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di Carlo Musilli
“La Brexit aprirà un buco nero tra i 20 e i 40 miliardi di sterline nelle nostre finanze, i nostri ministri dovranno rivedere la riforma delle pensioni” e si spalancheranno le porte a “una nuova austerity”. È questo l’ultimo appello del premier David Cameron in vista del referendum con cui il 23 giugno gli elettori britannici decideranno se il futuro del Regno Unito sarà dentro o fuori dall’Unione europea.
Per convincere gli incerti a votare contro l’uscita, sulle colonne del Sunday Telegraph il numero uno di Downing Street dipinge scenari foschi: “Se voterete 'Leave' – sostiene Cameron – molti dei nostri progetti salteranno. Dovremo rinegoziare un trattato con la Ue: potrebbero volerci dieci anni e sarebbero dieci anni persi per la Gran Bretagna. Se voterete 'Remain', avrete un Paese stabile. Vi assicuro che se resteremo nell'Ue avremo le risorse finanziarie per mantenere i benefit ai pensionati. E potremo proiettarci verso la creazione di più lavoro, più case e più opportunità per i vostri bambini e i vostri nipoti”.
In realtà, in caso di Brexit le prospettive sarebbero addirittura peggiori di queste: la Sterlina rischia di svalutarsi molto più di quanto non abbia già fatto (c’è chi ipotizza la parità con l’Euro), mentre il PIL britannico, oggi in crescita, entrerebbe in una lunga fase recessiva che lo porterebbe a scendere del 3% entro il 2020 e del 5% entro il 2030 (stime Ocse). La Confindustria inglese, inoltre, ritiene che l’addio a Bruxelles causerebbe la perdita di un milione di posti di lavoro. Di fronte a previsioni di questo tipo, i timori di Cameron appaiono più che fondati. La domanda però è un’altra: per quale ragione la maggioranza degli elettori britannici, stando ai sondaggi, non ha paura? Perché milioni di persone si ostinano a voler uscire dall’Ue?
Innanzitutto, quando si fa riferimento al fronte pro-Brexit non bisogna pensare a Londra. L’odio britannico contro l’Europa non arde nella capitale (che in caso di uscita perderebbe il ruolo di principale centro finanziario continentale), ma in tutto il resto del Regno e soprattutto in provincia, nei centri minori, nelle campagne. È qui che attecchisce più facilmente la falsa storia dell’Ue come zavorra costosa, fonte d’immigrati che rubano il lavoro e mettono in pericolo i diritti sociali degli onesti sudditi di Sua Maestà.
Questa rappresentazione si nutre di bugie inventate ad arte e diffuse al solo scopo di seminare il panico. Il sito infacts.org ha raccolto i cinque miti più fuorvianti usati in mala fede dalla propaganda pro-Brexit: primo, la Turchia sta per entrare nell’Unione europea; secondo, la Gran Bretagna si ritrova spesso in minoranza nelle votazioni europee; terzo, l’Ue ha più bisogno dell’UK di quanto l’UK abbia bisogno dell’Ue; quarto, i contribuenti britannici pagano 350 milioni di sterline a settimana a Bruxelles; quinto, uscire dall’Europa è l’unico modo per salvare il servizio sanitario nazionale britannico, perché ci saranno meno immigrati e più soldi da spendere. Sono tutte affermazioni false e molto facili da smentire - basta documentarsi un minimo - ma potrebbero bastare a convincere la maggioranza degli inglesi.Poi, certo, esistono le panzane estemporanee, come quella distillata da Nigel Farage, leader del partito euroscettico Ukip, secondo cui restando nell’Ue aumenteranno gli assalti sessuali alle ragazze inglesi. Altre leggende metropolitane parlano di un milione e mezzo di clandestini in Gran Bretagna e di 700 reati commessi ogni settimana da cittadini comunitari.
Quello che nessun sostenitore della Brexit dice mai è che, in caso di uscita dall’Ue, il Regno Unito perderebbe il suo accesso preferenziale al mercato europeo, a cui oggi è legata circa la metà del commercio britannico. Lo shock economico che ne seguirebbe sarebbe gravissimo e il Paese si ritroverebbe di certo con molto meno denaro di oggi.
Un’altra verità su cui milioni di britannici chiudono gli occhi è che gli immigrati comunitari non sono affatto un peso per il sistema sanitario inglese. Al contrario, lo supportano: sia perché pagano più tasse di quanto non sfruttino i servizi (essendo mediamente più giovani della media della popolazione), sia perché, udite udite, in Gran Bretagna un medico su 10 è un immigrato comunitario. Basterebbe solo questo dato per capire quanto il Regno Unito abbia bisogno dell’Europa.
