di Emanuela Pessina

La notizia è ufficiale: dopo 75 anni di glorioso matrimonio, la Emi Ltd è costretta a separarsi dagli studi discografici di Abbey Road per raccogliere soldi. I debiti sono altissimi e la società non riesce a far fronte alla situazione. Certo, di questi tempi la notizia potrebbe non sorprendere più di tanto: la recente crisi economica ha abituato a parole come insolvenza, bancarotta e cassa integrazione e ormai nulla sconvolge più, anche quando si parla di case discografiche multinazionali con un giro d'affari immenso come la EMI. Ma il significato artistico di Abbey Road è grandissimo e la sua vendita rischia di acquistare un significato quasi simbolico. Per i grandi appassionati di musica, quasi una cesura con il passato.

Gli Abbey Road Studios sono considerati all'unanimità gli studi discografici più famosi al mondo. Acquistati dalla EMI nel 1929 queste stanze hanno visto la registrazione del primo pezzo rock & roll della storia della musica inglese, "Move it" di Cliff Richards, risalente al 1958; da non dimenticare, tuttavia, i numerosi artisti che ci sono passati ancor prima della nascita del rock inglese, personaggi del calibro di Fred Astaire e Glenn Miller. Ma la consacrazione vera e propria degli studios targati NW8 - dal codice postale dell'aristocratico quartiere londinese di St John's Wood, in cui si trovano - arriva nel 1962, quando i Beatles vi registrano il loro primo successo, Love me do. In queste stanze, i Fab Four hanno registrato il 90% dei loro LP: fino alla pubblicazione dell'LP Abbey Road, nel 1969, che ha strappato la Abbey Road alla storia per consegnarla alla leggenda.

Nel 1969, il fotografo Iain Mcmillian ha ritratto i Beatles sulle strisce pedonali che si trovano appena fuori lo studio. Una foto quasi per caso: tutti in fila, i ragazzi di Liverpool  attraversano la strada sulle striscie pedonali con fare deciso, John Lennon in testa con la sua capigliatura leonina, Paul Mc Cartney a piedi nudi in giacca e cravatta, gli altri vestiti secondo i canoni degli anni 60. La foto è diventata la copertina dell'omonimo album Abbey Road, trasformando la via londinese in una meta di pellegrinaggio per i milioni di appassionati della musica rock.

Ma i tempi sono cambiati e la gloria della major EMI non è più quella dei tempi della leggenda di Abbey Road. Tre anni fa, la EMI Ltd. è stata comprata dal gruppo di private equity Terra Firma Capital Partners Ltd. per 4,8 miliardi di euro. La somma pagata, tuttavia, non è risultata adeguata alle aspettative, tanto che ora Terra Firma ha citato in causa la Citigroup con l'accusa di aver gonfiato il prezzo di vendita. A dicembre, la Emi Group accusava una perdita di 2,8 miliardi di sterline e Terra Firma sta ora tentando l'impossibile per salvarla: dopo aver cercato di recuperare nuovi investitori, ora è il momento deilla vendita dei cimeli di famiglia.

Che le maggiori etichette discografiche stiano vivendo oggi una situazione di profonda crisi e trasformazione non è un mistero: per le “grandi” della musica, il problema è la capillare evoluzione del web 2.0. Se dagli anni '40 agli '80 le major costituivano l'unica via al successo per gli artisti, oggigiorno chiunque ha la possibilitá di diventare famoso grazie alla politica di youtube &co. Il ruolo delle etichette è diventato quasi superfluo e la “dittatura” degli anni passati è finita per lasciare spazio all'era del 'broadcast yourself': il digitale (con la masterizzazione selvaggia dei cd) e la facilità di accesso a internet hanno sconvolto l'assetto elitario della musica, favorendo il proporsi del singolo artista e delle etichette indipendenti.

