di Mario Lombardo

L’offensiva delle forze armate irachene, con il sostegno di quelle americane, per la riconquista della città di Falluja, nella provincia occidentale di Anbar e sotto il controllo dello Stato Islamico (ISIS/Daesh), rischia concretamente di provocare l’ennesima catastrofe umanitaria nel martoriato paese mediorientale. In questi esatti termini si è espressa un paio di giorni fa un’organizzazione non governativa norvegese che assiste la popolazione civile nell’area della località a una sessantina di chilometri a ovest di Baghdad.

I civili che sono riusciti a lasciare la città sono una netta minoranza, mentre si stima che a circa 50 mila abitanti di Falluja sia impedito di mettersi in salvo dagli uomini del califfato. Mercoledì si è aggiunto l’appello dell’UNICEF ai soldati iracheni e all’ISIS per risparmiare i 20 mila bambini intrappolati a Falluja.

Questi ultimi e i civili in genere sarebbero utilizzati dall’ISIS come scudi umani, così da scoraggiare i bombardamenti della “coalizione” internazionale guidata da Washington. Non solo: le poche centinaia di ragazzi al di sopra dei 12 anni che hanno raggiunto le linee del fronte vengono fermati e interrogati dalle truppe irachene per il timore che tra di essi vi siano possibili affiliati all’ISIS.

La situazione per coloro che sono rimasti nella città diventa ogni giorno peggiore. All’assenza di cibo, medicinali ed energia elettrica si deve aggiungere quella di acqua potabile, tanto che la responsabile dello sforzo umanitario dell’ONU in Iraq, Lise Grande, ha prospettato l’imminenza di un’epidemia di colera. Lo stesso assedio delle forze di Baghdad ha inoltre reso complicato il transito delle forniture di beni di prima necessità.

La popolazione tuttora a Falluja deve fare i conti anche con i raid degli “alleati”. Martedì, ad esempio, i media locali hanno raccontato di intensi bombardamenti da parte degli aerei della “coalizione” anti-ISIS sulle postazioni di difesa del califfato nell’area di al-Shuhada, a sud di Falluja.

Se le incursioni aeree e l’assedio di Falluja sono in genere descritti positivamente in Occidente, e le eventuali vittime civili considerate danni collaterali inevitabili, iniziative simili condotte dall’esercito di Bashar al-Assad e dall’aviazione russa nelle città siriane controllate dai “ribelli” sono invece regolarmente condannate come “crimini di guerra”.

Le operazioni per la riconquista della città a maggioranza sunnita erano state annunciate la settimana scorsa dal governo iracheno del primo ministro, Haider al-Abadi. A prendere parte all’offensiva di terra non è solo l’esercito regolare, ma anche i corpi speciali dell’anti-terrorismo e le milizie sciite sostenute dall’Iran.

Queste forze erano sembrate giungere rapidamente alle porte della città nei giorni immediatamente successivi all’inizio delle manovre, ma l’ISIS, forte di un’occupazione che dura da oltre due anni, ha mostrato di poter resistere a lungo. Anzi, a inizio settimana sono circolate le notizie di un contrattacco da parte dell’ISIS, sempre a sud di Falluja, contrastato però efficacemente dalle forze di Baghdad. Mercoledì, invece, l’esercito iracheno, con l’appoggio aereo americano, ha attaccato le linee di difesa dell’ISIS sia a nord che a sud della città, anche se finora non si sono registrati progressi significativi.

I timori per la popolazione civile di Falluja sono ingigantiti dalla storia particolarmente drammatica di questa città nell’ultimo decennio. Primo centro urbano di rilievo in Iraq a cadere nelle mani dell’ISIS nel 2014, Falluja aveva subito due assedi sanguinosi da parte dell’esercito americano esattamente dieci anni prima.

Questa città era considerata il cuore della resistenza sunnita all’invasione illegale degli Stati Uniti, i quali imposero un prezzo carissimo ai suoi abitanti, vittime di una vera e propria punizione collettiva. Oltre alle migliaia di vittime civili, i militari americani distrussero oltre la metà degli edifici di Falluja e lasciarono una tragica scia di morte in seguito all’uso di uranio impoverito. Numerosi studi medici successivi avrebbero documentato un’incidenza altissima tra la popolazione di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile.

Falluja rischia anche di subire la stessa sorte di altre città strappate nei mesi scorsi all’ISIS in Iraq. Ramadi e Tikrit, ad esempio, sono state in larga misura distrutte e i rispettivi abitanti tuttora impossibilitati a fare ritorno nelle proprie abitazioni.