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di Michele Paris
Quali potrebbero essere le implicazioni e i riflessi politici e sociali negli Stati Uniti se dovesse emergere che la minaccia di attentati terroristici sul suolo domestico è in gran parte non solo alimentata, ma fabbricata dalle forze di polizia ? La domanda è del tutto legittima, visto il ruolo ricoperto dall’FBI (Federal Bureau of Investigation) nell’ideazione, pianificazione e quasi esecuzione di molte delle trame di matrice presumibilmente terroristica “sventate” in America negli anni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001.
La discussione sulle cosiddette “sting operations”, o operazioni sotto copertura, condotte dall’FBI non è nuova, ma un’analisi approfondita pubblicata questa settimana dal New York Times ha riportato al centro dell’attenzione sia il crescente ricorso a questi metodi nell’ambito della “guerra al terrorismo” sia la strumentalizzazione politica della presunta minaccia incombente sulla sicurezza pubblica.
Per il quotidiano americano, le operazioni sotto copertura erano considerate in passato come uno strumento eccezionale, mentre oggi “vengono impiegate in circa due su tre procedimenti di incriminazione che coinvolgono individui sospettati di avere legami con lo Stato Islamico” (ISIS). Le preoccupazioni sono tanto maggiori quanto le operazioni clandestine non richiedono il mandato di un giudice, ma possono essere autorizzate sommariamente dai “supervisori” dell’FBI e dai procuratori del Dipartimento di Giustizia.
Se a queste operazioni si faceva già ricorso quando la minaccia terroristica principale per gli americani era identificata con al-Qaeda, l’impennata registrata dal Times con l’entrata in scena dell’ISIS appare come la logica conseguenza della caratterizzazione con toni apocalittici dell’ascesa del “califfato”. Parallelamente, l’opposizione sempre più forte della popolazione americana a nuovi interventi militari all’estero e all’adozione di misure lesive delle libertà democratiche ha richiesto l’ingigantimento della minaccia terroristica percepita.
La necessità di alimentare, se non addirittura di promuovere, la minaccia del terrorismo è apparsa tra le righe di una dichiarazione rilasciata sempre al New York Times dal capo della divisione sicurezza nazionale dell’FBI, Michael Steinbach. Rivelando forse più di quanto intendeva sostenere, quest’ultimo ha affermato che la sua agenzia “non può attendere che una persona [sospettata di pianificare attentati terroristici] si muova secondo i propri tempi”, ma va evidentemente incoraggiata in qualche modo.
L’FBI, ha aggiunto Steinbach, “non si può permettere di rimanere immobile e aspettare, sapendo che un tale individuo sta attivamente complottando” un attentato. La realtà dei casi analizzati dal Times indica piuttosto che l’FBI, al fine di favorire un clima di tensione nel paese, decide sempre più spesso di agire per precipitare l’organizzazione di atti violenti che, senza il contributo attivo e determinante di informatori o agenti sotto copertura, non verrebbero mai portati a termine.
Così, in recenti operazioni “dalla Florida alla California, gli agenti [dell’FBI] hanno aiutato individui sospettati di essere estremisti ad acquistare armi, a studiare obiettivi da colpire e a organizzare viaggi in Siria per unirsi allo Stato Islamico”. Per l’ex agente FBI sotto copertura, Michael German, la polizia federale americana sta in sostanza “inventando casi di terrorismo”, poiché le persone coinvolte, di per sé, “sono ben lontane dal rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti”.
Avvocati difensori, organizzazioni a difesa dei diritti civili e membri della comunità islamica continuano a contestare le “sting operations” dell’FBI, definendole come vere e proprie trappole per individui frequentemente emarginati o affetti da un qualche disagio mentale.Molti dei casi descritti dal New York Times rivelano una trama pressoché identica, nella quale gli agenti dell’FBI individuano sui social media persone che esprimono simpatie o sostegno per organizzazioni fondamentaliste, come l’ISIS, oppure manifestano l’intenzione di commettere atti violenti. Una volta identificato il proprio obiettivo, l’FBI incarica un agente sotto copertura di contattare on-line il potenziale “terrorista”.
Stabilito il primo contatto, segue uno scambio di messaggi, per fare emergere le intenzioni del sospettato, ed eventualmente un incontro di persona. Il compito dell’agente clandestino è quello di istigare l’individuo oggetto dell’operazione, proponendosi come un possibile fornitore di armi ed esplosivi, aiutandolo a individuare obiettivi da colpire oppure promettendo di facilitare un futuro trasferimento in Medio Oriente.
In molti casi, l’FBI decide l’arresto dei sospettati dopo che a questi ultimi sono state fornite armi, rigorosamente inoffensive, o biglietti aerei per il Medio Oriente. Invariabilmente, gli agenti sotto copertura registrano inoltre conversazioni nelle quali chiedono in maniera esplicita ai potenziali terroristi se intendono rinunciare all’attentato in programma o a unirsi all’ISIS. In questo modo, l’FBI si mette presumibilmente al riparo da complicazioni legali e dall’accusa di avere incastrato la persona al centro delle operazioni.