Certo, sentire che lo studio di Abbey Road, una pietra miliare nella storia del rock che ha avuto l'onore di ospitare, dopo i Beatles, musicisti del calibro di Pink Floyd, Queen, Simple Mind, Sting, Muse, U2 e  Radiohead, può lasciare un sapore amaro in bocca. Soprattutto in considerazione della melancolica foto che sta sulla copertina di Abbey Road, che fa pensare a magici anni lontani ormai scomparsi. Ma i tempi cambiano e, con i tempi, le esigenze. Anche l'impero romano, con le sue meraviglie, sarebbe oggi totalmente fuoriluogo. Che ci piaccia o meno, gli imperatori hanno dovuto cedere il passo alla meno spettacolare democrazia.

 

di Mario Braconi

Quando, il 24 novembre del 1994, Charlene Hsu Chi-Ying morì per una particolare forma di anoressia in una strada di Hong Kong, i giornali locali identificarono il disturbo alimentare che l'aveva uccisa con le forme patologiche normalmente diagnosticate nei Paesi Occidentali. I cronisti consultarono un manuale di sintomatologia psichiatrica americano e, una volta trovata una sintomatologia simile a quella di cui Charlene era rimasta vittima, gliela attribuirono.

Questa sciatteria ebbe due conseguenze indirette: inanzitutto privò di ogni utilità scientifica il lavoro fino ad allora svolto dal ricercatore Sing Lee della Chinese University di Hong Kong, il quale stava indagando su una forma di anoressia nervosa endemica caratterizzata dall’assenza nei pazienti della fobia per il grasso (tipica invece delle forme diffuse in Occidente). Inoltre, l'introduzione ad Hong Kong del concetto di anoressia “all'occidentale” fece in modo che la "nuova" malattia si diffondesse in modo incontrollato; Lee racconta infatti che nel 2007 il 90% degli anoressici in cura presso di lui lamentavano della fobia per il grasso.

Il caso dell’anoressia cinese viene citato dal Ethan Watters, giornalista freelance (New York Times e Wired USA) e scrittore nel suo ultimo libro "Crazy like Us" ("Pazzi come noi") quale esempio di una globalizzazione che ormai non si limita al solo commercio dei beni e servizi, ma finisce per avere implicazioni molto più gravi e impreviste. Uno specialista occidentale tenderà normalmente a ricondurre i sintomi che riscontra in un paziente alla casistica del DSM IV, il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, compilato da psicologi e psichiatri occidentali. La diffusa convinzione di essere i depositari della verità ultima, l'arroganza e il generico disprezzo per culture diverse, ha spinto gli occidentali ad esportare questa metodologia anche in paesi caratterizzati da culture totalmente diverse ed incompatibili con la nostra, con esiti imprevedibili.

Alla base di questa ennesima declinazione di egemonia culturale americana (poco nota ma non per questo meno pericolosa) sta la convinzione che "i disturbi mentali descritti nelle 844 pagine del manuale dedicate a quelli non sociali, siano malattie relativamente impermeabili alle differenze culturali tra paese e paese." Quello che gli psichiatri americani ed europei sembrano non comprendere è che tutte le malattie mentali, invece - incluse depressione, disturbi da stress post traumatico e perfino la schizofrenia - sono influenzate da credenze ed aspettative di tipo culturale". Ciò non significa che le sofferenze di questi malati non siano autentiche o che i pazienti costruiscano i loro sintomi al fine di riconoscersi in una determinata nicchia patologica. [...]. Ma piuttosto che “la malattia mentale [...] non può essere compresa senza capire anche le idee, le abitudini e le predisposizioni - le trappole culturali idiosincratiche - della mente che la ospita".

