Quella di sabato scorso a Roma è stata la più partecipata manifestazione contro la guerra che si è svolta in Europa in questi mesi. Enorme, ha mostrato la sinistra che c’è, non l’unica, ma la sua parte maggioritaria. Ha esibito il suo corpo marciante benché malato. Forse muta ma non silente, è ancora ostaggio della rappresentazione parlamentare di ciò che se la intesta, ma certo distinta e distante dai suoi becchini di via del Nazareno. In cerca di un’aggregazione politica, di un ragionamento complessivo e alto che ridisegni i confini della sinistra classicamente intesa e non delle varianti colorate ed imbecilli che hanno consegnato le migliori idee ai peggiori gruppi dirigenti, ha per ora nella CGIL e nell’ANPI i due unici aggregati organizzativi degni di rispetto.

Archiviate le pose littorie da campagna elettorale, Giorgia Meloni fa di tutto per piacere alla Commissione europea. A parte i soliti favori agli evasori e alla criminalità (leggi: tetto al contante e condoni), la manovra che il nuovo governo ha messo in cantiere è draghiana fino al midollo e non conterrà gli sbandamenti sui conti pubblici che molti temevano. Questo però non basterà a salvare la premier dallo scherzetto che l’Ue sta preparando al nostro Paese.

È noto che Mussolini fu eletto deputato il 15 maggio 1921 nella lista del Blocco Nazionale, un cartello elettorale di destra ideato da Giolitti e formato da liberali e nazionalisti e nel quale erano stati reclutati pure i fascisti. Una volta eletto Mussolini si collocò alla destra estrema dell’emiciclo e da quella posizione assicurò, sia pure in forme diverse e fasi alterne, l’appoggio esterno del gruppo parlamentare fascista ai governi che si susseguirono fino alla vigilia della Marcia su Roma. Il 23 luglio 1921, pur annunciando il voto contrario al Ministero Bonomi, non escluse un appoggio condizionato.

L’esordio politico del governo della Meloni lo si è avuto nel suo discorso d’insediamento al Senato. Tralasciando gli insulti all’opposizione - che ricordano l’eleganza della signora - i contenuti programmatici hanno immediatamente reso chiaro i tratti salienti del governo di destra appena insediato.

Il nuovo governo è la continuazione di quello precedente con altri mezzi e non c’è da stupirsi: il liberalismo è superato da crisi e guerre che tirano fuori l’essenza vera, repressiva e reazionaria, del capitalismo in crisi. E se definire quello della Meloni un governo fascista risulterebbe una esagerazione terminologica applicata ad un errore di lettura storica, altrettanto errato sarebbe definirlo democratico, basta coglierne i tratti. E’ stucchevole il dibattito sulla Meloni fascista o no. Certo che lo è, ed è perfettamente evidente che negli atti conferma quello che a voce smentisce.

Dopo un mese di teatrino, il Governo Meloni ha visto la luce e ora gli tocca fare i conti con una serie di grattacapi che nulla hanno a che vedere con la campagna elettorale. I problemi sono tanti: l’inflazione, a cominciare dal caro-energia; la legge di bilancio, da scrivere a tempi di record per evitare l’esercizio provvisorio; la flessibilità in uscita sulle pensioni, da inventare per evitare che le uniche regole in vigore rimangano quelle della legge Fornero; il PNRR da gestire (e, forse, da ridiscutere) senza compromettere l’afflusso di miliardi stanziati da Bruxelles per il nostro Paese e in parte già promessi ad amministrazioni locali e appaltatori vari.


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