In entrambi i casi, poi, la presenza di milizie sciite in appoggio all’esercito di Baghdad era sfociata in massacri di civili sunniti come ritorsione delle atrocità commesse dall’ISIS. L’identificazione delle forze governative con l’oppressione della maggioranza e del governo sciita aveva d’altra parte spinto molti iracheni sunniti a unirsi all’ISIS nei primi mesi del 2014.

Attorno all’operazione anti-ISIS a Falluja era emerso un certo disaccordo tra il governo di Baghdad e gli Stati Uniti, nonostante il Pentagono stia comunque appoggiando le operazioni di questi giorni. A Washington l’obiettivo primario della guerra rimane infatti la città di Mosul, nella provincia settentrionale di Ninive, abbandonata dall’esercito nel giugno di due anni fa di fronte all’avanzata dell’ISIS.

Mosul è la seconda città dell’Iraq per numero di abitanti - circa due milioni prima dell’arrivo dei jihadisti - e l’amministrazione Obama intende probabilmente disporre di un successo militare simbolico nei prossimi mesi, sia per non lasciare la Casa Bianca con importanti aree del Medio Oriente ancora in mano all’ISIS sia per favorire il suo ex segretario di Stato, Hillary Clinton, in vista delle elezioni presidenziali di novembre.

Se per gli USA l’offensiva di Falluja è considerata una distrazione dall’operazione che dovrebbe interessare Mosul, il premier iracheno Abadi ha invece insistito per la liberazione della città nella provincia di Anbar. Il governo sciita di Baghdad ha bisogno di un qualche successo in tempi brevi per cercare di contrastare il crescente movimento di protesta concretizzatosi recentemente in un paio di occupazioni della cosiddetta Zona Verde della capitale irachena.

In questa prospettiva, Falluja è considerata verosimilmente un obiettivo più semplice rispetto a Mosul e, inoltre, il governo ha spesso sostenuto che i numerosi attentati terroristici che hanno colpito Baghdad nelle ultime settimane, facendo crescere ancor più il risentimento dei suoi abitanti, erano stati pianificati proprio in questa città.

Un’altra preoccupazione degli Stati Uniti riguarda anche la presenza nel corso delle operazioni anti-ISIS condotte dall’esercito iracheno delle già ricordate milizie sciite, fortemente legate alla Repubblica Islamica. Questi timori sono collegati alla minaccia di un possibile allineamento ancora più marcato dei rispettivi interessi strategici di Iraq e Iran, dopo che Teheran ha già esteso in maniera significativa la propria influenza sul paese vicino in seguito al rovesciamento del regime di Saddam Hussein.

L’operazione in corso a Falluja si inserisce in un quadro composto da svariate offensive militari contro l’ISIS che stanno interessando non solo l’Iraq ma anche e soprattutto la Siria. In particolare, fazioni delle forze ribelli siriane, nelle quali prevalgono le milizie curde dell’YPG (Unità di Protezione Popolare), stanno facendo segnare alcuni successi in combattimenti che dovrebbero preparare l’assalto a Raqqa, ovvero la capitale dell’auto-proclamato califfato islamico.

Anche in questo caso, in appoggio alle forze locali operano l’aviazione “alleata” e soldati americani, sia pure ufficialmente in veste di “consiglieri” militari. Le località liberate o in fase di liberazione in Siria sono spesso a maggioranza sunnita e, in più di un’occasione, gravi episodi di violenze e ritorsioni, per mano delle stesse milizie curde, sono stati riportati dalla stampa e dalle organizzazioni umanitarie.

Inoltre, il ruolo di primo piano giocato dai curdi nel nord della Siria, in un’alleanza di fatto con gli USA, sta provocando tensioni tra Washington e Ankara, dove il regime di Erdogan continua a ritenere l’YPG e il suo braccio politico, il Partito dell’Unione Democratica (PYD), organizzazioni terroriste perché legate al PKK turco. Allo stesso tempo, però, la Turchia sostiene più o meno clandestinamente gruppi fondamentalisti anti-Assad in Siria.

In definitiva, i vari fronti di guerra che stanno infiammando il Medio Oriente non sono che una delle conseguenza più gravi delle manovre degli Stati Uniti nella regione, inaugurate con l’invasione dell’Iraq nel 2003, da cui discende direttamente la nascita dell’ISIS, e proseguite con le successive rovinose politiche di incitamento delle divisioni settarie per la promozione degli interessi strategici americani.

di Michele Paris

Davanti all’ondata di scioperi e proteste che continuano ad attraversare la Francia, il governo Socialista del presidente, François Hollande, e del primo ministro, Manuel Valls, sembra deciso a proseguire nell’implementazione dell’odiata legge di “riforma” del mercato del lavoro (“legge Khomri” o “loi travail”) in fase di discussione al Parlamento di Parigi.