Del resto, spiega Watters in un breve saggio sul New York Times, la psichiatria occidentale ha fallito il suo obiettivo di convincere la gente a considerare la malattia mentale alla stregua di un qualsiasi disturbo di tipo fisico. Questa battaglia di civiltà finalizzata a risparmiare al paziente la vergogna e lo stigma sociale in passato associato alla sua condizione, come dimostrano quattro studi condotti in Paesi molto diversi (USA, Germania, Turchia, Russia, Mongolia), é stata persa. Già nel 1997, una ricerca di Sheila Mehta, dell'Università di Montgomery (Alabama), concluse che quando una persona dichiara pubblicamente di essere affetta da una malattia mentale, viene trattata dai "sani di mente" in modo mediamente più aggressivo quando afferma che tale disturbo è dovuto ad un problema congenito o ad una alterazione dell'equilibrio chimico del cervello, piuttosto che quando sostiene che la patologia è stata provocata da un elemento esogeno (ad esempio un trauma). Le persone oggetto dell'esperimento, infatti, sembravano convinte che un cervello reso infermo da cause naturali sia "danneggiato in modo assai più grave ed irreversibile dalle patologie con cause naturali che dagli eventi della vita".

I limiti dei protocolli di cura occidentali sono ben documentati dai risultati di uno studio realizzato dalla OMS negli anni Settanta e che si è concluso trenta anni più tardi: secondo lo studio, i malati di schizofrenia che vivevano in paesi diversi dagli USA o dall'Europa manifestavano una tendenza alle ricadute inferiore di due terzi rispetto agli altri. Per mettere alla prova questa scoperta, l'antropologa americana Juli McGruder ha passato un anno intero a studiare gli schizofrenici e le loro famiglie nel Madascar. In quel Paese la schizofrenia è vista come un effetto dell'influenza di certi spiriti maligni; gli usi locali prevedono che essi vengano affrontati e sconfitti non attaccandoli frontalmente a suon di esorcismi (come si farebbe in un contesto cristiano) quanto piuttosto tentando di ingraziarseli con piccoli atti di gentilezza verso la persona "posseduta".

D'altro canto, l'eventuale guarigione lascia marchi sociali meno indelebili di quanto avvenga in Occidente, semplicemente perché la malattia viene considerata come il brutto tiro di una divinità, cosa che "scagiona" completamente la vittima che lo ha subìto. Certo, spiega a McGruder, "queste credenze non hanno alcun effetto curativo sulla schizofrenia", ma in compenso hanno l’indiscutibile pregio di mantenere il malato all'interno della sua cerchia familiare senza emarginarlo, garantendo nel contempo una calma ed un senso di accettazione del male da noi del tutto sconosciute. Per gli Stati Uniti questa considerazione vale in modo particolare: in un un Paese in cui si professa una fede cieca nella capacità dell'individuo ad essere (o divenire) l'artefice ultimo del suo destino, una devastante malattia mentale non può che rappresentare un elemento di discontinuità irriconciliabile, uno scandalo.

La globalizzazione delle terapie psicologiche, insomma, rischia di diventare un grosso guaio per i "globalizzati": come nota Derek Summerfield dell'Institute of Psychiatry di Londra, il “discorso” sulla salute mentale occidentale contiene al suo interno elementi sostanziali della nostra cultura, inclusi una teoria della natura umana, una definizione di ciò che chiamiamo “persona”, un senso del tempo e della memoria ed una fonte di autorità morale. Niente di tutto ciò, però, è “universale." E in fondo, conclude Watters, non è detto che l'Occidente non stia spendendo miliardi di dollari per sconfiggere la  "malattia mentale" solo perché ha perso fiducia nei sistemi di fede che la contestualizzavano e le davano un "senso”. A prescindere da altre considerazioni morali e culturali, esportare un sistema di credenze basato sulla perdita di significato, non sembra la più brillante e produttiva delle idee.