Emblematico è l’esempio del presunto estremista islamico Gonzalo Medina, di Miami. L’FBI aveva dapprima aperto un’indagine su quest’ultimo dopo avere avuto notizia delle sue intenzioni di fare esplodere una sinagoga. Le prove nei suoi confronti erano però scarse, ma il Bureau non si è dato per vinto. Un informatore dei federali lo aveva allora agganciato, ma in una discussione durante un incontro di persona Medina aveva preso le distanze da un amico che a sua volta si era detto disposto a prendere di mira una sinagoga.
Qualche giorno più tardi i due si trovavano in auto in un sobborgo di Miami e l’informatore aveva indicato una sinagoga come possibile obiettivo di un attacco terroristico durante una festività ebraica che avrebbe avuto luogo di lì a due settimane. Medina, verosimilmente per assecondare il suo interlocutore, aveva risposto che quello sarebbe stato “un buon giorno per fare esplodere” l’edificio.
L’informatore aveva così presentato Medina a un esperto di esplosivi, in realtà un agente dell’FBI in incognito. All’incontro, Medina aveva detto di volere commettere un attentato in nome dell’ISIS e l’agente gli aveva posto varie domande per assicurarsi delle sue motivazioni, aggiungendo che “non era obbligato a farlo”.
Infine, lo stesso agente aveva consegnato a Medina una bomba “inerte” ed entrambi si erano diretti in auto verso la sinagoga in questione. Quando il presunto attentatore era sceso dal veicolo con l’ordigno tra le mani, gli uomini dell’FBI hanno proceduto all’arresto.
Altri casi riportati dal Times sollevano le stesse perplessità e confermano come la minaccia teorica rappresentata dagli individui al centro delle operazioni sotto copertura dipende interamente dalle azioni dell’FBI. I sospettati non si sono quasi mai macchiati di alcun crimine in senso stretto, mentre eventuali post o dichiarazioni a favore di organizzazioni fondamentaliste, in assenza di atti concreti, dovrebbero essere garantiti dal principio della libertà di espressione, protetta dal Primo Emendamento alla Costituzione americana.
Tra i casi citati che suscitano le maggiori perplessità c’è quello di Emanuel Lutchman di Rochester, nello stato di New York, al quale un informatore della polizia aveva consegnato 40 dollari per l’acquisto di un machete e altri oggetti che avrebbero dovuto servire per l’esecuzione di un improbabile attentato alla vigilia di Natale dello scorso anno. Lutchman era in terapia per una malattia mentale e, secondo i suoi famigliari, qualche mese prima dell’arresto l’FBI gli aveva proposto di diventare egli stesso un informatore.
In molti casi, i sospettati finiti nella rete dell’FBI si dichiarano colpevoli di avere progettato attentati terroristici o di essere stati sul punto di unirsi a un organizzazione fondamentalista. Più che la concretezza delle prove a loro carico, ciò conferma il disorientamento di queste persone.Nonostante le accuse rivolte al governo di fabbricare a tavolino minacce e complotti di natura terroristica, i casi finiti in tribunale si sono quasi sempre conclusi con verdetti di colpevolezza e lunghe condanne. Anche in questo caso, l’esito dei procedimenti basati sulle operazioni sotto copertura non dipende tanto dalla solidità delle accuse, quanto da leggi sull’anti-terrorismo particolarmente severe e dalla sostanziale accettazione dei principi anti-democratici della “guerra al terrore” da parte del potere giudiziario.
Almeno un giudice americano ha però nel recente passato descritto le “sting operations” dell’FBI per quello che realmente sono. Il giudice Colleen McMahon del tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Manhattan in un caso del 2011 affermò in aula di “credere senza ombra di dubbio che non ci sarebbe stato nessun crimine senza l’istigazione, la pianificazione e la messa in atto da parte del governo”.
Il caso riguardava quattro musulmani di Newburgh, nello stato di New York. L’FBI aveva piazzato un informatore in una moschea di questa città e l’operazione prevedeva addirittura un piano per il lancio di missili terra-aria contro una base aerea e due sinagoghe. Un finto missile era stato realizzato dall’FBI e successivamente consegnato ai quattro “attentatori”. Nonostante l’assurdità della vicenda e le esternazioni del giudice di New York, gli imputati vennero incredibilmente condannati e le accuse sarebbero state poi confermate anche dalla sentenza di Appello.
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di Michele Paris
Il sostanziale epilogo delle primarie Democratiche per la presidenza degli Stati Uniti è stato degnamente suggellato questa settimana dallo stesso genere di manovre messe in atto fin dallo scorso anno dai vertici del partito e dalla stampa ufficiale “liberal” per garantire l’assegnazione della nomination alla candidata di gran lunga favorita dall’establishment, Hillary Clinton.
