di Giovanna Pavani

Certo, è difficile morire, ammettere che la propria esistenza politica non ha più senso. E, dunque, decidere di sciogliersi, di dirsi addio. Sarebbe la cosa migliore per la Lega, dopo che un plebiscito referendario ha bocciato senza appello l'unico obiettivo politico che teneva insieme il drappello montanaro "celodurista": il federalismo, poi mutuato in secessione, poi involuto in devolution. Bersaglio mancato. A quasi vent'anni dall'atterraggio in Parlamento, la spinta della Lega appare oggi solo inerziale, il suo radicamento sul territorio sta svaporando, persino nelle roccaforti. L'Umberto è un uomo malato, cui le circostanze e gli affetti dovrebbero consigliare di mollare la presa e di riflettere sul fatto che i partiti politici non sono per sempre. Specie se nascono con pretese, antistoriche e anacronistiche, che solo in un Paese come il nostro riescono ad avere, per qualche tempo, dignità politica. Invece no, Bossi non molla. Anzi, rilancia. Adesso rivuole il "lombardo Veneto".

di Domenico Melidoro

Nei primi giorni di giugno, scrivendo a proposito dell'atteggiamento più scomposto del solito esibito da Silvio Berlusconi negli ultimi mesi, Claudio Rinaldi affermava che l'ex Presidente del Consiglio "fa il matto. Urla, strepita, maledice. Straparla di democrazia in pericolo. Chiama al salvataggio della Patria. Dà in escandescenze" (L'Espresso, 8 giugno 2006). Berlusconi è convinto che lo scontro frontale paghi, e le ripetute accuse di brogli elettorali, la continua insistenza sulla necessità di ricontare i voti delle ultime elezioni politiche, i numerosi (e mal riusciti) tentativi di dare spallate a Prodi e al suo Governo, hanno lasciato finora poco spazio al sereno svolgimento della normale dialettica tra maggioranza e opposizione. Nell'articolo citato, Rinaldi invitava l'Unione a mettere in discussione il ruolo di capo dell'opposizione del furibondo Berlusconi, indicava come "doveroso" il dialogo con Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, e auspicava comportamenti oculati da parte dell'Esecutivo, visto che "mezza Italia non si fida delle ricette tradizionali della Sinistra".

di Sara Nicoli

La Rai ha un nuovo direttore generale. Si chiama Claudio Cappon e su quella poltrona si è già seduto una volta, quando sulla tv pubblica imperava Roberto Zaccaria e non fu, propriamente, una stagione che si può definire come indimenticabile. Però Cappon aveva fatto la sua figura, soprattutto aveva garantito il centro destra e il neo nominato ministro Gasparri sulla spinosa faccenda della vendita agli inglesi degli impianti di Raiway, voluta da Zaccaria ma osteggiata da Gasparri: non se ne fece nulla, e quindi Cappon si guadagnò sul campo la fama di "uomo di garanzia" di Palazzo Grazioli. Ma il centro sinistra non gliene volle più di tanto. Così l'altro giorno, quando si è trattato di scegliere un uomo che sapesse tenere saldo il timone della Rai in una stagione di marosi e di fibrillazioni politiche e morali, lo sguardo della politica si è rivolto verso di lui, in modo assolutamente bipartisan. A parte Prodi.

di Cinzia Frassi

Quella "modernità" che si oppone a chi si proclama contrario alla controriforma voluta dal centro destra è, ahimè, tutta italiana. Essa traveste in vario modo, ma sempre maliziosamente, tutte le modifiche che entreranno in vigore referendum permettendo. Proprio sul miracolo della modernità insistono particolarmente i riformatori di Lorenzago, che in qualche modo si sono fatti l'idea che i diritti possano conoscere un'interpretazione conservatrice, nel senso di antiquata e non efficace e una, appunto, moderna ed efficiente. In realtà è sul contenuto dei diritti, sulla loro sostanza che si vuole intervenire, dando l'illusione di concedere spazi alle autonomie regionali e ai bisogni dei cittadini. Con la medesima "modernità" si traveste il Primo ministro di quelle competenze ritentute necessarie per consentirgli di governare il paese; ma sotto quel vestito egli diventa in realtà dominus della vita politica, sostanzialmente inamovibile per la sua forza di ricatto alla Camera dei deputati che può sciogliere e artefice unico della politica del governo, che nei fatti passa interamente nelle sue mani.

di Giovanna Pavani

E' inutile, è una tentazione troppo grande, è il vero sigillo del potere a cui nessuno, nonostante le belle parole e le dichiarazioni d'intenti, riesce a rinunciare. La Rai sta per essere lottizzata ancora, in modo meno violento e arrogante di ieri ma non meno incisivo: addirittura "bipartisan". Mentre grandinano dichiarazioni indignate di autorevoli rappresentanti del centrosinistra che gridano sonori "basta!" al manuale Cencelli, alle spartizioni dei palinsesti, ai giornalisti e direttori che portano la casacca dell'uno o dell'altro, in aggiunta alle speranze che "la Rai torni al servizio di chi paga il canone, che diamine!", nei corridoi delle segreterie dei partiti si ordiscono le solite trame di sempre. Stavolta sono al lavoro anche le diplomazie per cannibalizzare con il bilancino ogni singola poltrona, tanto a destra e tanto a sinistra, e che non se ne parli più per i prossimi cinque anni.


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