 

di Alessandro Iacuelli

Di regola, certe operazioni di politica globale dovrebbero farle gli Stati, o le confederazioni e unioni di Stati. Ma, di fronte ad un colosso dell'economia come la Cina, gli stati occidentali chinano la testa, vuoi perché la Cina detiene il loro debito pubblico, vuoi per evitare un aggravarsi della crisi economica in cui versa attualmente il modello capitalista. Così, succede che di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani dei suoi cittadini, a prendere posizione contro Pechino non sia l'ONU, o gli USA, o l'UE, ma un'azienda privata. Anzi, un colosso dell'industria informatica moderna: Google.

La società di Mountain View sostiene di avere le prove di svariati tentativi di violazione del suo sistema Gmail e di analoghi gesti ai danni di attivisti di movimenti a difesa dei diritti umani. Tutti casi di tentativi che, secondo i dirigenti di Google, sono caratterizzati da una chiara e inequivocabile matrice cinese. Governativa. E la presa di posizione dell'azienda americana è talmente forte da essere, per la prima volta nel mondo, un ultimatum al governo cinese: Pechino non applicherà alcun filtro censorio, così come fatto finora, altrimenti Google lascerà del tutto il mercato cinese, nonostante sia uno di quelli in più rapida e significativa espansione.

"Abbiamo deciso", dichiarano sul blog ufficiale di Google, "che non abbiamo più intenzione di continuare a censurare i nostri risultati su Google.cn, per questo nelle prossime settimane incontreremo il Governo cinese per discutere le basi sulle quali potremo gestire un motore di ricerca senza filtri, nel rispetto delle leggi vigenti nel Paese. E siamo pienamente consapevoli che questo potrebbe portare alla chiusura di Google.cn e dei nostri uffici in Cina."

Immediate le reazioni, sia da parte degli utenti cinesi, sia a livello internazionale, a cominciare dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che ha avanzato richieste di spiegazioni direttamente al Governo Cinese. In Cina c'è chi trova incomprensibile l'ipotesi prospettata da Google, sottolineando che l'uscita dal Paese, di fatto, è una ulteriore e ancor più drastica forma di censura. E c'è anche chi non accetta le accuse al proprio Paese o, ancora, chi trova economicamente ingiustificabile che una multinazionale possa volontariamente tagliarsi fuori da un mercato con possibilità di crescita illimitate. Molti, però, hanno salutato con favore l’ipotesi. Gli analisti economici, a livello internazionale, esprimono più di un dubbio sull’opportunità di escludersi da un mercato che sta al momento crescendo del 40% all'anno. Una tal scelta potrebbe avere degli effetti limitati sull'immediato, ma sul lungo periodo potrebbe rivelarsi disastrosa.

Probabilmente, la cosa migliore da fare, al momento, è prendere con le dovute cautele un annuncio che sembra una presa di posizione, prima che una decisione già presa. Infatti, sul piatto della bilancia ci sono due questioni che stanno molto a cuore a Google: da un lato il ritorno d’immagine negli Usa, acconsentendo alle rigide richieste della censura cinese; dall'altro l’effetto boomerang sulla reputazione dei propri servizi presso gli utenti, che in Cina hanno sistematicamente ben poca sicurezza e privacy.

In occasione del suo ingresso sul mercato cinese, nel gennaio 2006, Google aveva scatenato una protesta nella comunità internazionale. Il motore fu costretto a rispettare le leggi in vigore in Cina e dunque censurare i risultati contrari alla politica locale. Lo scorso giugno, Pechino aveva negato per alcune ore l'accesso a Google e Gmail per costringere il motore di ricerca ad eliminare alcune parole chiave dal suo sistema di ricerca automatica. Oggi, sottraendosi alle leggi cinesi, Google di fatto rompe il patto di neutralità politica rispettato fino ad oggi, con pesanti conseguenze nei prossimi mesi: il braccio di ferro è appena all'inizio.