Martedì ha preso il via un nuovo sciopero in Francia, con i lavoratori delle ferrovie che hanno incrociato le braccia a partire dalle ore 19. La protesta, promossa dalla Confederazione Generale del Lavoro (CGT), ovvero il secondo sindacato francese per numero di iscritti, dovrebbe creare disagi non indifferenti. Secondo la società ferroviaria francese (SNCF), il 40% dei treni ad alta velocità (TGV) e i due terzi del normale trasporto nazionale su rotaia dovrebbero essere interessati dall’agitazione.

La più moderata Confederazione Francese Democratica del Lavoro (CFDT) ha però annullato lo sciopero dei propri membri in seguito alla promessa di concessioni da parte del governo, attenuando parzialmente l’impatto della protesta. I ferrovieri francesi sono infatti in sciopero non solo contro la “riforma” Khomri, ma anche contro un piano di riorganizzazione interna che prevede un netto peggioramento delle condizioni di lavoro.

Il calendario degli scioperi annunciato dai sindacati d’oltralpe è comunque ricco. Giovedì toccherà ai lavoratori della metropolitana parigina, mentre il settore aereo non ha ancora fissato una data precisa per uno sciopero dettato anche da previsti tagli delle retribuzioni. Altre categorie avevano già manifestato nelle scorse settimane, tra cui quella petrolifera, causando forti disagi. Il blocco di raffinerie e depositi di carburante aveva spinto il governo in alcuni casi a impiegare le forze dell’ordine per rompere la resistenza dei lavoratori e garantire le forniture nel paese.

La legge in questione prende il nome dal ministro del Lavoro, Myriam El Khomri, e minaccia di stravolgere il codice che ha garantito per decenni diritti e una certa sicurezza ai lavoratori francesi. La resistenza al provvedimento è tale da avere costretto il governo ad adottare una manovra profondamente anti-democratica per favorirne l’approvazione in Parlamento.

Tre settimane fa, cioè, il gabinetto Valls era ricorso all’articolo 49, paragrafo 3, della Costituzione francese, per forzare il passaggio della legge all’Assemblea Nazionale senza un voto dei suoi membri. Questo espediente manda la legge direttamente al Senato e la Camera bassa ha la possibilità di ostacolarne l’approvazione solo sfiduciando il governo. Vista la necessità dei voti di un numero consistente di deputati Socialisti, tutt’altro che disposti a far cadere l’esecutivo, le mozioni di sfiducia dell’opposizione erano prevedibilmente fallite.

Ad ogni modo, le proteste e l’ondata di scioperi nel paese erano iniziate subito dopo il colpo di mano in Parlamento di Hollande e Valls. Alla guida della mobilitazione si è messa appunto la CGT e il suo leader, Philippe Martinez, ben intenzionato a rilanciare la sua immagine di sindacalista radicale di fronte a un sentimento di ostilità irrefrenabile verso il governo tra i lavoratori francesi.

Fino a pochi giorni fa, i vertici della CGT chiedevano il ritiro senza condizioni della “legge Khomri”, focalizzando il proprio malcontento in particolare sull’articolo 2 del testo, quello cioè che prevede per le aziende la possibilità di negoziare direttamente le condizioni di lavoro con i propri dipendenti, aggirando i contratti e le regolamentazioni nazionali per sfruttare la posizione di debolezza dei lavoratori.

Secondo i sondaggi pubblicati in Francia, d’altra parte, non solo i lavoratori iscritti ai sindacati ma anche la maggioranza della popolazione è favorevole al ritiro della legge, nonostante la campagna di discredito nei confronti degli scioperanti portata avanti da politici e media ufficiali.

Il governo e il presidente sono apparsi scossi dalla resistenza emersa nel paese contro il loro tentativo di ristrutturare i rapporti di classe in Francia. Tanto più che, tutt’altro che casualmente, l’introduzione della legge era stata decisa mentre è in vigore lo stato di emergenza, deciso dopo gli attentati terroristici del novembre scorso a Parigi. Grazie ad esso, le forze di polizia hanno poteri straordinari per contrastare qualsiasi genere di “minaccia” all’ordine pubblico.