A giudicare dai sondaggi che erano circolati nei giorni precedenti il voto di martedì, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, era dato nettamente in vantaggio in quattro dei sei stati chiamati alle urne, mentre la sfida in California sembrava doversi risolvere in un testa a testa. Alla fine, Sanders ha prevalso solo in Montana e nei “caucuses” del North Dakota, mentre l’ex segretario di Stato ha messo le mani, oltre che sulla California con un margine di ben 13 punti percentuali, su New Mexico, South Dakota e, come previsto, New Jersey.
Il raffreddamento degli entusiasmi dei sostenitori di Sanders appare dunque chiaro ed è stato dovuto in larga misura al clima di inevitabilità creato da media e politici Democratici attorno alla candidatura di Hillary Clinton. Clamorosa è stata soprattutto la decisione presa lunedì dalla Associated Press di annunciare l’ormai certa conquista della nomination da parte di Hillary in seguito a un riconteggio, per mano della stessa agenzia di stampa e dal tempismo infallibile, del numero di delegati raccolti dai due aspiranti alla Casa Bianca.
Hillary aveva vinto nelle primarie di Porto Rico e nei “caucuses” delle Isole Vergini nel fine settimana, ma l’incoronazione dell’autorevole agenzia di stampa americana è stata possibile solo tenendo in considerazione l’orientamento di voto dei “superdelegati” Democratici, quelli cioè non assegnati dal voto popolare nei singoli stati.
I “superdelegati”, ovvero membri del Congresso o esponenti di spicco del partito, hanno diritto di scegliere liberamente il candidato da appoggiare alla convention. Tuttavia, nonostante la maggior parte avesse deciso di schierarsi dalla parte della Clinton, essi hanno facoltà di cambiare idea fino alla votazione ufficiale dell’assemblea dei delegati durante la convention. Per questa ragione, tecnicamente la competizione alla vigilia delle primarie di martedì era ancora aperta e la notizia della vittoria di Hillary circolata con un giorno di anticipo ha molto probabilmente influito sui risultati finali.
L’uscita della Associated Press è stata subito ripresa dalle altre testate negli Stati Uniti. Hillary e il suo team hanno invece invitato ad attendere l’esito del voto, ben sapendo però che la notizia sarebbe stata sufficientemente amplificata dalla stampa americana.
Se e quali macchinazioni recenti e meno recenti a favore della ex first lady siano risultate decisive nel decidere l’assegnazione della nomination per il Partito Democratico è difficile da valutare. Certo è che l’atteggiamento dei leader Democratici e dei media in questa tornata elettorale negli USA ha fornito indicazioni interessanti sullo stato del partito e della sua candidata alla presidenza.
L’ansia di liquidare Sanders e di dichiarare chiuse le primarie a favore di Hillary, ad esempio, non indica affatto la forza di quest’ultima, bensì al contrario l’estrema debolezza della sua candidatura. Il protrarsi della sfida tra i Democratici ha rischiato cioè di esporre sempre più la vera natura di Hillary, vista giustamente con avversione dalla maggior parte degli americani, e di favorire il candidato Repubblicano, Donald Trump.
La fragilità di Hillary e l’insofferenza di decine di milioni di americani nei suoi confronti l’avevano spinta un paio di settimane fa anche a rifiutare la proposta di Sanders di apparire in un ultimo dibattito televisivo prima della fine delle primarie. Hillary aveva valutato che un evento nel quale il suo rivale avrebbe potuto attaccarla per il suo curriculm politico reazionario si sarebbe risolto in un disastro per la sua immagine.La permanenza di Sanders nella corsa ha anche contribuito al processo di radicalizzazione dell’elettorato Democratico, già galvanizzato dalla campagna di un candidato presentatosi con un programma progressista e addirittura auto-definitosi “democratico-socialista”. Questa tendenza potrebbe minacciare una diserzione di una parte degli elettori del partito a novembre, tutt’altro che disposti a turarsi il naso e a votare una candidata legata a doppio filo con Wall Street e l’apparato militare e della sicurezza nazionale americano.
Per prevenire uno scenario di questo genere, Sanders sarà sollecitato a svolgere fino in fondo il ruolo che la sua candidatura doveva avere fin dall’inizio, ovvero quello di convogliare l’opposizione delle classi più disagiate verso il Partito Democratico, impedendo che essa prenda una qualche forma autonoma e alternativa all’attuale sistema politico di Washington.
Sanders non ha per il momento riconosciuto la sconfitta e ha anzi invitato i suoi sostenitori nella capitale degli Stati Uniti a recarsi alle urne per l’ultima tappa delle primarie 2016 che si terrà martedì prossimo proprio a Washington. Il senatore del Vermont ha però richiesto e ottenuto un faccia a faccia con il presidente Obama giovedì, nel quale verosimilmente i due discuteranno le mosse necessarie a “unificare” il Partito Democratico attorno a Hillary Clinton.
