di Sara Nicoli

L'altro sindacalista l'hanno eletto al Senato un paio d'ore dopo, ma il leader comunista è stato il primo a rivendicare, con una frase semplice ma di grande forza, le radici della propria storia politica e personale, le stesse che dovrebbero appartenere all'intera Nazione. "Dedico l'elezione alla presidenza della Camera alle operaie e agli operai". Fausto Bertinotti, 65 anni, milanese di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia, comunista chic amico degli ultimi e dei combattenti, comunista alla ricerca di Dio, ma soprattutto della conoscenza degli uomini, nel giorno della sua elezione a Presidente della Camera ha voluto subito sgombrare il campo da equivoco antico, da quell'interpretazione del ruolo di terza carica dello Stato come di un arbitro a cui è richiesto di riporre la propria passione politica in un cassetto. "Sono un uomo di parte - ha detto con la voce ferma ma con mano tremante _ che perciò non teme il conflitto, ma vorrei che nel nostro futuro politico fosse bandito il rischio di lasciar scivolare la politica nella coppia amico-nemico. A partire dalla nostra assemblea dobbiamo dimostrare di saper parlare il linguaggio della convivenza come valorizzazione delle differenze, di tutte le differenze".

di Marco Dugini

"Guardando ai fatti, sono stato eletto dalla maggioranza politica che ha vinto le elezioni, ma sarò il presidente di tutto il Senato, con grande attenzione e rispetto per le prerogative della maggioranza e dell'opposizione nel rispetto della democrazia popolare."
Alla terza votazione Franco Marini, proveniente dal partito della Margherita e candidato per il centro-sinistra alla Presidenza del Senato, è passato con 165 voti, contro i 156 di Giulio Andreotti.
Una vittoria lusinghiera, se si considera il risicato vantaggio che ha al Senato la coalizione che lo ha espresso, vale a dire due soli senatori in più, rispetto al centro-destra.
Dato che le forze dell'Unione ammontano ad un totale di 162 senatori, l'ex-sindacalista della Cisl ha evidentemente guadagnato tre voti in più alla sua causa, in quest'ultima e definitiva votazione, e su questo si potrebbero anche fare delle parziali congetture (Cossiga, Tabacci, e Follini?).

di Giovanna Pavani

Il caso Meocci, come previsto, è arrivato alla sua logica e inevitabile conclusione: l'ex consigliere dell'Authority tlc in quota Udc, arrivato sulla poltrona più alta di viale Mazzini per aver contribuito alla stesura della legge Gasparri, e' incompatibile con la carica di direttore generale della Rai e deve quindi lasciare, immediatamente a parere dell'Autorità, l'incarico che attualmente ricopre a viale Mazzini.
Ci sono volute tre riunioni, ma alla fine l'Autorità per le Comunicazioni si é espressa con grande severità su una questione che, già al momento della nomina di Mocci, era apparsa palesemente in contrasto con la legge: tuttavia si è voluta trascinare fino ad oggi nell'attesa, probabilmente, di conoscere quale sarebbe stato il nuovo assetto politico del Paese. Anche l'Authority, a quanto sembra, tiene famiglia. Il neo incompatibile dg della Rai si é visto anche comminare una multa di 373 mila euro, mentre la Rai, per averlo nominato dg, sarà chiamata a pagare 14,3 milioni di euro, una cifra pari all'attivo di bilancio aziendale che proprio ieri pomeriggio il cda Rai ha approvato. Nonostante gli appigli giuridici siano piuttosto labili, c'è da ritenere che la Rai decida di ricorrere al Tar del Lazio contro la delibera, se non altro nella speranza di veder ridotta la sanzione.

di Lidia Campagnano

Il fascismo è un'invenzione italiana, e il 25 aprile di ogni anno è un'occasione buona per sputarne un altro pezzetto. Perché se è vero che oggi si festeggia la liberazione dell'Italia dal fascismo bisogna tuttavia badare a raccogliere e a buttare via tutte le scorie, le radichette tenaci, i semi che il fascismo sradicato ha lasciato in giro. Sono lavori stagionali, buoni per ogni giardino compreso il giardino politico, sociale e culturale.
L'ultimo sapore di fascismo in ordine di tempo lo abbiamo sentito in occasione delle elezioni, come un veleno che serpeggiava a proposito del senso stesso del votare, nell'arroganza con cui la coalizione battuta dichiarava di non essere battuta. E forse il più pienamente fascista dei suoi esponenti non va ricercato tra gli ex fascisti, tra i rumorosi, o nel personaggio più noto e platealmente imitativo di questi ultimi anni, ma nel più moderato, insignificante, normale e tradizionale dei suoi ministri, nei suoi silenzi, nel suo tramare e sparire, dichiarare e smentire a seconda degli scatti di nervi del suo capo. No, non diremo il nome perché indovinarlo sarà un utile esercizio di antifascismo profondo, di riconoscimento del "tipo" del fascista italiano, sempre un po' vigliacco, appannato nella fisionomia, caratterizzato da un'identità servile, un pochino tardo ma pronto a modificare, se è il caso, il colore della giacchetta.

di Domenico Melidoro

Che governare un Paese complesso e politicamente diviso come l'Italia fosse tutt'altro che un'impresa agevole era una cosa di cui Prodi non dubitava e, le vicende degli ultimi giorni, rafforzano le sue certezza in proposito. Non è stato facile far comprendere ai propri avversari (Berlusconi escluso, che ancora non si rassegna alla sconfitta) che avevano perso il confronto elettorale. Adesso è arrivato il momento della composizione dell'esecutivo e della scelta dei Presidenti delle due camere, ed è stata sufficiente la contesa tra D'Alema e Bertinotti per la presidenza della Camera dei deputati per far vivere momenti di tensione all'interno della maggioranza di Centro-Sinistra che si appresta a governare il Paese. La situazione si è apparentemente tranquillizzata quando il Presidente dei DS ha ritirato la sua candidatura creando di fatto le condizioni perché il leader di Rifondazione comunista possa assumere in breve tempo quel ruolo istituzionale che nei decenni scorsi fu ricoperto, tra gli altri, da figure storiche della Sinistra Italiana come Pietro Ingrao e Nilde Iotti. La rinuncia di D'Alema ha evitato che l'Unione si trascinasse in un vortice di polemiche che l'avrebbe ulteriormente indebolita e lacerata, ma soprattutto ha sottratto Prodi (al giudizio del quale Piero Fassino si era appellato per porre fine alla contesa) all'imbarazzante compito di esprimere la sua preferenza per uno dei due contendenti.


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