Ciononostante, pubblicamente sia Valls sia Hollande hanno continuato a sostenere che il governo non farà passi indietro sulla “loi travail”. Recentemente erano però circolate dichiarazioni che lasciavano intendere possibili modifiche alla legge, ma la sostanziale linea dura è stata ribadita proprio in questi giorni dal presidente. In un’intervista rilasciata al quotidiano Sud Ouest nel corso di una visita a Bordeaux, Hollande ha confermato che “la legge non sarà ritirata”.

Lo stesso inquilino dell’Eliseo ha concesso che gli accordi contrattuali negoziati nelle singole aziende dovranno essere approvati “dai sindacati che rappresentano la maggioranza dei lavoratori”, anche se “lo spirito e il principio” dell’articolo 2 rimarrà immutato.

L’affondo di Hollande su una legge che è un sostanziale regalo agli imprenditori francesi è giunto probabilmente dopo i segnali lanciati dal numero uno della CGT Martinez nei giorni precedenti. Lo stesso riferimento del presidente alla collaborazione dei sindacati nell’implementazione di contratti ad hoc, che rifletteranno di fatto le esigenze del management aziendale, è a sua volta un messaggio alla CGT e un invito a procedere con l’inizio della smobilitazione dei lavoratori.

Se Martinez continua a proclamare la necessità degli scioperi e a tuonare contro la “riforma”, i suoi toni sono evidentemente cambiati da qualche giorno a questa parte. Inoltre, la stessa strategia di organizzare scioperi settoriali in maniera separata è a ben vedere un modo per contenere le tensioni, visto che un’arma ben più efficace sarebbe stata la mobilitazione di massa con uno sciopero generale.

In un’intervista televisiva nel fine settimana, il leader della CGT ha lasciato intendere comunque di essere segretamente in contatto con il governo per trovare una soluzione negoziata allo scontro in atto. Inoltre, nel suo intervento non vi è stata traccia delle precedenti richieste di ritirare il provvedimento.

Lunedì, poi, il ministro Khomri ha affermato alla radio RTL di essere in attesa di una proposta della CGT ma che non ci potrà essere nessun accordo se la posizione del sindacato resterà invariata. Martinez, infine, nella serata di lunedì ha fatto sapere di essere disposto ad accettare l’invito al dialogo “senza pre-condizioni”.

Evidentemente, la CGT e il suo leader non intendono rompere i legami con il Partito Socialista e il governo Hollande-Valls. Peggio ancora, i sindacati francesi intravedono la possibilità di conservare un ruolo privilegiato nella nuova legge, malgrado gli effetti disastrosi sui loro iscritti e sui lavoratori in genere.

Se molti prevedono dunque un’attenuazione della linea dura della CGT, questa operazione non risulterà semplice vista l’attitudine dei lavoratori francesi verso il governo e la legge sul lavoro. Fondamentale risulterà la capacità di convincere manifestanti e scioperanti dell’importanza delle eventuali concessioni che farà il governo, anche se, come hanno assicurato svariati esponenti di quest’ultimo, essi saranno tutt’al più marginali.

Intanto, le pressioni del governo e di tutta la classe politica francese su lavoratori e sindacati per far rientrare la mobilitazione continua a crescere. Una delle armi che verrà utilizzata a questo scopo con sempre maggiore frequenza è il campionato europeo di calcio, ospitato appunto dalla Francia.

L’appuntamento prenderà il via il 10 giugno prossimo e già da ora si sprecano gli appelli per il ritorno alla normalità in un paese che sembra non potersi permettersi una brutta figura con gli occhi di tutta l’Europa puntati addosso.

di Mario Lombardo

Il riposizionamento strategico delle forze navali e degli armamenti americani in Estremo Oriente ha da tempo innescato una pericolosa corsa verso la militarizzazione di questa parte del continente asiatico, confermata nuovamente da una decisione ancora non ufficiale che avrebbe preso il governo cinese per evitare di vedere neutralizzato il proprio deterrente nucleare da parte degli Stati Uniti.

A riportare la notizia è stato qualche giorno fa il quotidiano britannico Guardian, il quale ha rivelato come Pechino intenda utilizzare per la prima volta sottomarini dotati di missili nucleari nell’Oceano Pacifico. Questa misura sarebbe dovuta alle recenti iniziative militari americane che hanno logorato a tal punto il potenziale di deterrenza cinese da non lasciare alternative alla leadership comunista.

Fonti all’interno del governo di Pechino non hanno indicato le tempistiche del dispiegamento dei sottomarini ma, a conferma della consapevolezza americana delle conseguenze delle proprie azioni in Asia orientale, un recente rapporto del Pentagono destinato al Congresso aveva previsto “a un certo punto del 2016” la conduzione del primo “pattugliamento nucleare in funzione di deterrente” da parte cinese.