La risposta cinese è naturalmente politica: "La Cina è favorevole alle attività sul suo territorio delle società Internet internazionali che siano conformi alla legge cinese", é la dichiarazione ufficiale del Governo di Pechino, rilasciata dalla portavoce del ministero degli Affari esteri, Jiang Yu, che prosegue dicendo: "Internet in Cina è aperto e il Governo cinese ne incoraggia lo sviluppo e si sforza di creare un contesto che sia favorevole a ciò".

Sul piano economico, gli esperti del settore ritengono probabile che Google e il Governo cinese possano trovare un compromesso. Già in passato il gruppo californiano ha assunto posizioni drastiche, ma solo come tattica nella trattativa. "Sono sicuro che saranno pragmatici. Google è una società molto dinamica. Dubito che se ne andranno dalla Cina. La presenza nel Paese è cruciale, perché è lì che ci sarà la prossima ondata di crescita", rileva Christopher Tang, professore della Ucla Anderson School of Management. Non bisogna dimenticare infatti che la Cina da sola ha circa 360 milioni di utenti Internet e il suo mercato dei motori di ricerca ha toccato un miliardo di dollari lo scorso anno. Il Governo cinese tuttavia pone stretti limiti all'accesso dei cittadini al Web, operando una censura automatica sui siti sgraditi.

Non è stata solo la portavoce del governo a prendere posizione sulla vicenda. Anche il ministro dell'Ufficio informazioni del Consiglio di Stato, Wang Chen, ha detto che pornografia online, frodi e "rumours", le cosiddette "voci", termine con cui i dirigenti cinesi indicano il dissenso in rete, rappresentano una minaccia. E ha aggiunto che i media su Internet devono contribuire a "guidare l'opinione pubblica" in Cina, brutta espressione con la quale ha voluto ricordare tra le righe che, contando il maggior numero al mondo di utenti, è un mercato importantissimo per gli operatori internazionali, a condizione che accettino la censura imposta dal governo.

Nelle sue dichiarazioni Wang non ha mai citato espressamente Google. Ma sono parole che pesano, soprattutto la pretesa di "guidare l'opinione pubblica", che si scontra con uno dei caposaldi della democrazia, ovvero la libertà di opinione. Difficile dunque immaginare un'intesa attorno ad un qualsivoglia compromesso. A Washington, Barack Obama ha fatto sapere, proprio in concomitanza con il braccio di ferro avviato da Mountain View, che lui e la sua amministrazione sono "convinti sostenitori della libertà per internet".

Sempre negli USA, il New York Times cita "fonti vicine all'indagine" condotta da Google, e spiega che gli attacchi oggetto della presa di posizione sono stati condotti contro 34 compagnie o entità che si trovano nella Silicon Valley, in California, sede dei server di Google usati da molti cinesi che vogliono sfuggire alla censura. Che non colpisce solo i motori di ricerca, ma anche social network e siti di condivisione come Youtube, Facebook e Twitter. Rebecca MacKinnon, esperta di Internet in Cina, afferma che "Google ha subito negli ultimi mesi ripetute prepotenze e rischia di non poter garantire agli utenti la sicurezza delle sue operazioni".

Intanto, Google ha deciso di mettere a disposizione il suo motore senza filtri a tutti gli internauti cinesi. Così, da oggi, in Cina, usando Google, si può vedere la celebre fotografia divenuta simbolo della rivolta degli studenti alle autorità cinesi nel 1989 in piazza Tien an men, fino ad ora censurata. Una vera e propria provocazione. Una risposta politica, a costo di perdere vantaggi economici, che non arriva dall'ONU, ma da un'azienda privata. Anche su questo non c'è da meravigliarsi: mentre gli stati occidentali hanno debiti pubblici sempre più alti, e con quote detenute sempre più spesso proprio dalla Cina (USA in primis), Google è un'azienda con un bilancio solido - certamente più solido di quelli statali - e non ha debiti con nessuno. Neanche con la Cina.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Chiunque abbia un account Facebook, la scorsa settimana avrà sicuramente notato come nella propria home page campeggiasse una lettera personale del fondatore Mark Zuckerberg, in cui veniva spiegato che a breve le impostazioni sulla privacy sarebbero state cambiate. Il crescente numero di utenti, circa 350 milioni, pare aver infatti inficiato l’efficacia di alcune barriere come i network regionali, utili quando il sito contava poche migliaia di persone perché consentivano la condivisione di informazioni anche con chi non fosse propriamente un amico. Nel tempo queste reti territoriali hanno cominciato a contare centinaia di migliaia di persone e la facilità con cui era possibile carpire notizie personali, ha spinto i vertici dell’azienda a eliminarle definitivamente, introducendo una nuova piattaforma d’impostazioni.

