattutto in considerazione dei poteri di sorveglianza e controllo sulla popolazione senza precedenti garantiti negli Stati Uniti da leggi del Congresso, direttive presidenziali e sentenze di tribunali.

Sono bastate infatti poche ore dopo la sparatoria a rivelare che Mateen era finito non una ma due volte all’attenzione del “Bureau” nel recente passato. Nel 2013, il giovane con origini afgane era stato sentito da agenti federali in seguito alla denuncia di un suo collega di lavoro, secondo il quale Mateen aveva vantato possibili collegamenti con organizzazioni terroriste.

Un anno dopo, l’FBI era di nuovo su Mateen, sospettato di essere entrato in contatto con Moner Mohammad Abusalha, cresciuto in Florida e primo cittadino americano a farsi esplodere in Siria, dove combatteva nelle file del Fronte al-Nusra, filiale di al-Qaeda nel paese mediorientale.

Il fatto che entrambe le indagini fossero state chiuse senza ulteriori provvedimenti da parte dell’FBI non esaurisce la questione. Il livello di paranoia ostentato dall’apparato della sicurezza nazionale americano e l’incriminazione o la condanna di sospettati di terrorismo in casi con fondamenta praticamente inesistenti, non spiegano come Mateen abbia potuto continuare a lavorare indisturbato per una nota società che fornisce servizi di sicurezza e avere accesso ad armi di vario genere, sia attraverso il proprio impiego sia tramite un acquisto fatto la settimana prima della strage.

Il potenziale violento di Mateen era quindi facilmente ipotizzabile da parte dell’FBI, visto il suo possesso di un porto d’armi rilasciato dallo stato della Florida, ma in qualche modo la polizia federale americana non ha ritenuto esserci elementi per sottoporlo a sorveglianza o renderlo inoffensivo.

Questi stessi elementi giudicati inesistenti nel caso dell’attentatore di Orlando sembravano invece essere presenti, a detta dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia di Obama, in altri casi presumibilmente di natura terroristica in cui il “Bureau” è stato impegnato nei mesi scorsi, quando Mateen stava verosimilmente studiando il proprio obiettivo.

Uno di questi casi riguarda ad esempio James Gonzalo Medina, senzatetto di Miami con documentati problemi mentali, finito di recente agli arresti dopo essere stato al centro di una delle tante operazioni sotto copertura dell’FBI che prevedono la fabbricazione di trame terroristiche da parte di agenti in incognito al fine di incastrare un malcapitato potenziale terrorista.

In queste operazioni, l’FBI fornisce direttamente armi – spesso inutilizzabili – ai sospettati oppure, in alcuni casi, consente a questi ultimi di acquistarle direttamente, salvo poi procedere all’arresto prima che essi mettano in pratica i propositi terroristici alimentati a dovere dagli stessi agenti federali.

Se al momento non esistono elementi che facciano pensare per la strage di Orlando a un’operazione sotto copertura dell’FBI finita male, è però altrettanto evidente che, alla luce di quanto già emerso e anche dei dettagli resi noti in seguito ai precedenti attentati negli USA e in Europa, le forze di polizia non possono essere in nessun modo sollevate sommariamente da quelle che appaiono ancora una volta come pesanti, e forse decisive, responsabilità.


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