La molla che ha fatto scattare la decisione di Pechino è in particolare il piano di posizionamento del sistema anti-balistico USA denominato THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”) in Corea del Sud. A livello ufficiale, il THAAD dovrebbe far fronte alla minaccia nordcoreana e la possibile installazione era stata annunciata dopo il recente quarto test nucleare del regime di Pyongyang. In realtà, esso va principalmente a compromettere il sistema di deterrenza cinese.

Sempre secondo il Guardian, le preoccupazioni che hanno portato a valutare l’opzione dell’impiego di sottomarini equipaggiati con testate nucleari sono legate anche a piani di sviluppo USA di missili “ipersonici”, in grado di colpire la Cina entro un’ora dal loro lancio. Ciò, com’è evidente, minaccia di rendere inefficaci i sistemi di deterrenza cinesi posizionati sulla terraferma. Da qui la necessità di espandere quelli navali, a cui peraltro la Cina lavora da più di tre decenni, anche se “l’impiego effettivo è stato rimandato a causa di difficoltà tecniche, rivalità interne e decisioni di natura politica”.

La notizia riportata dal giornale britannico comporta dunque un cambiamento di rotta significativo da parte di un regime cinese che si era mosso finora con estrema cautela in questo ambito. Il governo di Pechino, a differenza di quello americano, si dichiara pronto a usare armi nucleari solo in risposta a un eventuale attacco e conserva perciò separatamente le testate e i missili, entrambi sotto lo stretto controllo dei leader politici.

Il cambiamento degli equilibri determinato dalla “svolta” asiatica degli Stati Uniti avrebbe ora convinto i cinesi a dotare i propri sottomarini di missili con testate nucleari, in modo da consentire una risposta molto più rapida in caso di attacco.

La presenza di sottomarini nucleari cinesi nelle acque dell’Oceano Pacifico minaccia di portare il rischio di un aperto conflitto con gli Stati Uniti a un livello del tutto differente. Ipotizzando uno scenario probabilmente fin troppo ottimistico, un docente di Relazioni Internazionali all’università Renmin di Pechino ha affermato in un’intervista al Guardian che la presenza di sottomarini nucleari nel Mar Cinese Meridionale porterà la “marina americana a inviare navi spia”, cosa che irriterà il governo cinese, il quale a sua volta “cercherà di respingerle”, con tutti i possibili rischi del caso.

La decisione relativa ai sottomarini rivela comunque l’ansia crescente a Pechino per le disparità tuttora esistenti tra l’arsenale nucleare americano e quello cinese, stimato in circa 260 testate - contro le 7 mila degli USA - e in larga misura composto da missili posizionati sulla terraferma, quindi vulnerabili di fronte a un attacco preventivo da parte degli Stati Uniti.

In una simile eventualità, in assenza cioè del potenziale per rispondere con un secondo attacco, la Cina resterebbe di fatto senza un reale deterrente, così che la possibilità di reagire a un’aggressione potrebbe dipendere anche dalla disponibilità di sottomarini nucleari pronti a colpire in tempi rapidi.

La notizia pubblicata dal Guardian non ha avuto conferme ufficiali dal governo cinese, anche se è stata ripresa e di fatto ratificata da un editoriale della testata governativa on-line Global Times. L’articolo, apparso domenica, ha fatto riferimento alla necessità di un “deterrente nucleare reale ed efficace” affinché esso possa giocare un “ruolo importante nell’elaborazione della politica cinese da parte del governo americano”.

Inoltre, “con l’aumento delle tensioni tra USA e Cina, è necessario che Pechino rafforzi il proprio potenziale di risposta nucleare”. Ciò, continua il Global Times, “contribuirà a equilibrare [i rapporti di forza] nella regione asiatico-pacifica” e ad aumentare le probabilità che gli Stati Uniti cerchino una soluzione pacifica alla rivalità con la Cina.

Se quest’ultimo auspicio potrebbe rivelarsi drammaticamente illusorio, è evidente che la responsabilità principale dell’evolversi della situazione in Estremo Oriente è da attribuire agli Stati Uniti. L’amministrazione Obama sta infatti perseguendo un piano strategico deliberato per aumentare le pressioni sulla Cina in ambito diplomatico, militare ed economico, con l’obiettivo di limitare l’influenza e l’espansione di questo paese che minaccia il predominio degli USA nel continente asiatico.