Svanite le chances di nomination, a Sanders non resterà che cercare di trasferire il suo capitale politico dalla sfida con la rivale all’impegno per la definizione della piattaforma programmatica del partito. In realtà, la linea del Partito Democratico rimarrà invariabilmente “pro-business” a prescindere da quanto verrà proposto durante la convention di luglio a Philadelphia. Tuttavia, anche per non apparire troppo remissivo di fronte a Hillary e ai vertici del partito dopo una battaglia durata mesi, Sanders finirà per promuovere l’illusione di un Partito Democratico in grado di guardare ai bisogni di lavoratori e classe media, spingendo per l’adozione di alcune sue proposte di stampo progressista.
In questo modo, Sanders riuscirà a giustificare il suo appoggio alla Clinton, assicurando a quest’ultima il voto a novembre della maggior parte dei suoi sostenitori. Hillary, da parte sua, potrà imprimere l’attesa svolta a destra della sua campagna elettorale, così da provare a intercettare i voti degli elettori Repubblicani non intenzionati ad appoggiare Trump.
L’altro pilastro della strategia di Hillary per le presidenziali vere e proprie sarà l’accento sulla natura “storica” della candidatura della prima donna alla Casa Bianca per uno dei due principali partiti americani. La nomination della ex first lady è già stata festeggiata con toni trionfali, e a tratti disonesti e ripugnanti, da quasi tutti i media ufficiali negli USA e non solo.Il New York Times, ad esempio, è uscito mercoledì con un apposito editoriale per celebrare l’evento, definito una “pietra miliare” per i diritti delle donne, lasciando intendere che la sola presenza sulle schede elettorali di un candidato di sesso femminile, ancorché guerrafondaio, reazionario e al servizio di ricchi e potenti, costituisca un qualche progresso per la società.
La fissazione “liberal” sulle questioni di genere e di razza era apparsa già evidente nel 2008 dopo la conquista per la prima volta da parte di un politico di colore della nomination Democratica e poi della presidenza. Il totale abbandono delle pretese riformiste di quell’esperienza elettorale si sarebbe tradotto in conflitti sanguinosi, crimini di guerra, smantellamento dei diritti democratici e dei lavoratori, cioè precisamente quanto è di nuovo in serbo per gli americani e il resto del pianeta in caso di vittoria a novembre della candidata Hillary Clinton.
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di Michele Paris
Si chiama “Anaconda”, ha preso il via lunedì in Polonia ed è la più imponente esercitazione militare condotta dalla NATO in Europa orientale a partire dalla fine della Guerra Fredda. L’Operazione “Anaconda” coinvolgerà 31 mila soldati di 24 paesi e, fino al 17 giugno prossimo, prevede la simulazione di scenari di guerra provocati da una “azione offensiva” condotta dalle forze armate russe. Sinistramente, per partecipare alle manovre i carri armati tedeschi hanno varcato il confine polacco da Ovest verso Est per la prima volta dall’invasione nazista di questo paese nel 1941.
Ufficialmente, l’operazione dovrebbe testare il livello di cooperazione tra i comandi alleati e i soldati dei diversi paesi in risposta a minacce di natura militare, chimica e tecnologica. L’esercitazione consiste però di fatto in una prova di un’invasione del territorio russo da parte delle truppe dei paesi europei occidentali e orientali. I contingenti più numerosi sono quelli di Stati Uniti e Polonia, con rispettivamente 14 mila e 12 mila uomini, mentre sono presenti anche soldati di paesi non membri della NATO, tutti sotto il comando del generale polacco Marek Tomaszycki.
Un anonimo diplomatico di un paese europeo di stanza a Varsavia ha rivelato al Guardian che lo scenario “da incubo” evocato dall’esercitazione potrebbe essere causato da un “incidente, un errore di calcolo che la Russia interpreti, o decida di interpretare, come un’azione offensiva”.
L’Operazione “Anaconda” s’inserisce d’altra parte in un quadro generale fatto di pericolose provocazioni militari nei confronti della Russia, con le quali la NATO intende precisamente suscitare la reazione di Mosca, sia per legittimare il costante dispiegamento di uomini e armamenti lungo il proprio fianco orientale sia, nel medio o lungo periodo, per giustificare una possibile aggressione militare dagli esiti difficilmente calcolabili.