Sulla carta, l’operazione di Zuckerberg e soci appare tecnicamente perfetta e soprattutto rispettosa della privacy dei singoli utenti, ma dalla Electronic Frontier Foundation - la più stimata organizzazione no profit nell’ambito della tutela dei diritti civili sul web - arriva un rapporto in cui le innovazioni vengono perlopiù criticate. Secondo gli esperti di San Francisco, infatti, le nuove impostazioni di privacy spingono gli utenti a diffondere nel web i loro contenuti personali: una volta apparso il cosiddetto “transition tool”, il fruitore di Facebook è stato messo davanti al fatto che (di default) tutte le sue informazioni erano visibili a chiunque, e nel caso in cui non si fosse andati personalmente a modificare le impostazioni, i contenuti sarebbero rimasti totalmente accessibili.

A onor del vero, la transizione ha portato una semplificazione significativa dei passaggi per la pianificazione della privacy. Con un’interfaccia più chiara ed intuitiva è ora possibile scegliere, ambito per ambito, cosa far vedere a tutti, solo agli amici oppure agli amici degli amici. In questo modo la privacy sembrerebbe in una botte di ferro: basta un po’ di accortezza ed è possibile schivare il rischio di avere le proprie foto in ambienti o atteggiamenti poco consoni, diffuse su tutto il web.

La questione non è però così semplice. Quando Zuckerberg e soci ci dicono ad esempio che le nostre generalità - ovvero sesso, data di nascita, residenza, lista degli amici e pagine - sono automaticamente visibili nel momento in cui noi facciamo uno di quegli irresistibili test sulla nostra personalità freudiana o parliamo con la nonna di Bari vecchia, si dimenticano di precisare che è proprio da questa nostra gentile concessione che arrivano gli utili della loro azienda. In pratica quei giochini tanto carini sono delle immani miniere d’informazioni su gusti, inclinazioni e comportamenti personali che vanno ad ingrassare le liste di compilazione necessarie a sondaggi e ricerche di mercato di ogni genere e sorta. E com’è ovvio ogni servizio ha un prezzo.

Se a ciò aggiungiamo il fatto che ogni restrizione sulla privacy è una perdita in termini di guadagno per quanto riguarda la probabilità di indicizzazione sui vari motori di ricerca, Google in testa, ben si potrà capire come mai durante la fase di setting delle impostazioni due righe di testo ci suggerissero che “consentire a tutti di vedere le informazioni, faciliterà l’identificazione da parte degli amici”. D’altra parte la concorrenza di una piattaforma come Twitter, in cui tutti i contenuti sono pubblici e di conseguenza indicizzabili da Yahoo e soci, ha un peso sempre maggiore nei bilanci dell’azienda di Zuckerberg.

