di Fabrizio Casari

“Vogliamo che il Brasile diventi più giusto e dichiariamo che i poveri saranno la priorità del nostro governo”. Sono state le prime parole a caldo di Ignacio Lula da Silva, detto Lula, a pochi minuti dalla proclamazione della vittoria, pronunciate con addosso una maglietta che recitava la scritta: “La vittoria è del Brasile”. L’Avenida paulista, immediatamente riempitasi di militanti e simpatizzanti dell’ex operaio siderurgico, è stata così, per la seconda volta dal 2002, il teatro del trionfo del fondatore del Pt. Cinquantotto milioni di voti, dodici in più rispetto al primo turno, hanno assegnato al Presidente brasiliano una vittoria schiacciante, in barba alle previsioni che ritenevano ancora incerto il risultato finale. Incertezze che, tuttavia, erano solo patrimonio esclusivo di commentatori e politologi. Nella realtà, il 61 per cento del popolo brasiliano ha scelto di scommettere ancora su Lula, eletto ancora Presidente del Brasile con il 20 per cento di scarto sul suo avversari e in ascesa in tutti gli Stati del Paese rispetto al primo turno. Lula governerà quindi il gigante carioca fino al 31 dicembre del 2010. Il Brasile conferma la sua voglia di voltare pagina e sceglie di consolidare ulteriormente la sua democrazia. E non solo. In un paese sterminato, dopo solo un’ora dalla chiusura dei seggi, i risultati erano pressoché definitivi; una lezione di tecnologia impartita al mondo intero.

di Camilla Modica

Durante la sua campagna elettorale per il rinnovo della Knesset, Avigdor Lieberman aveva puntato su una proposta a dir poco singolare: privare della cittadinanza israeliana gli arabi di origine palestinese residenti in Israele, trasferendoli forzatamente sotto la sovranità dell’Autorità palestinese (Ap). Poi, con questa particolare “merce” sul tavolo, il governo avrebbe trattato con l’Ap il passaggio di alcuni territori. L’idea, sbandierata dal leader dell’Israel Beitenu (la Nostra Casa è Israele), ha fruttato alle elezioni dello scorso marzo un inatteso successo: 11 seggi sui 120 totali del Parlamento. Oggi, con una leadership israeliana in piena crisi, il primo ministro Ehud Olmert vede questi undici seggi come una boccata d’aria fresca, perfetti per rafforzare una maggioranza che, altrimenti, ne conterebbe in totale 67, con un vantaggio di soli sette seggi sull’opposizione, guidata dal Likud di Netanyahu. Da qui la decisione di avviare un rimpasto di governo, offrendo all’Israel Beitenu un posto all’interno della maggioranza, accanto a Kadima e al partito laburista. Lieberman dovrebbe diventare vice premier e ministro di un nuovo dicastero - quello per gli Affari strategici - creato su misura per lui (precedentemente queste competenze riguardavano il ministro della Difesa e il premier).

di Michael Schwartz*

Recentemente il New York Times ha suggerito che che l’esercito americano ed i marine fossero prossimi a cambiare l’approccio concettuale alla guerra in Iraq. Le due istituzioni, riportava Michael R. Gordon, “ stanno terminando un lavoro su una nuova dottrina per la contro-insorgenza” che dovrebbe, secondo il tenente generale in pensione General Jack Keane, "cambiare l’intera cultura (dei militari) mentre transita al warfare irregolare”. Questi momenti strategici nei quali si grida “Eureka!” sono stati abbastanza comuni da quando l’amministrazione Bush invase l’Iraq nel marzo 2003, e questo - la copertura del quale è morta in meno di una settimana- sarà probabilmente buttato nel cestino della spazzatura della storia insieme alle altre volte nelle quali si è creduto che l’approccio tattico e strategico alla guerra dovesse cambiare. Tra questi vanno inclusi: l’assalto a Falluja nel 2004, diverse elezioni, lo “standing up” dell’esercito iracheno e il vallo, brevemente apparso sui media, che gli iracheni stavano pianificando di scavare attorno alla loro vasta capitale, Baghdad.

di Fabrizio Casari

A meno di una settimana dalle elezioni presidenziali in Nicaragua, che potrebbero riportare al potere l'ex presidente sandinista, Daniel Ortega, il clima politico si è ulteriormente arroventato. Gli Stati Uniti, in concorso con la destra e con il presidente uscente Enrique Bolanos, danno fondo a tutte le risorse – lecite ed illecite – per impedire la vittoria dell’alleanza “Nicaragua trionfa” guidata, appunto, dal Comandante Daniel Ortega. Oltre all’ingerenza continua dell’ambasciatore Usa a Managua, Paul Trivelli, lo sbarco di personaggi della destra statunitense nella capitale è stato pressoché costante. Ultimo della lista l’ex tenente colonnello dei marines Oliver North, coordinatore per conto dell’Amministrazione Usa guidata da Ronald Reagan della guerra sporca dei Contras, da cui nacque l’operazione della compravendita di armi con l’Iran che, insieme al traffico di crack negli Usa, era destinata proprio a finanziare l’aggressione terrorista al Nicaragua sandinista degli anni ‘80. Lo scandalo denominato ”Irangate”, trovò proprio in Oliver North il capro espiatorio.

di Carlo Benedetti

Filoccidentale e con molte venature monarchiche, punta di diamante della Nato, scalpitante in attesa di entrare nell’Unione Europea, diffidente nei confronti della Russia di Putin: è questa, in sintesi, la Bulgaria del Presidente Georgij Parvanov, leader socialista che ha già vinto, con il 64% dei voti, il primo turno delle elezioni presidenziali e che ora dovrà affrontare la fase finale delle consultazioni. Tutto questo perché l´affluenza alle urne è stata nettamente inferiore al 50 per cento dei votanti (42,1%). E così domenica oggi si torna al voto. Sulla scena - con Parvanov certo di farcela - ricompare il suo principale rivale: Volen Siderov, l’uomo del partito nazionalista che ha basato la piattaforma elettorale sull’ostilità nei confronti delle minoranze turche e rom (ottenendo nella prima tornata il 21,5% dei voti) e l’ex presidente della Corte Costituzionale, Nedelcho Berenov, che non molla pur se confinato a un 9,7% che lo taglia fuori del grande gioco presidenziale.


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