Sempre il Guardian, nello stesso articolo dedicato all’esercitazione NATO, ha dimostrato come i partecipanti siano consapevoli della natura provocatoria delle operazioni. “Esperti” in materia di difesa citati dal quotidiano britannico hanno avvertito che una “qualsiasi incomprensione potrebbe generare una reazione offensiva da parte di Mosca”. Allo stesso modo, l’analista polacco Marcin Zaborowski, di un istituto di ricerca di Varsavia, ha definito il clima attorno all’esercitazione “teso” e nel quale non è da escludere il verificarsi di “incidenti”.
La mobilitazione militare in territorio polacco ha suscitato la prevedibile irritazione del governo russo. Fonti militari hanno fatto sapere che Mosca ha disposto l’invio di tre divisioni - ciascuna composta da 10 mila uomini - ai confini occidentali in risposta all’esercitazione dei paesi NATO.
Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha invece risposto alle dichiarazioni al limite dell’isteria soprattutto di vari governi dell’Europa orientale, affermando che “ogni politico serio e onesto è ben consapevole che la Russia non invaderà mai nessun membro della NATO”. Per questa ragione, ha proseguito il capo della diplomazia russa, “non esistono minacce in questa parte del mondo che giustifichino un’escalation” militare.Quasi ogni giorno, i governi NATO mettono in guardia dal pericolo esistenziale rappresentato dalla Russia e da una rinnovata aggressività che caratterizzerebbe le decisioni del Cremlino. In quest’ottica, i paesi dell’ex Patto di Varsavia rischierebbero, letteralmente da un momento all’altro, di vedere i carri armati russi attraversare le loro frontiere.
Questo tentativo di ribaltamento della realtà, amplificato dalla stampa ufficiale, trae spunto dalla crisi in Ucraina, provocata, secondo l’interpretazione “mainstream”, dall’intrusione di Mosca nelle vicende interne di questo paese e culminata con l’annessione della Crimea, con buona pace di quanti continuano a considerare le vicende del 2014 come un colpo di stato guidato da forze apertamente fasciste sotto la direzione di Washington e Berlino.
Le manovre della NATO in Europa orientale sono quindi di natura interamente offensiva e l’Operazione Anaconda è solo la più recente, e non certo l’ultima, delle iniziative intraprese negli ultimi due anni. Solo qualche settimana fa, l’Alleanza aveva annunciato l’attivazione di un nuovo sistema anti-missilistico in Romania, giustificato (assurdamente) con la necessità di neutralizzare eventuali missili provenienti dall’Iran, ma in realtà rivolto contro la Russia.
Sempre lunedì, poi, 5 mila truppe NATO hanno inaugurato un’altra esercitazione militare, in questo caso in Lituania, paese, assieme agli altri due del Baltico, tra i più ostinatamente anti-russi del continente europeo.
Una nuova accelerazione in questo senso è prevista durante il summit NATO in programma l’8 e il 9 di luglio proprio a Varsavia. Qui dovrebbero essere ratificate le decisioni di schierare in maniera stabile quattro battaglioni in altrettanti paesi dell’Europa orientale (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania), di istituire nuovi centri di comando sempre ai confini con la Russia e di rafforzare i legami militari con paesi come Georgia e Ucraina, se non addirittura di spianare la strada al loro ingresso nell’Alleanza.
L’esercitazione in corso in Polonia serve anche al governo populista di destra di questo paese per alimentare la feroce retorica anti-russa che l’ha contraddistinto fin dal suo insediamento nell’autunno scorso. Il gabinetto guidato dal Partito Diritto e Giustizia (PiS) della premier, Beata Szydlo, e dell’ex primo ministro, Jaroslaw Kaczynski, vede con sospetto sia l’Unione Europea sia la Germania, mentre ambisce alla costruzione di legami più stretti con NATO e Stati Uniti, a cui intende legare la sicurezza del paese.
A dare un’idea dell’attitudine nei confronti di Mosca del governo di Varsavia era stato un paio di mesi fa il ministro degli Esteri polacco, Witold Waszcykowski, il quale durante una visita in Slovacchia aveva definito la Russia una “minaccia esistenziale” ben più grave del terrorismo e dello Stato Islamico (ISIS).
L’Operazione “Anaconda” segna infine l’impiego per la prima volta da parte polacca della forza paramilitare “territoriale” istituita dal governo e composta da circa 35 mila uomini, in larga misura reclutati in ambienti di estrema destra. La creazione di questa milizia si colloca in una fase segnata da tensioni tra gli ambienti militari e l’esecutivo dopo che quest’ultimo ha liquidato o costretto alle dimissioni un quarto dei generali polacchi.All’esercitazione appena inaugurata dovrebbero partecipare due brigate di volontari a fianco dell’esercito regolare, ma la loro presenza sta suscitando non pochi malumori e preoccupazioni tra i vertici delle forze armate.