Il ricorso a sottomarini pronti a lanciare missili nucleari da parte di Pechino è così solo l’ultima testimonianza della pericolosità delle manovre americane, a cui vanno ricondotti sia il riesplodere delle contese territoriali tra la Cina e vari paesi del sud-est asiatico sia gli incidenti sfiorati negli ultimi mesi tra le forze aeree e navali delle prime due potenze economiche del pianeta.

di Michele Paris

Come primo presidente degli Stati Uniti in carica a visitare la città di Hiroshima, in Giappone, Barack Obama ha impartito qualche giorno fa una lezione pubblica di moralità che stride fortemente con la condotta della sua amministrazione in questi anni. Inoltre, il presidente americano non si è prevedibilmente scusato per lo sganciamento della bomba atomica sulla città il 6 agosto 1945 e tre giorni più tardi su Nagasaki.

Obama ha così mostrato di continuare a sposare la tradizionale versione ufficiale del governo americano, cioè che la decisione presa dall’allora presidente Truman fosse giustificata dalla necessità di accelerare la fine della Seconda Guerra Mondiale e di evitare centinaia di migliaia se non milioni di morti in seguito a un’eventuale invasione del Giappone.

In realtà, il crimine commesso a Hiroshima e Nagasaki fu tutt’altro che una necessità, come hanno  dimostrato numerosi documenti storici, e servì sostanzialmente a terrorizzare un intero popolo, nonché soprattutto a mandare un messaggio intimidatorio all’Unione Sovietica.

Già nel 1963, l’ex presidente ed ex comandante durante la guerra, Dwight Eisenhower, aveva affermato in un’intervista che nell’estate del 1945 “i giapponesi erano pronti ad arrendersi” e non era dunque necessario “colpirli in un modo così orribile”.

Allo stesso modo, l’ammiraglio William Leahy, capo di Stato Maggiore durante la presidenza Truman, avrebbe sostenuto che “l’uso di questa arma barbara a Hiroshima e Nagasaki non fu di nessuna utilità pratica per la nostra guerra contro il Giappone”. Infatti, i giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi”, vista “l’efficacia del blocco navale e il successo dei bombardamenti con armi convenzionali”.

Le mancate scuse di Obama a oltre settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale dipendono d’altra parte anche dal ruolo destabilizzante, e spesso distruttivo, che gli Stati Uniti continuano a svolgere a livello planetario. Chiedere perdono per quei fatti implicherebbe anche mettere in discussione le ragioni del coinvolgimento americano nella guerra contro il nazi-fascismo, spazzando via la rimanente apparenza di legittimità degli USA come modello democratico esportabile in ogni angolo del pianeta.

L’inquilino della Casa Bianca ha così ricordato come il 6 agosto 1945 “la morte cadde dal cielo e il mondo cambiò”. Senza nominare esplicitamente la provenienza della distruzione, le responsabilità di quei fatti Obama le ha attribuite a una sorta di malvagità innata degli esseri umani”. La Seconda Guerra Mondiale, a suo dire, scaturì quindi “dallo stesso istinto di dominazione o conquista che causò i conflitti” tra le tribù più antiche.

Dall’equazione dell’evento che quasi cancellò le due città giapponesi, secondo l’interpretazione di Obama, resta fuori perciò il fattore decisivo, quello dell’imperialismo americano, portatore ancora oggi di morte e distruzione. Da qui l’impossibilità di chiedere scusa da parte di un presidente a capo di un governo responsabile di guerre che hanno fatto complessivamente più vittime delle bombe sul Giappone, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, dallo Yemen alla Somalia.

L’altra questione toccata inevitabilmente da Obama a Hiroshima è stata quella della proliferazione di armi nucleari. Sempre in riferimento ai fatti del 1945 e al possesso da parte degli USA di un arsenale nucleare, il presidente ha invitato ad avere “il coraggio di fuggire dalla logica della paura” e di battersi per “un mondo senza [armi atomiche]”. Obama ha poi parlato di una “responsabilità condivisa” affinché si eviti che in futuro venga usato un altro ordigno nucleare.

A questa retorica, come quasi sempre è il caso con Obama, non corrispondono però in nessun modo le azioni dell’amministrazione Democratica. Con Obama, infatti, gli sforzi per la riduzione dell’arsenale nucleare USA sono stati ridimensionati in maniera drastica. Ciò è dovuto in definitiva all’aumento delle tensioni sul piano internazionale, principalmente tra gli Stati Uniti e Russia e tra Stati Uniti e Cina, dovuto all’impulso al militarismo di Washington per far fronte al declino della propria influenza su scala globale.