Ora, il problema non sta tanto nella pubblicazione d’informazioni quali l’istruzione o il luogo di lavoro. I guai cominciano ad arrivare nel momento in cui ragazzini poco meno che adolescenti lasciano, o per buona fede o per pigrizia, le impostazioni di default e rendono pubbliche immagini appetibili ad ogni sorta di maniaco deviato che circoli in rete. Sebbene al momento dell’iscrizione si richieda la maggiore età, su Facebook sono presenti migliaia di studenti delle medie e delle elementari, bambini e ragazzini che si approcciano con curiosità alla rete e vedono in questo sito la via più semplice per creare network interattivi con i propri compagni di scuola, di sport o di vacanze. Sono loro che statisticamente pubblicano più informazioni, sono loro la più grande fonte di guadagno per le ricerche commerciali ma sono anche loro ad essere i più esposti alle minacce che un sistema come il web, anarchico per antonomasia, non può illudersi di combattere né tantomeno eludere.

di Rosa Ana De Santis

Papa Ratzinger torna in udienza generale a ribadire l’intoccabilità, da parte della politica, dei confini estremi dell’esistenza umana. Nessuna sorpresa che il capo della Chiesa Cattolica riconduca all’autorità del Creatore la vita terrena, l’azione morale e il valore degli eventi. La fede e soltanto gli argomenti mistici che la sostengono possono arrivare a questo, in perfetta coerenza e armonia di ragionamento. Più difficile è il ricorso alla tesi della natura e delle sue leggi.

Difficile perché non sempre difendibile, soprattutto da parte di coloro che per primi muovono ogni giorno battaglie culturali sulla moralità e la bontà dell’agire umano. Non è certamente l’attuale Pontificato ad essersi inventato il ricorso all’argomento della bontà della natura. E’ un metodo spesso rivendicato dalla religione cattolica, infarcito - va precisato - al momento giusto di proiezioni provvidenziali sul corso degli accadimenti naturali volte a coprire i buchi neri del ragionamento e le contraddizioni.

Andrebbe intanto ricordato che il confine tra quanto segue il corso della natura e quanto è prodotto dalla tecnica e dalla scienza non è dato una volta per tutte. Se non fosse così, con il progresso della medicina oggi non ci porremmo interrogativi etici che anche solo decenni fa sarebbero stati al limite della fantasia. I diversi modi di procreare e di nascere o di non nascere, l’eutanasia, il suicidio assistito, l’accanimento terapeutico sono confini dell’esistenza che non rappresentano più limiti concettuali, né confini invalicabili di azione.

Il limite del non naturale si è spostato in avanti, rivoluzionando in profondità costumi culturali ed emozioni. Quello che fa la filosofia morale è proprio lavorare su questi spazi nuovi di ragionamento. Costruire argomenti, fondarli, rispondere alle obiezioni. Tutto il contrario di quello che Benedetto XVI va dicendo sui giornali e sulla tv ammonendo la superbia degli uomini. Non c’é alcun abbandono della morale e alcun incedere nel relativismo. Si cerca, al contrario,di rendere l’azione degli uomini sempre più blindata e fortificata dalla ragione per reggere l’impatto con le nuove possibilità di vivere e di pensare l’esistenza. Scivolare dalle novità morali al rischio del disorientamento personale è il metodo tipicamente clericale di toccare le corde emotive della paura per paralizzare ogni forma di risveglio di coscienza. Il vero nemico non è il paventato nichilismo dei valori, ma l’autonomia di giudizio. Sarà bene ricordarlo.

Andiamo sugli esempi. Secondo i cattolici abortire non è naturale o, per dirla meglio, è l’interruzione immorale di un percorso potenziale inscritto nel dna della procreazione naturale.  Ma dove sta la verità di quest’affermazione? Sappiamo bene che l’aborto può avere anche una genesi naturale e spontanea. Facile smascherare l’ipocrisia di ragionamento. Non è il fatto di natura in sé e per sé, direbbe Hegel, ad avere una sua legittimazione o verità, ma l’intenzione morale che può indurre una donna ad intervenire sul corso degli eventi. Il vero bersaglio della condanna religiosa è la moralità che contraddice la dottrina, poco c’entra la natura. Quello che sembra uno slittamento raffinato e puramente accademico, ci permette invece di elencare tantissimi esempi in cui il corso della natura, elevato dai cattolici a paradigma, porta alla sensibilità morale di ognuno eventi assolutamente inaccettabili.

