Fino a qualche giorno fa la maggior parte degli italiani non aveva mai sentito parlare di Licia Ronzulli. Ora però scopriamo che questa senatrice forzista ha un ruolo cruciale nella commedia grottesca che si è sostituita alle trattative per la formazione del governo. È stata lei l’innesco della bomba che ha spaccato il centrodestra ancor prima che questo si trasformasse in maggioranza. E probabilmente sarà a causa sua che Berlusconi manderà in rovina quel poco che resta di Forza Italia. Ma andiamo con ordine.

L’ex Cavaliere pretendeva un posto per Ronzulli nel nuovo governo: qualsiasi ministero andava bene, purché una poltrona ci fosse. Meloni però ha rifiutato, mandando su tutte le furie l’ex Premier, che rivendica il diritto di decidere i nomi dei ministri forzisti. Così Berlusconi ha provato a forzare la mano di Meloni: “Se non dai un ministero a Ronzulli, non voto Larussa presidente del Senato”. Poi però il postfascista gutturale è stato eletto comunque grazie a una manciata di voti arrivati dall’opposizione (un giochetto che puzza di Matteo Renzi da chilometri di distanza) e l’ex Cavaliere è andato definitivamente in tilt. Si è perfino fatto beccare con un foglio in mano su cui aveva annotato cinque aggettivi per connotare l’atteggiamento di Meloni: “Supponente, prepotente, arrogante, offensivo, ridicolo”. Il sesto attributo lo ha aggiunto venerdì la diretta interessata: “Si è dimenticato di scrivere non ricattabile”. Gioco, partita, incontro.

In termini politici, le conseguenze più rilevanti di questo teatrino non riguardano il nuovo governo – che prima o poi vedrà la luce e otterrà senza problemi la fiducia in Parlamento – ma la parabola discendente di Forza Italia e del suo fondatore. Per Berlusconi il ritorno in Senato doveva essere una festa, ma è stato un disastro. Dalla pantomima della settimana scorsa a Palazzo Madama è uscito umiliato come un dilettante. E adesso, per di più, non ha margini per vendicarsi. Al contrario: deve giocare in difesa, impegnandosi per evitare scissioni e diaspore.

Non sarà semplice, perché Forza Italia è già spaccata in due. Da una parte l’ala Ronzulli, che chiede la linea dura con Meloni, dall’altra la corrente guidata da Antonio Tajani, che (mentre “studia da Alfano”, come dicono le lingue più velenose) vuole la pace a tutti i costi, perché la premier in pectore gli ha promesso il ministero degli Esteri. Questa contrapposizione interna rischia già da sola di tradursi in una scissione, o perlomeno in una fuga di alcuni parlamentari verso altri lidi. E la miccia potrebbe essere la prossima mossa di Berlusconi, che per la prima volta nella sua carriera si trova davanti a un bivio fra il male e il peggio: se abbassa la testa, Forza Italia si avvia a consumare i suoi ultimi anni come partito ancillare di Fratelli d’Italia; se la tiene alta, forse il partito esplode.

In questa situazione di stallo, Berlusconi attende una proposta da Meloni: potrebbe rinunciare al ministero per Ronzulli e accettare perfino il no ricevuto alla richiesta di avere la Giustizia, ma vuole come compensazione lo Sviluppo economico. Un’altra richiesta irricevibile per Meloni, che su quella poltrona vuole mettere l’amico di una vita, Guido Crosetto. La premier in pectore non va oltre l’offerta di quattro ministeri per Forza Italia, fra cui i più importanti rimangono gli Esteri per Tajani e la Pubblica amministrazione per Maria Elisabetta Casellati. Prendere o lasciare. E Berlusconi – che per tutta l’estate si è illuso di poter manovrare Meloni come fossimo ancora nel 2008 – l’unica alternativa è prendere.

Sono passate più di due settimane dalle elezioni politiche, ma del governo che verrà non si sa ancora niente. Nel frattempo, senza che a nessuno venga nemmeno in mente di alzare un sopracciglio, va in scena l’ennesima sgrammaticatura istituzionale: il governo Draghi rimane in carica, ma non si limita affatto agli affari correnti, come la Costituzione imporrebbe a un esecutivo in uscita. Tutt’altro. L’ex banchiere centrale continua a parlare in ogni sede a nome dell’Italia, partecipa ai vertici internazionali, prende decisioni attive tanto in politica interna quanto sul versante estero. E tutto questo, naturalmente, grazie al pieno sostegno del Presidente della Repubblica, che ha allestito questa transizione anomala per evitare vuoti di potere in una fase così delicata sotto vari profili: ci sono la legge di bilancio da scrivere, il Pnrr da rispettare e la partita sul gas da giocare a Bruxelles per contrastare la concorrenza sleale dei tedeschi.

Brava, tenace, popolare, aggressiva, astuta; le lodi per Giorgia Meloni, e per la sua irresistibile ascesa, si adagiano sul 26% di consensi raggiunto nella ultima tornata elettorale. Sono passati pochi giorni, eppure la sensazione che una frattura insanabile tra distopia e realtà sia molto più che uno spauracchio, si fa terribilmente strada.

La realtà distopica di una formazione post-fascista alla guida del paese, può trasformarsi in una realtà dispotica. Quanto di post e quanto di fascista ci sia nell’agenda di governo della coalizione che ha sbaragliato la concorrenza, avremo modo di sperimentarlo a breve. Di sicuro, l’affermazione di un partito che in così pochi anni dalla sua fondazione ha bruciato le tappe (e speriamo si limiti a quelle…) e che, soprattutto, conserva nel suo simbolo la fiamma di Predappio, si rivolge anche al 74% che non l’ha scelto.