Gli USA continuano ad esempio a riservarsi la facoltà di colpire in maniera “preventiva” con armi nucleari non solo i paesi nemici che posseggono anch’essi tali armi ma anche quelli che non ne dispongono.

L’amministrazione Obama, infine, ha annunciato recentemente un colossale piano di modernizzazione dell’arsenale nucleare americano. I progetti erano stati descritti da una lunga esclusiva del New York Times e prevedono lo stanziamento di mille miliardi di dollari nei prossimi trent’anni.

Al di là delle vuote parole di pace pronunciate da Obama sul luogo di uno dei più atroci crimini mai commessi dagli Stati Uniti, la realtà dei fatti indica piuttosto un paese e un governo intento sempre più a perseguire politiche fatte di militarismo, violenza e nuove guerre con effetti potenzialmente devastanti.

di Michele Paris

Sempre più vicina alla conquista ufficiale della nomination per il Partito Democratico, Hillary Clinton si ritrova in una posizione imbarazzante e decisamente poco comune per un candidato alla Casa Bianca a questo punto della corsa. Il suo sfidante nelle primarie, il senatore del Vermont Bernie Sanders, continua a essere una presenza ingombrante sulla strada della convention Democratica di luglio e il seguito popolare che ha suscitato negli Stati Uniti sta facendo emergere tutte le debolezze della prima donna candidata alla presidenza per uno dei due principali partiti americani.

L’ammissione indiretta dei timori che circolano nel clan Clinton per una possibile ulteriore perdita di consensi e di gradimento all’interno del suo stesso partito è apparsa chiara questa settimana quando Hillary ha respinto una proposta del network FoxNews di partecipare a un ultimo dibattito pubblico con Sanders.

L’evento, per il quale Sanders aveva dato la propria disponibilità, avrebbe dovuto svolgersi alla vigilia del penultimo appuntamento delle primarie in calendario, previsto per il 7 giugno prossimo. In quella data voteranno sei stati, di cui quattro con un numero trascurabile di delegati in palio (Montana, New Mexico, North Dakota e South Dakota) e due con un bottino molto più ricco, il New Jersey con 126 e soprattutto la California con 475.

Sanders ha detto di non essere sorpreso dall’atteggiamento di Hillary, ma comunque deluso, poiché i due candidati Democratici si erano impegnati a confrontarsi almeno ancora una volta prima della fine della stagione delle primarie. La spiegazione data dalla Clinton ha lasciato intendere che un dibattito a questo punto sarebbe una perdita di tempo e una distrazione dai preparativi appena iniziati per la campagna presidenziale vera e propria contro il candidato Repubblicano, Donald Trump.

Apparentemente, la marcia indietro di Hillary sul dibattito lascia perplessi. Anche se vicinissima alla nomination, teoricamente Sanders avrebbe la possibilità di sopravanzarla. Soprattutto, il senatore del Vermont ha finora vinto un numero consistente di stati e generato un entusiasmo con pochi precedenti nella storia recente degli Stati Uniti. Considerarlo una semplice distrazione sembra avere quindi poco senso.

La vera ragione del rifiuto è da ricercare piuttosto nella debolezza stessa della candidata Clinton, la quale evidentemente ritiene che un’apparizione televisiva con Sanders non potrebbe che costarle dei voti e far aumentare il discredito nei suoi confronti tra gli elettori. In altre parole, Hillary è giunta alla conclusione che una sua maggiore esposizione mediatica con un vero contraddittorio la renderebbe ancora più impopolare.

Queste conclusioni e le ansie che devono attraversare lo staff di Hillary Clinton sono d’altronde supportate dai risultati dei sondaggi di opinione diffusi negli Stati Uniti in queste settimane. Hillary e Trump continuano a competere innanzitutto nel grado di ostilità che suscitano tra i potenziali elettori. Entrambi sono ben oltre il 50% per quanto riguarda il livello di impopolarità e una vasta maggioranza degli intervistati considera la ex first lady “disonesta”.

A pesare è una carriera spesa al servizio di multinazionali e grandi banche, grazie alle quali la famiglia Clinton ha potuto mettere assieme un’autentica fortuna. Moltissimi americani vedono poi con disprezzo e preoccupazione i precedenti di Hillary sul versante della politica estera, fatti di sostegno convinto e promozione in prima persona di numerose aggressioni militari.