Il malcontento registrato tra i militari a Varsavia non è peraltro un fattore isolato, visto che gli orientamenti strategici del governo del PiS sono visti con sospetto da almeno una parte della classe dirigente polacca. Ugualmente, dietro all’ostentazione di unità delle forze armate degli oltre venti paesi impegnati nell’esercitazione in Polonia si nascondono divisioni significative sul corso delle relazioni da tenere nei confronti della Russia.
Molti governi europei, infatti, pur allineandosi formalmente alla linea dura dettata da Washington, continuano ad auspicare un abbassamento dei toni e il sostanziale ritorno alla normalità, così da non danneggiare ulteriormente gli interessi economici ed energetici che li legano a Mosca.
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di Michele Paris
Per il governo americano, qualsiasi palcoscenico internazionale in Asia orientale è diventato ormai l’occasione per sollevare la questione delle contese territoriali nei mari che bagnano la Cina e per moltiplicare polemiche e tensioni nei confronti di Pechino. Questo stesso copione si è ripetuto a Singapore e nella capitale cinese, dove sono andati in scena due attesi eventi annuali, rispettivamente il cosiddetto “Dialogo Shangri-La”, organizzato dall’Istituto Internazionale per gli Studi Strategici britannico, e il “Dialogo Strategico ed Economico” tra le prime due potenze economiche del pianeta.
Il primo appuntamento ha riunito nel fine settimana vari ministri di paesi asiatici, europei e del continente americano. Durante il summit si è assistito alla definizione delle rispettive posizioni di USA e Cina sulle dispute sempre più accese nel Mar Cinese Meridionale. Il clima minaccioso osservato a Singapore è stato in qualche modo amplificato dalla consapevolezza dell’imminenza di un verdetto molto delicato di un tribunale ONU con sede a L’Aia, in Olanda, sulla legittimità delle rivendicazioni cinesi sulle isole Spratly, nel Mar Cinese Meridionale.
La causa è stata intentata dal governo delle Filippine, il quale rivendica queste stesse isole, in seguito alle pressioni di Washington e l’esito dovrebbe essere quasi certamente sfavorevole a Pechino. Il governo cinese ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di riconoscere il risultato di un procedimento la cui legittimità non ha mai riconosciuto.
A Singapore erano comunque presenti per gli Stati Uniti il segretario alla Difesa, Ashton Carter, e il comandante delle forze armate USA nel Pacifico, ammiraglio Harry Harris. Sabato, il “falco” Carter è stato protagonista di un discorso provocatorio che ha ricordato il massiccio dispiegamento di armamenti americani nella regione “Asia-Pacifico”.
Il capo del Pentagono ha anche elencato una serie di paesi alleati, a cominciare da Australia e Giappone, o con cui gli USA hanno siglato accordi di partnership militare. In maniera assurda, Carter ha assicurato che le manovre del suo paese in Estremo Oriente “non sono dirette contro nessun paese in particolare”, salvo contraddirsi subito dopo nel ricordare le “ansie crescenti… per le attività della Cina nei mari, nel cyberspazio e nei cieli della regione”.
Carter ha infine proposto nel suo intervento un’immagine ampiamente riportata dalla stampa internazionale riguardo alla Cina, la quale rischierebbe di “erigere una Grande Muraglia di auto-isolamento”. Ferma restando la discutibilità di questa asserzione, viste le relazioni economico-commerciali fittissime intrattenute da Pechino praticamente con tutti i propri vicini, le parole del segretario alla Difesa USA hanno evocato scenari di guerra, a cui lo stesso Carter ha fatto riferimento esplicito nel corso di altri eventi della due giorni di Singapore.
In particolare, Carter ha affermato che un eventuale impulso all’attività di costruzione da parte di Pechino sulle isole oggetto del prossimo verdetto del tribunale de L’Aia potrebbe spingere gli USA e altri paesi nella regione ad “agire” in un modo che farebbe aumentare le tensioni e l’isolamento della Cina. L’ammiraglio Harris, invece, ha parlato della presunta volontà americana di collaborare con la Cina, assicurando tuttavia che il suo paese “deve essere pronto al confronto militare, nel caso fosse necessario”.La risposta del governo cinese alle provocazioni degli Stati Uniti è stata altrettanto minacciosa e con ogni probabilità irrobustita dall’irritazione per le iniziative di Washington nei mesi scorsi, come il ripetuto invio di imbarcazioni da guerra al largo delle isole contese e controllate da Pechino in missioni ufficialmente destinate ad affermare il principio della “libertà di navigazione” nel Mar Cinese Meridionale.
Il vice-capo di Stato Maggiore cinese, ammiraglio Sun Jianguo, ha ricordato come “alcuni paesi con ambizioni egemoniche hanno fatto in modo che paesi più piccoli si sentano autorizzati a provocare quelli più grandi”. La Cina, ha proseguito l’alto ufficiale di Pechino, “non tollererà le conseguenze né consentirà intrusioni nella propria sovranità e nella propria sicurezza, o rimarrà indifferente nei confronti dei paesi che intendono alimentare il caos nel Mar Cinese Meridionale”.