Meloni vince e sarà la prima presidente del Consiglio donna nella storia della Repubblica. Salvini e Letta sono i grandi sconfitti e dovranno pagarne le conseguenze all’interno dei rispettivi partiti. Conte tiene in piedi il Movimento 5 Stelle molto meglio di quanto molti ipotizzavano fino a qualche mese fa. Berlusconi resiste, con Forza Italia che tallona la Lega ed è comunque decisiva per la maggioranza del centrodestra. Il Terzo Polo, infine, conferma di avere un ego più grande del proprio elettorato e, a dispetto del nome, arriva quarto: anzi, addirittura sesto se invece delle alleanze contiamo i partiti.

Questa la fotografia delle prime elezioni autunnali dal 1919 (l’ultima volta c’era il Re e il suffragio universale maschile era conquista recente), caratterizzate in partenza da due novità legate alla riforma costituzionale dell’anno scorso: il numero di seggi parlamentari ridotto di un terzo e l’estensione del voto al Senato a tutti i maggiorenni (prima bisognava avere almeno 25 anni).

A livello elettorale, gli elementi su cui riflettere sono due.

Il primo è la scarsa partecipazione dell’elettorato, con punte di astensionismo drammatiche al Sud. L’affluenza non è arrivata al 64%, rimanendo quasi 10 punti sotto il dato del 2018, che già era il record negativo dalla nascita della Repubblica. Il secondo è la volatilità degli elettori italiani: i pochi che ancora si recano alle urne cambiano cavallo da una legislatura all’altra con una disinvoltura sconosciuta nei decenni precedenti. E così Fratelli d’Italia passa dal 4,3% del 2018 al 26,4%, la Lega dal 17,4 al 9, Forza Italia dal 14 all’8, il Movimento 5 Stelle dal 33 al 15. L’unico stabile è il Pd, che nella sua mediocrità addirittura sale leggermente, dal 18 al 19%.

In termini politici, invece, non c’è dubbio che l’unica vincitrice di queste elezioni sia Meloni. Questo non significa però che avrà vita facile: eredita un Paese che viaggia verso una congiuntura economica negativa - fra il quarto trimestre 2022 e il primo del 2023 è probabile un ritorno in recessione tecnica - e dovrà gestire un inverno difficilissimo, in cui il razionamento del gas è una prospettiva più che concreta. Il tutto mentre l’Europa pretenderà il rispetto del Pnrr minacciando di chiudere i rubinetti degli aiuti europei (la famosa “pacchia” rischia di finire per noi, non per Bruxelles). Tradotto, significa che lo spazio di bilancio per mantenere le promesse elettorali non esiste, a meno di rinunciare ai 150 miliardi che ancora devono piovere sul nostro Paese dal Nex Generation Eu. E in questo scenario così complesso, c’è da scommettere che gli alleati di Meloni faranno poco per aiutarla. Anzi, potrebbero crearle più di qualche problema nei rapporti internazionali, a cominciare da quelli con gli Stati Uniti, che già faticano a perdonare il passato trumpista della nuova premier italiana.

Proprio per evitare sbandate filorusse, Meloni trama da tempo con i governatori leghisti del nord e con Giancarlo Giorgetti. L’obiettivo è orchestrare la defenestrazione di Salvini, che in effetti, visto il disastro elettorale, ha dato ai suoi avversari tutti i motivi per cacciarlo. È probabile però che questo processo non si risolverà in breve. Nel frattempo, essendo imputato nel processo Open Arms, il leader leghista può scordarsi di coronare il sogno di un ritorno al Viminale.

Se le dinamiche nel Carroccio sono ancora incerte, non altrettanto si può dire di quelle interne al Pd, dove un ribaltone appare ormai inevitabile. Enrico Letta ha confermato di essere il peggior segretario nella storia del partito (che pure di debacle ne aveva già conosciute più d’una).

Le ha veramente sbagliate tutte: non ha nemmeno provato a cambiare una leggere elettorale evidentemente mortifera per il suo schieramento; ha rinnegato l’unica alleanza che lo avrebbe reso competitivo, quella con il Movimento 5 Stelle, nel nome della cosiddetta “Agenda Draghi”, che nessuno nel Paese sa bene cosa sia e di cui a nessuno importa nulla; infine, ciliegina sulla torta, si è fatto sfilare voti perfino da Calenda, uno che è riuscito ad arrivare terzo nel suo collegio uninominale al centro di Roma (forse era a questo che si riferiva il nome “Terzo polo”). Insomma, Letta non solo non ha fatto nulla per vincere: ha fatto di tutto per perdere. Ora dovrebbe trarne le conseguenze e tornare a SciencePo per insegnare ai francesi tutti i modi più sbagliati di fare politica.   

Una caratteristica tipica dell’atlantismo di ferro è sempre stata il doppiopesismo: se a compiere una determinata azione sono gli Stati Uniti o i loro sherpa europei non c’è problema, tutto è legittimo e democratico; se la stessa identica azione viene compiuta da altri – leggi: rivali politici e/o economici di Washington – allora diventa un atto spregevole, esecrabile e illiberale. Di solito questo approccio presuppone una certa dose di malafede, ma da quando è iniziata la guerra in Ucraina è stato talmente esasperato da suggerire una qualche forma di dissociazione. Ormai gli atlantisti fondamentalisti non sembrano rendersi conto di ricadere nel peccato contro cui predicano e per questo si lasciano andare a toni sempre più sguaiati, ineleganti, perfino volgari.


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