La selezione degli organismi più forti con corredo genetico migliore, ad esempio. E’ proprio la natura matrigna, così non a caso l’ha messa in versi un grande conoscitore dell’animo umano come Leopardi, ad approntare una severissima eugenetica. I deboli, i meno adatti alla competizione per la sopravvivenza, soccombono, ammalandosi e morendo, ad esempio. Non importa se bambini, giovani, d’animo nobile e d’intelletto. La natura li scarta. E’ l’azione delle persone e l’intenzione morale ad intervenire con dei correttivi tecnici. La cura e le terapie non sono altro che il segno tangibile del progresso della tecnica utilizzato secondo ragioni e intenzioni che attengono alla sfera dell’azione e quindi alla moralità.

La natura procede rimuovendo ogni valutazione di giusto o sbagliato. Le appartengono i fatti, senza valutazioni intrinseche di bontà. La malattia o la sofferenza fisica, o la nascita con deficit psico-fisici, è forse un bene in sé? La fede, spiegherebbe con buona probabilità il Papa, può attribuire significati positivi anche ad eventi come questi, seguendo come si preferisce la dottrina della provvidenza, la salvezza della croce o la prospettiva del Paradiso. Tesi di fede che nulla hanno a che vedere con la giustezza di ciò che la natura dispone. Ed é per questo che il richiamo alla legge naturale oltre ad essere sempre più incrinato dalle evidenze scientifiche, rischia di danneggiare la religione e la sua funzione sociale, piuttosto che rafforzarla come poteva accadere in passato. A questo va aggiunto che questa arringa sulla natura confligge con il lavoro enorme e complesso che la filosofia fa da sempre, entrando nei laboratori della scienza. Dai geni alle stelle.

L’argomento della natura dovrebbe servire, nelle intenzioni della Chiesa e nella dialettica con la legge pubblica, a conquistare il consenso di quanti non sono rigorosamente fedeli. Tutti coloro per i quali la spiegazione rigorosamente dogmatica non può essere convincente. Ma è una teoria di conservazione della tradizione, di debole resistenza al progresso che manca di evidenze e di coerenza interna. E’ proprio la scienza degli uomini a smentirla ogni giorno sempre di più.

Se la Chiesa deve continuare a mantenere, come pure é comprensibile, una pastorale di monito e condanna sulla crescente disponibilità della vita alla scelta degli uomini e delle donne, in onore ad una sacralità che è religiosa e non scientifica, dovrà dare luogo ad una rivisitazione generale del proprio linguaggio e, forse, a un ritorno anche un po’ romantico, se vogliamo, della religione all’esistenzialismo.

E’ di questo forse, più di ogni altra cosa, che ha bisogno l’uomo contemporaneo, Credere fosse anche alla consolazione più inesistente in natura. Più la scienza va avanti e la filosofia ne accompagna moralmente il corso, più la religione deve rientrare in un ambito specifico e intimo che rinunci a spiegare a mutuare dalla natura prove e fondamenti che tanto non potrà dimostrare.

Galileo Galilei, solo di recente riabilitato, sosteneva che mentre la scienza c’insegna come vadia il cielo, la religione ci dice come si vadia al cielo. Alla Chiesa che sente la necessità di limitare l’azione degli uomini sui confini estremi della vita non spettano argomenti che non siano rigorosamente di fede. E ‘ proprio la filosofia della natura a conquistare sempre meno spazi di credibilità, mentre la cultura scientifica sempre di più consegna la vita, fin dalle sue forme minime ed essenziali, a ciò che ciascuno sceglie di essere o fare. Vivere ed esistere non saranno mai la stessa cosa e la morale non è scritta nei geni, ma nella libertà. Un vizio della specie umana che la natura proprio non può tollerare. E la Chiesa, forse più di dio, nemmeno.

 


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