Molti ministri presenti a Singapore hanno assecondato la linea americana, puntando il dito sostanzialmente contro la Cina per le tensioni nella regione. Soprattutto il rappresentante del Vietnam, paese recentemente visitato dal presidente Obama, ha usato toni minacciosi nell’ipotizzare un possibile “conflitto militare” se Pechino non dovesse ammorbidire le proprie posizioni.
Il “Dialogo Shangri-La” ha registrato dunque la tendenza all’inasprirsi dello scontro tra USA e Cina in parallelo al procedere delle operazioni americane di accerchiamento ai danni di quest’ultimo paese. Le ragioni dietro la strategia americana hanno a che fare con i tentativi di ostacolare l’ascesa della Cina a potenza in grado di minacciare la supremazia di Washington nel continente asiatico.
Le tensioni esplosive tra i due paesi hanno segnato solo un parziale e apparente allentamento nella prima giornata del vertice bilaterale in programma tra lunedì e martedì a Pechino. La sessione inaugurale del “Dialogo Strategico ed Economico” ha visto la presenza del presidente cinese, Xi Jinping, il quale ha auspicato relazioni basate sulla “fiducia reciproca” tra USA e Cina, in modo da gestire i conflitti ed evitare “errori di valutazione strategici”. Per il numero uno del Partito Comunista Cinese, inoltre, “l’oceano Pacifico dovrebbe essere un teatro di cooperazione” e non un’area nella quale si manifestano le rivalità tra le potenze mondiali.
A ribadire nel concreto la posizione ufficiale cinese sulle contese territoriali è stato il Consigliere di Stato, Yang Jiechi, ovvero uno degli architetti della politica estera di Pechino. Yang ha ricordato la consuetudine di discutere con i paesi del sud-est asiatico le dispute territoriali, seguendo il principio preferito dalla Cina, cioè il perseguimento di trattative bilaterali e senza ingerenze di paesi terzi, con un chiaro riferimento agli Stati Uniti.
Il segretario di Stato USA, John Kerry, sempre dalla capitale cinese ha invece invitato Pechino a non annunciare in maniera “unilaterale” la creazione di una Zona di Identificazione per la Difesa Aerea (ADIZ) nelle aree contese del Mar Cinese Meridionale. L’ADIZ è un’area situata al di fuori dello spazio aereo di un determinato paese e impone ai velivoli che l’attraversano di fornire informazioni sulla loro rotta alle autorità, in modo che esse abbiano tempo a sufficienza per identificare possibili minacce e prendere le misure necessarie a prevenirle. La Cina aveva già adottato questa iniziativa due anni fa nel Mar Cinese Orientale, suscitando le proteste degli Stati Uniti.
Il “Dialogo Strategico ed Economico” tra USA e Cina si tiene annualmente da circa un decennio, ma l’obiettivo di attenuare le tensioni bilaterali e di ridurre la distanza tra le rispettive posizioni sulle questioni più controverse è stato in larga misura mancato sotto la spinta di fattori oggettivi, determinati in sostanza dall’evoluzione degli interessi strategici di Washington.
Il vertice bilaterale in corso questa settimana prevede colloqui incentrati non solo sulle questioni legate alla sicurezza e alla politica estera, ma anche all’economia. Anche su questo fronte i rappresentanti dell’amministrazione Obama hanno fatto pressioni sulle loro controparti cinesi.Oltre alle solite accuse rivolte a Pechino circa la violazione della proprietà intellettuale di molte aziende americane, il segretario al Tesoro USA, Jack Lew, ha sollevato una questione molto dibattuta negli ultimi mesi negli Stati Uniti e non solo. Lew ha cioè invitato il governo a porre rimedio all’eccesso di produzione che si riscontra in vari settori industriali cinesi.
Soprattutto la produzione in eccesso di acciaio e alluminio cinesi sta inondando i mercati globali di questo materiale, spingendo verso il basso le quotazioni con effetti rovinosi sulle industrie occidentali. Il governo di Pechino, da parte sua, aveva in realtà già annunciato qualche settimana fa iniziative per ridimensionare alcuni settori industriali dominati dai colossi pubblici, con tutte le conseguenze del caso in termini di perdita di posti di lavoro.
La questione si incrocia però con un’altra vicenda delicata, quella del riconoscimento dello status ufficiale di “economia di mercato” da parte di Stati Uniti e Unione Europea. Ciò consentirebbe alla Cina di evitare l’imposizione di dazi doganali punitivi sui propri prodotti destinati alle esportazioni, ma anche in questo caso la decisione finale dipenderà da fattori non solo economici, bensì, in definitiva, dagli sviluppi nell’immediato futuro della rivalità tra Washington e Pechino.