I più recenti sondaggi stanno registrando inoltre su base nazionale un netto recupero di Donald Trump, dopo che fino a poche settimane fa indicavano un vantaggio più che consistente per Hillary. Se è vero che la campagna elettorale in vista di novembre è ancora tutta da fare, è altrettanto evidente che la candidata Democratica rischia di ritrovarsi a breve con altre grane che potrebbero costarle molti consensi.

Non solo eventuali sconfitte nelle ultime primarie la manderebbero alla convention di Philadelphia sull’onda di un umiliante trend negativo, ma le vicende giudiziarie e politiche che la vedono coinvolta potrebbero esploderle tra le mani da un momento all’altro, garantendo ai Repubblicani nuove linee d’attacco.

La questione delle e-mail gestite da un server privato quando era al dipartimento Stato ha dato vita a vari procedimenti di indagine. Un rapporto interno dell’Ispettore Generale è stato consegnato al Congresso proprio mercoledì e ha concluso che Hillary ha violato le norme federali sull’utilizzo della corrispondenza quando era segretario di Stato. Inoltre, l’indagine ha evidenziato come Hillary e gli ex membri del suo staff al dipartimento di Stato si fossero rifiutati di collaborare con l’ufficio dell’Ispettore Generale.

Sul caso continua a indagare anche l’FBI e, a breve, almeno un paio di collaboratori di Hillary saranno chiamati a testimoniare in un’aula di tribunale nell’ambito di una causa sullo stesso argomento intentata dall’organizzazione conservatrice Judicial Watch.

I Repubblicani al Congresso stanno inoltre continuando a tenere alta la pressione su Hillary per fare luce sulle sue possibili responsabilità nella carenza di misure di sicurezza alla rappresentanza diplomatica americana di Bengasi, in Libia, attaccata da fondamentalisti islamici nel settembre del 2012. L’assalto si concluse con la morte dell’ambasciatore USA, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini americani. Su questi fatti si attende un rapporto della Camera dei Rappresentanti che, quasi certamente, punterà il dito contro l’ex segretario di Stato.

Come se non bastasse, Hillary Clinton deve gestire con estrema prudenza le relazioni con il team di Bernie Sanders e soprattutto con i suoi sostenitori. Senza dubbio, Hillary e l’apparato di potere Democratico che ha favorito in tutti i modi la sua candidatura vedono con ostilità, se non disprezzo, la spinta in senso progressista emersa attorno alla candidatura del suo rivale.

Non solo ciò è profondamente contrario alle inclinazioni di Hillary, ma le impedisce anche di operare lo spostamento a destra che ritiene necessario per sottrarre voti a Donald Trump tra l’elettorato Repubblicano e per accreditarsi come la candidata più affidabile agli occhi di Wall Street e dell’apparato militare e dell’intelligence.

La questione Sanders promette comunque di rimanere all’ordine del giorno del Partito Democratico ancora per qualche tempo. Dopo la campagna di discredito condotta nei confronti del veterano senatore nelle ultime settimane, la tendenza dei vertici del partito sembra essere parzialmente cambiata, dal momento che rischiava di alienare ancor più i suoi elettori.

Questa settimana, così, il Comitato Nazionale Democratico ha concesso a Sanders la facoltà di nominare cinque membri della commissione che dovrà redigere la “piattaforma” politica del partito da presentare alla convention di luglio. Hillary Clinton potrà scegliere invece sei membri e i rimanenti quattro li nominerà la presidente del Comitato, la deputata clintoniana della Florida, Debbie Wasserman Schultz.

La mossa è stata studiata appositamente per cercare di pacificare i rapporti tra il partito e un Sanders che aveva denunciato in maniera molto dura le manovre messe in atto fin dall’inizio delle primarie per favorire la candidatura della Clinton. Se Sanders appare ancora incerto sull’atteggiamento che intende tenere una volta che Hillary si sarà assicurata ufficialmente la nomination, la presenza di suoi rappresentanti nella commissione che stilerà il programma elettorale del partito potrebbe fornirgli l’occasione per un’uscita di scena indolore, anche se non esattamente coraggiosa.

In questo modo, cioè, Sanders avrebbe la possibilità di fare includere una serie di proposte progressiste, che un eventuale presidente Clinton dovrebbe impegnarsi ad attuare, consentendogli di affermare che Hillary si è conquistata il suo appoggio e che la sua campagna ha dato qualche frutto nonostante la sconfitta.

Com’è noto a chiunque mastichi di politica negli Stati Uniti, però, le “piattaforme” programmatiche presentate dai principali partiti alle convention sono, nelle parole del Washington Post, sostanzialmente “documenti simbolici” a cui, in pratica, “nessuno sembra interessarsi”.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy